LA CASSAZIONE IN CONTROTENDENZA AMMETTE LA RISARCIBILITÀ DEL DANNO DA PERDITA DEL DIRITTO ALLA VITA

[vc_row css=”.vc_custom_1595493734065{margin-bottom: 30px !important;}”][vc_column][edumax_title title=”LA CASSAZIONE IN CONTROTENDENZA AMMETTE LA RISARCIBILITÀ DEL DANNO DA PERDITA DEL DIRITTO ALLA VITA” subtitle=”Cassazione Civile Sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361 – Pres. Russo, Est. Scarano”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]1. Costituisce danno non patrimoniale anche il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica.

2. Il danno da perdita della vita è altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se nella sua oggettività di perdita del principale bene dell’uomo costituito dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, e dovendo essere ristorato anche in caso di morte cd. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto al riguardo rilievo la persistenza in vita all’esito del danno evento da cui la morte derivi nè l’intensità della sofferenza interiore patita dalla vittima in ragione della cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine.

3. Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacchè la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l’illecito non ne avesse causato la soppressione.

4. Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis.

5. Non essendo il danno da perdita della vita della vittima contemplato dalle Tabelle di Milano, è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice di merito l’individuazione dei criteri di relativa valutazione che consentano di pervenire alla liquidazione di un ristoro equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità, non apparendo pertanto idonea una soluzione di carattere meramente soggettivo, né la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in particolare dell’età delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1 motivo i ricorrenti in via principale denunziano violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., artt. 2, 3, 13, 22, 27 e 32 Cost., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che, nel limitarsi a richiamare la motivazione del giudice di prime cure secondo cui “tale diritto non può essersi consolidato – trasmettendosi agli eredi – essendo trascorso un tempo di circa tre ore e mezza dal fatto al decesso”, erroneamente la corte di merito abbia negato il risarcimento del danno da “lesioni mortali” subito dalla P.G. e consistente nel “danno morale, biologico (anche sotto l’aspetto psichico) ed esistenziale” che “non può non sorgere, nè mutare, per il solo fatto che la morte sopravvenga dopo un tempo più o meno apprezzabile, secondo un giudizio postumo espresso da terzi circa detto lasso di tempo”, e che si tratta invero di “individuare la misura degli indennizzi dei tre tipi di danno: morale, biologico, esistenziale. Se da un lato è corretto che i danni da lesioni siano correlati alla durata della sopravvivenza, occorre considerare che ciò vale solo per il risarcimento della invalidità temporanea mentre, in caso di lesioni mortali, il danno morale, biologico ed esistenziale, per chi sente finire la propria vita, è assoluto ed incommensurabile. Il danno morale – secondo la giurisprudenza – è di natura istantanea, e non è commisurabile alla durata successiva della vita; quello esistenziale – per chi si sente morire – non può essere da meno”.
Lamentano che la corte di merito non ha pronunziato in ordine al pure richiesto risarcimento del danno da “morte propria” subito dalla P.G., atteso che la suindicata motivazione “è riferibile chiaramente ai soli danni di natura morale, biologica ed esistenziale, collegati alle lesioni ed alla loro assoluta gravità che, secondo consolidati principi giurisprudenziali, debbono essere rapportati al tempo di sopravvivenza, ma non è in alcun modo riferibile ai danni da morte propria, che sono del tutto svincolati dalla durata della sopravvivenza”, sicchè invero omessa risulta la considerazione del ristoro anche del “danno da morte propria” della vittima.
Lamentano che erroneamente la corte di merito ha fatto nel caso riferimento alla necessità della sussistenza di un certo lasso di tempo tra il fatto evento dannoso e la morte, giacchè “le vittime di incidenti mortali maturano iure proprio il diritto ad essere risarciti del danno non patrimoniale quando la morte non sia istantanea”, e nella specie “la morte della P. è sopravvenuta dopo oltre tre ore e dopo che aveva chiesto, al personale del Pronto soccorso, dei propri familiari”.
Si dolgono non avere la corte di merito considerato che il danno da morte della vittima è altro e diverso dal danno biologico dalla medesima sofferto, e che “anche il diritto alla vita è un bene costituzionalmente tutelato, sebbene non sia così espressamente menzionato nella Carta Costituzionale. Ciò discende dalla combinata lettura dell’art. 27 che vieta la pena di morte, dell’art. 2 che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (fra cui il principale è certo il diritto alla vita), e degli artt. 13, 22, 32 che tutelano la persona sotto vari aspetti, ponendola sul gradino più alto dei diritti riconosciuti”.
Lamentano essersi dalla corte di merito erroneamente considerato non risarcibile alla vittima il danno subito in ragione della propria morte, argomentando dal rilievo che il “danno da morte … è danno alla vita, il quale non sarebbe configurabile perchè la vittima, morendo, perde la capacità giuridica e quindi non ha più diritto d’essere risarcita per la propria morte”, laddove “il codice di procedura penale trasmette ai parenti prossimi i diritti della persona offesa deceduta in conseguenza del reato, e, quindi, riconosce anche il diritto al risarcimento del danno trasmesso agli eredi”, sicchè, “se nello stesso istante coincidono la morte, il danno da morte, la perdita dei diritti da parte della vittima e la successione nei diritti da parte degli eredi, allora non si possono favorire gli omicidi, consentendo di non pagare, direttamente alla vittima (e, per essa, agli eredi) il risarcimento del danno provocato uccidendola”.
Lamentano ulteriormente che la “coesistenza, nello stesso istante, di tali eventi, non può e non deve essere interpretata nel senso favorevole al reo, risparmiandogli la sanzione civile del risarcimento del danno alla vittima, ma nel senso contrario, imponendogli di risarcire alla vittima, e per lei ai suoi eredi, il danno derivato dalla perdita della vita, che è il danno più assoluto che una persona possa subire. Si tratta – quindi – di un danno non patrimoniale (biologico, morale ed esistenziale, o come diversamente lo si voglia chiamare), trasmissibile agli eredi”.
Deducono ancora che “Siffatta interpretazione delle conseguenze della coincidenza, nello stesso istante, della morte e del correlato diritto al risarcimento, che favorisca la vittima invece dell’omicida, ha la stessa identica dignità – logica e giuridica – della corrente interpretazione contraria che, dalla contestualità della morte, fa discendere la perdita del diritto al risarcimento da morte propria. Se tutto è contestuale, non è logico, nè costituzionale, ritenere l’interpretazione che nega alla vittima il diritto al risarcimento del danno, biologico e morale, da morte propria, solo perchè la sua vita finisce: nella contestualità il diritto sorge e, nella stessa contestualità, si trasferisce agli eredi”.
“Si tratta”, precisano i ricorrenti, “del danno al bene assoluto alla vita, diverso dal danno alla salute, costituzionalmente tutelato (sia in sede nazionale sia in sede Europea) … infatti … anche la Costituzione Europea, norma sopranazionale, all’art. 61 scrive “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata” e all’art. 62 aggiunge “Ogni persona ha diritto alla vita”.
E … il mancato riconoscimento del diritto dedotto dai ricorrenti comporta pure la violazione della Costituzione Europea”.
Osservano che “il riconoscimento del diritto all’indennizzo dei danni da morte propria ha già diversi sostenitori (non solo in dottrina, ma anche) in giurisprudenza”, e che “la sentenza n. 15760 del 12.7.2006 (3A Sez. Pres. Dott. Duva, Rel. Dott. Petti) … in motivazione entra espressamente nel tema riconoscendo il diritto in trattazione”; ancora, che la giurisprudenza ha in più occasioni riconosciuto alla vittima il danno biologico da morte e il danno morale da morte, considerandolo trasmissibile agli eredi.
Lamentano non essersi dalla corte di merito considerato che “è loro dovuto, iure hereditatis, il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale subito dalla vittima (per la morte provocata dalle lesioni mortali) da liquidare in via equitativa”.
Con il 2 motivo denunziano violazione dell’art. 112 c.p.c., “violazione errata interpretazione o mancata applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
nonchè “insufficiente, contraddittoria, omessa” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamentano che erroneamente la corte di merito non ha liquidato il “risarcimento dei danni non patrimoniali (danno morale, biologico ed esistenziale)” subito per la “morte del padre, suicidatosi in seguito alla depressione indotta dalla perdita della moglie, vittima diretta del sinistro”.
Si dolgono che dopo avere la corte di merito riconosciuto che “l’accertato collegamento tra la morte del S. e quella della moglie a seguito dell’incidente incide sulla quantificazione del danno”, nell’impugnata sentenza la questione non risulti essere stata più a tal fine dalla stessa presa in considerazione e valorizzata.
Lamentano che non solo il danno morale ed esistenziale sofferto dal proprio padre per la morte della di lui moglie e loro madre deve essere ristorato e considerato loro trasmissibile iure hereditatis, ma anche il “danno non patrimoniale da essi subito per la morte del padre, suicidatosi”, essendosi “visti privare del genitore, sia pure in seguito a suicidio, trattandosi di suicidio derivato dal sinistro”, giacchè “se una delle ragioni del suicidio è la morte della moglie cagionata dal sinistro, allora anche la morte di S.M. è una delle conseguenze di quel fatto, ed è fonte di danno indennizzabile agli eredi”.
Con il 3 motivo denunziano “violazione errata interpretazione o mancata applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “insufficiente, contraddittoria, omessa” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto nel caso “congrua” la liquidazione operata dal giudice di prime cure in favore della F. e del P.V., ravvisandola corrispondente “ai normali parametri liquidatori” e argomentando dal rilievo che “gli appellanti, “al di là di una generica censura” non avevano fornito “alcun elemento utile per discostarsene”, laddove essi “avevano dedotto, in appello, l’inadeguatezza delle liquidazioni ricevute, siccome non corrispondenti ai criteri in uso presso il Foro di Milano (le ben note tabelle, adottate praticamente in tutta Italia). Chiedendone, di conseguenza, adeguato aumento”.
Lamentano che la corte di merito è invero pervenuta a liquidare importi inferiori addirittura al minimo previsto dalla Tabelle di Milano, da considerarsi per la notorietà e diffusione raggiunta “alla stregua degli usi o consuetudini”.
Con il 4 motivo denunziano violazione degli artt. 112, 163 e 342 c.p.c., “violazione errata interpretazione o mancata applicazione” degli artt. 2043, 2059 e 2909 c.c., L. n. 57 del 2001, art. 5, art. 138 cod. ass., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
nonchè “omessa e/o carente, contraddittoria, non congrua” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che il danno morale sofferto dal S.M. sia stato liquidato all’attualità, ma con importo non comprendente gli interessi, in quanto “è ben noto che le tabelle attualizzano la pura sorte e non anche gli interessi”.
Lamentano che il “danno biologico psichico del S.” da depressione è stato apoditticamente stimato nella percentuale del 30%, invero incongrua atteso che “se nei primi momenti la salute del S. poteva avere subito un danno limitato (sia esso al 30% od in diversa misura), è certa una evoluzione, sicuramente negativa, in peius, tale che l’invalidità mentale del S. ha certamente raggiunto il 100%, al momento del suicidio”.
Si dolgono che il danno biologico psichico del S. sia stato liquidato considerandosi solamente l’età ai fini della relativa personalizzazione.
Lamentano che il danno biologico fisico del S., superiore ai 9 punti, è stato liquidato con “una somma inferiore a quella stabilita dalla L. n. 57 del 2001 e dall’art. 138 Codice Assicurazioni”.
Si dolgono che anzichè aumentare, come richiesto, quanto liquidato dal giudice di prime cure a titolo di indennizzo per il danno esistenziale, “ivi compreso quanto di spettanza del defunto padre M.”, la corte di merito abbia negato il ristoro di tale voce di danno in quanto non domandato nè provato, laddove “nella specie S.C. e M. non si sono limitati a dedurre “tutti i danni” ma hanno pure specificato “sotto qualsiasi aspetto risarcibile”, formula che certamente include anche il danno esistenziale”.
Con il 5 motivo denunziano violazione degli artt. 112, 132, 324, 342, 343 e 345 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione degli artt. 2043, 2059, 2697 e 2909 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia liquidato il danno iure proprio subito dal S.M. e dalla C. per “la morte della madre … e non anche per quella del padre”.
Lamentano che il danno è stato liquidato con importi non corrispondenti a quelli previsti dalle Tabelle di Milano, e senza relativa adeguata personalizzazione in riferimento a ciascuno dei essi, ma con meccanica divisione per due degli importi presi in considerazione.
Con il 6 motivo denunziano violazione degli artt. 112, 324, 342, 343 e 345 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 2909 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “carenza o difetto di congruità” della motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente riformato il capo della condanna di controparte al pagamento delle spese di lite del giudizio di primo grado, giacchè in assenza di impugnazione incidentale della medesima, su di esso si è conseguentemente formato il giudicato.
Con unico motivo la ricorrente incidentale società Allianz s.p.a.
(già R.A.S. s.p.a.) denunzia violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si duole che la corte di merito erroneamente non abbia dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno da morte, non proposta nel giudizio di primo grado, e dal S.M. e C. introdotta per la prima volta solo in appello.
Con unico motivo il ricorrente incidentale V. denunzia violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Si duole che la corte di merito erroneamente non abbia dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno da morte, non proposta nel giudizio di primo grado, e dal S.M. e C. introdotta per la prima volta solo in appello.
I motivi dei ricorsi, principale e incidentali, possono congiuntamente esaminarsi, in quanto connessi.
Infondati e da rigettarsi quelli dei ricorsi incidentali, i motivi del ricorso principale sono fondati e vanno accolti nei termini e limiti di seguito indicati.
Va anzitutto osservato che la ristorabilità del danno non patrimoniale costituisce ormai regola di diritto effettivo.
La tradizionale interpretazione che negava la generale risarcibilità del danno non patrimoniale in ragione della insuscettibilità di valutazione economica degli interessi personali lesi, limitandola ad ipotesi eccezionali, risulta da tempo superata.
Essa si basava sulla concezione paneconomica del diritto privato, sulla quale ha peraltro decisivamente inciso l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che anche nei rapporti della vita comune di relazione ha determinato l’assunzione di preminente rilievo del principio della centralità della persona e della tutela dei suoi valori.
La coscienza sociale ha avvertito l’insopprimibile esigenza di non lasciare priva di ristoro la lesione di valori costituzionalmente garantiti, dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali della persona, in particolare i diritti all’integrità psico-fisica e alla salute, all’onore e alla reputazione, all’integrità familiare (v.
Cass., 31/5/2003, n. 8827 e Cass., 31/5/2003, n. 8828; Corte Cost., 14/7/1986, n. 184. V. altresì Cass., 7/11/2003, n. 16716; Cass., 14/6/2007, n. 13953), allo svolgimento della personalità e alla dignità umana.
Il ristoro della lesione dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali mediante l’attribuzione di una somma di denaro non assolve ad una funzione punitiva, propria invero di altri settori dell’ordinamento (cfr. Cass., 8/2/2012, n. 1781; Cass., 12/6/2008, n. 15814; Cass., 19/1/2007, n. 1183), e nemmeno deterrente, nè costituisce la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, ma vale a compensare un pregiudizio non economico (v. Cass., 8/8/2007, n. 17395; Cass., 31/5/2003, n. 8827).
L’indennizzo non ha e non può avere funzione reintegrativa nemmeno delle sofferenze morali e dei “torti giuridici” subiti, essendo invero volto a tutelare l’esigenza di assicurare al danneggiato un’adeguata riparazione come utilità sostitutiva (cfr. Cass., 14/2/2000, n. 1633; Cass., 25/2/2000, n. 2134; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 30/7/2002, n. 11255; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., 25/5/2007, n. 12253).
La non patrimonialità – per non avere il bene persona un prezzo – del diritto leso, che va tenuta distinta dalla natura patrimoniale o non patrimoniale del danno, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa (V. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit.; Cass., 31/5/2003, n. 8828. E già Cass., 5/4/1963, n. 872. Cfr. altresì Cass., 10/6/1987, n. 5063; Cass., l/4/1980, n. 2112; Cass., 11/7/1977, n. 3106).
La valutazione equitativa è diretta a determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa” (in ordine al significato che nel caso assume l’equità v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Subordinata all’esistenza del danno risarcibile e alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già all’individuazione del danno (non potendo valere a surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio imposto all’art. 2697 c.c.: v., da ultimo, Cass., 11/5/2010, n. 11368; Cass., 6/5/2010, n. 10957; Cass., 10/12/2009, n. 25820), la valutazione equitativa deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione.
Come avvertito anche in dottrina, l’esigenza di una tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione non può d’altro canto tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa quantificazione nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 31/5/2003, n. 8828).
Il danno non patrimoniale non può essere liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all’effettiva natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass., 11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congruo.
Per essere congruo il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740. Nel senso che il risarcimento deve essere senz’altro “integrale” v. peraltro Cass., 17/4/2013, n. 9231).
Si profila altrimenti l’operare dell’istituto del danno differenziale, proprio dei sistemi indennitari e di dubbia compatibilita viceversa con quello della r.c.a., prospettandosi a tale stregua il rischio che vengano a risultare (quantomeno parzialmente) vanificate le ragioni che di quest’ultimo hanno a suo tempo determinato l’introduzione nell’ordinamento.
Nell’operare la ricostruzione del sistema dei danni con indicazione delle “regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale” alla stregua di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (cfr. Corte Cost., 11/7/2003, n. 233), costituente principio informatore della materia, fondamentale rilievo le Sezioni Unite del 2008 hanno assegnato al principio della integrante del risarcimento, sottolineando la necessità che si pervenga a “ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Emerge a tale stregua, da un canto, l’illegittimità dell’apposizione di una limitazione massima non superabile alla quantificazione del ristoro dovuto (v. infra); e, per altro verso, la indefettibile necessità che nessuno degli aspetti di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso concreto accertata, rimanga priva di ristoro, dovendo essere essi presi tutti in considerazione a fini della determinazione dell’ammontare complessivo del risarcimento conseguentemente dovuto al danneggiato/creditore (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108; Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 13/5/2011, n. 10527).
Come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008 la categoria del danno non patrimoniale risulta delineata in termini di categoria concernente ipotesi di lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, di natura composita, articolantesi in una pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o cd. danno esistenziale (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit. v. altresì Cass., Sez. Un., 19/8/2009, n. 18356, e, da ultimo, Cass., 19/2/2013, n. 4043).
Le Sezioni Unite del 2008 hanno inteso il danno morale quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), a tale stregua recependo la relativa tradizionale concezione affermatasi in dottrina e consolidatasi in giurisprudenza (in precedenza volta a limitare la risarcibilità del danno non patrimoniale alla sola ipotesi di ricorrenza di una fattispecie integrante reato).
Con riferimento all’art. 2059 c.c., ribadendo l’impossibilità di prescindersi dal dato normativo (in tali termini v. già Cass., 12/6/2006, n. 13546) e dalla relativa interpretazione andata maturando nel tempo (cfr. Cass., 11/6/2009, n. 13547), si è dalle Sezioni Unite escluso che la formula danno morale individui “una autonoma sottocategoria di danno”.
Sottolineandosi che nè l’art. 2059 c.c. nè l’art. 185 c.p. ne fanno menzione, e “tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio”, il danno morale si è ravvisato indicare solamente uno dei molteplici, possibili pregiudizi di tipo non patrimoniale, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata, la cui intensità e durata nel tempo rilevano non già ai fini della esistenza del danno, bensì della mera quantificazione del relativo ristoro.
Facendo richiamo a pronunzie (in particolare a Cass., 9/11/2005, n. 21683 e a Cass., 25/2/2004, n. 3806) che del danno morale (così come di quello biologico) avevano accordato il risarcimento in correlazione con il tempo di vita effettiva, a tale stregua “postulandone la permanenza” in vita, le Sezioni Unite del 2008, innovando al precedente orientamento maturato nella giurisprudenza di legittimità, sono pervenute a negare che la sofferenza morale sia necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo, superando pertanto la tesi che restringeva o limitava la categoria del danno non patrimoniale alla mera figura del cd. danno morale soggettivo transeunte.
In epoca successiva alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, il danno morale è stato dal legislatore definito quale “sofferenza e turbamento dello stato d’animo, oltre che della lesione alla dignità della persona” D.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, art. 5, comma 1, lett. c), (recante “Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servìzio per il personale impiegato nelle missioni militari all’estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma della L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, commi 78 e 79”), poi abrogato dal D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art. 2269, comma 1, n. 385, (Codice dell’Ordinamento militare), con la decorrenza prevista dal medesimo D.Lgs. n. 66 del 2010, art. 2272, comma 1, nonchè quale “pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sè considerato” D.P.R. 30 ottobre 2009, n. 181 (“Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’individualità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma della L. 3 agosto 2004, n. 206, art. 6”).
La qualificazione del danno morale in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana, desumibile dall’art. 2 Cost. in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona (ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 190), risulta peraltro già da tempo recepita (anche) dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 12/12/2008, n. 29191; Cass., 11/6/2009, n. 13530; Cass., 10/3/2010, n. 5770), che nel segnalarne l’ontologica autonomia, in ragione della diversità del bene protetto, attinente alla sfera della dignità morale della persona, ha sottolineato la conseguente necessità di tenersene autonomamente conto, rispetto agli altri aspetti in cui si sostanzia la categoria del danno non patrimoniale, sul piano liquidatorio.
Laddove i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, avente tendenzialmente portata onnicomprensiva (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, e, successivamente, Cass., 13/5/2011, n. 10527), sotto quest’ultimo profilo si è escluso che il valore della integrità morale possa stimarsi in una mera quota minore del danno alla salute, e di potersi fare ricorso a meccanismi semplificativi di tipo automatico (v. Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 13/12/2012, n. 22909; Cass., 12/9/2011, n. 18641; Cass., 19/1/2010, n. 702), in quanto inidonei a consentire di cogliere il punto di riferimento dai giudici di merito in concreto preso in considerazione nel caso di specie ai fini della debita personalizzazione della liquidazione del danno morale; nonchè di far intendere in quali termini si sia al riguardo tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, al fine di potersi essa considerare congrua e adeguata risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228).
La definizione del danno morale è pertanto venuta ormai a connotarsi di significati ulteriori rispetto al mero patema d’animo, alla sofferenza interiore o perturbamento psichico, secondo la relativa accezione come detto accolta dalle Sezioni Unite del 2008. E il danno morale, inteso quale lesione della dignità o integrità morale, massima espressione della dignità umana, assume specifico e autonomo rilievo nell’ambito della composita categoria del danno non patrimoniale, anche laddove la sofferenza interiore non degeneri in danno biologico o in danno esistenziale (v. Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585).
L’autonomo rilievo del danno morale, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, rispetto al danno biologico e al danno esistenziale, trova significativa espressione pure sotto il profilo del danno morale terminale (v. infra).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la natura non patrimoniale del danno morale non osta alla cedibilità dell’acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
Il danno biologico costituisce aspetto, ulteriore e diverso dal danno morale, che della categoria generale prevista dall’art. 2059 c.c. concorre ad integrare il contenuto.
Dalle Sezioni Unite del 2008 si è preso atto che il danno biologico è normativamente definito in termini di lesione psicofisica (temporanea o permanente) accertabile in sede medico-legale (L. n. 57 del 2001, art. 5, comma 3, in tema di responsabilità civile auto;
D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, in tema di assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e degli infortuni professionali; D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139, cd.
Codice delle assicurazioni private).
Osservando che nel Codice delle assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005) viene fatto espressamente riferimento (anche) alla negativa incidenza di tale lesione sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, le Sezioni Unite hanno al riguardo sottolineato la generale valenza e il carattere vincolante di tale figura, sintesi dei “risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale” (così Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Originariamente dalla Corte Costituzionale considerato risarcibile ex art. 2059 c.c. (v. Corte Cost., 26/7/1979, n. 88), il danno biologico è stato dalla stessa Corte Costituzionale, al fine di sottrarlo ai limiti risarcitori posti da tale norma, successivamente ritenuto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., ravvisato applicabile a tutti i pregiudizi di carattere non patrimoniale subiti in dipendenza dell’illecito, ivi ricompresi quelli corrispondenti alla menomazione dell’integrità fisica in sè e per sè considerata (v. Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
Nel superare la relativa configurazione in termini di danno-evento (elaborata da Corte Cost. n. 184 del 1986 e accolta quindi nella giurisprudenza di legittimità: v. Cass., 23/6/1990, n. 6366), e affermare la risarcibilità dei soli danni-conseguenza, il danno biologico è stato quindi sempre dalla Corte Costituzionale nuovamente ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. (v. Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
Orientamento quest’ultimo dapprima confermato dalle sentenze gemelle Cass. n. 8827 del 2003 e Cass. n. 8828 del 2003, e quindi posto dalle Sezioni Unite del 2008 a base, come assioma, dell’operata ricostruzione sistematica del danno non patrimoniale.
Nel danno biologico si considerano ormai da tempo ricomprese numerose figure, quali il cd. “danno estetico” (v., da ultimo, Cass., 16/5/2013, n. 11950) e il cd. “danno alla vita di relazione”, anch’esso ritenuto (dopo essere stato originariamente considerato un aspetto del danno patrimoniale, quale impossibilità o anche mera difficoltà, per colui che ha subito menomazioni fisiche, di reinserirsi nei rapporti sociali e di mantenere questi ad un livello normale, sì da diminuire o annullare, secondo i casi, le possibilità di collocamento e di sistemazione del danneggiato: v.
Cass., 10/3/1992, n. 2840; Cass., 9/11/1977, n. 4821; Cass., 3/6/1976, n. 2002; Cass., 5/12/1975, n. 4032; Cass., 11/5/1971, n. 1346; Cass., 24/4/1971, n. 1195) rientrante nel concetto di danno alla salute, e pertanto solo a tale titolo liquidabile (v. Cass., 21/3/1995, n. 3239; e, da ultimo, Cass., 16/8/2010, n. 18713; Cass., 13/7/2011, n. 15414). Ancora, il danno da impotenza sessuale, da malattie nervose, insonnia, alterazioni mentali: figure tutte elaborate dalla giurisprudenza al fine di ovviare ai limiti risarcitori imposti dalla tradizionale rigorosa interpretazione dell’art. 2059 c.c..
Con riferimento al danno biologico, la natura non patrimoniale si è escluso essere ostativa alla cedibilità dell’acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
Terzo aspetto o voce di danno non patrimoniale è rappresentato dal danno da perdita del rapporto parentale o cd. danno esistenziale.
Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, le Sezioni Unite del 2008 hanno in proposito significativamente precisato che:
a) in presenza di reato (è sufficiente che il fatto illecito si configuri anche solo astrattamente come reato: v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già Cass., Sez. Un., 6/12/1982, n. 6651. Da ultimo v. Cass., 6/4/2011, n. 7844), superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare rectius, nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile, ove costituisca conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le Convenzioni internazionali (come la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c., la tutela penale costituendo sicuro indice di rilevanza dell’interesse leso;
b) in assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Fattispecie quest’ultima considerata integrata ad esempio in caso di sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), in quanto il “pregiudizio di tipo esistenziale” consegue alla lesione dei “diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.)”.
In tali ipotesi, hanno precisato le Sezioni Unite, vengono in considerazione pregiudizi che, attenendo all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che ciò possa tuttavia riverberare in termini di configurazione di una “autonoma categoria di danno” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. Conformemente, nel senso che il “danno cd.
esistenziale non costituisce voce autonomamente risarcibile, ma è solo un aspetto dei danni non patrimoniali di cui il giudice deve tenere conto nell’adeguare la liquidazione alle peculiarità del caso concreto, evitando peraltro duplicazioni risarcitorie, v., da ultimo, Cass., 30/11/2011, n. 25575; Cass., 9/3/2012, n. 3718, Cass., 12/2/2013, n. 3290).
Altri pregiudizi di tipo esistenziale, si è dalle Sezioni Unite sottolineato, attinenti alla sfera relazionale della persona ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico, sono risarcibili ove siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.
Al contrario di quanto da alcuni dei primi commentatori sostenuto, e anche in giurisprudenza di legittimità a volte affermato (v. Cass., 13/5/2009, n. 11048, e, da ultimo, Cass., 12/2/2013, n. 3290), deve escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la configurabilità e la rilevanza a fini risarcitori (anche) del cd.
danno esistenziale.
Al di là della qualificazione in termini di categoria, nelle pronunzie del 2008 risulta infatti confermato che, quale sintesi verbale (in tali termini v. già Cass., 12/6/2006, n. 13546), gli aspetti o voci di danno non patrimoniale non rientranti nell’ambito del danno biologico, in quanto non conseguenti a lesione psico- fisica, ben possono essere definiti come esistenziali, attenendo alla sfera relazionale della persona, autonomamente e specificamente configurabile allorquando la sofferenza e il dolore non rimangano più allo stato intimo ma evolvano, seppure non in “degenerazioni patologiche” integranti il danno biologico, in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. Nel senso che il danno biologico può sostanziarsi nel “danno alla salute” che risulti “il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anzichè esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il i risarcimento”, v. già Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
Il danno esistenziale si è dunque ravvisato costituire un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto sia dal danno morale che dal danno biologico, con i quali concorre a compendiare il contenuto della generale ed unitaria categoria del danno non patrimoniale.
Essendo il cd. danno esistenziale privo di fonte normativa (a meno di non voler in proposito valorizzare il richiamato riferimento agli aspetti relazionali contenuti definizione normativa del danno biologico, con la conseguenza peraltro di ancorarne la considerazione al mero ricorrere di quest’ultimo, laddove il danno esistenziale può invero ricorrere anche in assenza di danno biologico e di danno morale: v. oltre), le Sezioni Unite del 2008 hanno ripreso la nozione da esse stesse posta nel 2006.
Del tutto correttamente, non apparendo revocabile in dubbio che è il principio di effettività il quale designa la regola che vive nella realtà dell’ordinamento, come essa è applicata nella risoluzione dei casi concreti della vita di relazione, il significato che ne emerge alla stregua della evoluzione conseguente al relativo affinamento in ragione del costante adeguamento al sentire sociale (regola effettiva): cfr. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144, del quale la giurisprudenza costituisce naturale e principale indice (v. Cass., 11/5/2009, n. 10741), a dover in tal caso orientare l’interprete (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
Orbene, il danno esistenziale si è dalle Sezioni Unite ravvisato consistere nel pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diversa quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. In altri termini, nel “danno conseguenza della lesione”, sostanziantesi nei “riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione dello stile di vita” (così Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
Per aversi danno esistenziale è quindi indefettibilmente necessario che la lesione riverberi sul soggetto danneggiato/creditore in termini tali da alterarne la personalità, inducendolo a cambiare (stile di) vita, a scelte di vita diversa (in tali termini v. Cass., 5/10/2009, n. 21223), in senso ovviamente peggiorativo (per il riferimento al mero peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie v. invero Cass., Sez. Un., 15/1/2009, n. 794), rispetto a quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso.
Siffatto aspetto risulta nelle sentenze delle Sezioni Unite del 2008 tenuto invero pienamente in considerazione, potendo allora ben dirsi che alla stregua della regola vigente in base al principio di effettività è l’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, lo sconvolgimento (il riferimento allo “sconvolgimento delle abitudini di vita” si rinviene già in Cass., 31/5/2003, n. 8827) foriero di “scelte di vita diverse”, in altre parole lo sconvolgimento dell’esistenza, a peculiarmente connotare il cd. danno esistenziale, caratterizzandolo in termini di autonomia rispetto sia alla nozione di danno morale elaborata dall’interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale (e successivamente recepita dal legislatore) sia a quella normativamente fissata di danno biologico (a tale stregua cogliendosi una sicura diversità con quanto al riguardo indicato dalla norma del Codice delle assicurazioni).
In alcuni passaggi dello snodo motivazionale le Sezioni Unite del 2008 sembrano voler restringere invero la considerazione del pregiudizio di tipo esistenziale alla mera ipotesi della lesione del “rapporto parentale”, formula rievocante quella adoperata da Cass. n. 8827 del 2003.
Non sembra peraltro revocabile in dubbio che lo “sconvolgimento” connotante il danno esistenziale ben può conseguire anche laddove un rapporto di parentela invero difetti, come ad esempio in caso di convivenza more uxorio per l’affermazione che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale, v.
Cass., 7/6/2011, n. 12278; Cass., 16/9/2008, n. 23725. E già Cass., 28/3/1994, n. 2988. V. altresì, in giurisprudenza di merito, Trib.
Milano, 13/11/2009, in Resp. civ., 2010, 409 ss. Nel senso che il danno non patrimoniale va ristorato pure in caso di mero “rapporto affettivo”, avente carattere di “serietà e stabilità”, anche a prescindere dalla coabitazione v. Cass., 21/3/2013, n. 7128. Con riferimento al danno da perdita del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora), per la ritenuta necessità di una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonchè la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Cost., v. Cass., 16/3/2012, n. 4253. Anteriormente alla recentissima riforma della filiazione di cui alla L. n. 219 del 2012 e al relativo decreto delegato, di attuazione (D.Lgs. n. 154 del 2013), per l’interpretazione secondo cui i fratelli naturali non sono parenti v.
Corte Cost., 15/11/2000, n. 532.
Il pregiudizio esistenziale o da rottura del rapporto parentale non consiste allora nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, ma si sostanzia nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, in scelte di vita diversa (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844.
Diversamente v. Cass., 8/10/2007, n. 20987, peraltro anteriore alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008).
Nella norma di cui all’art. 612 bis c.p., ove al di là della sofferenza interiore risulta presa specificamente in considerazione l’alterazione delle abitudini di vita, questa Corte (v. Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) ha di siffatta interpretazione ravvisato indiretto e sintomatico riscontro.
Ribadendosi che il danno non patrimoniale iure proprio del congiunto è ristorabile in caso non solo di perdita ma anche di mera lesione del rapporto parentale (con riferimento al danno morale in favore dei prossimi congiunti della vittima di lesioni colpose v. Cass., 3/4/2008, n. 8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., Sez. Un., l/7/2002, n. 9556; Cass., 1/12/1999, n. 13358.
E già Cass., 2/4/1998, n. 4186), il danno esistenziale o da sconvolgimento dell’esistenza è stato nella giurisprudenza di legittimità in particolare ravvisato integrato dall’abbandono del lavoro per potersi dedicare esclusivamente alla cura del figlio, bisognevole di assistenza in ragione della gravità delle riportate lesioni psicofisiche (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 6/4/2011, n. 7844); dall'”assolutezza del sacrificio di sè” nell’assistenza verso il piccolo figlio macroleso (v. Cass., 12/9/2011, n. 18641;
Cass., 13/1/2009, n. 469); dall’impossibilità per una ragazza ventenne di fare la modella all’esito di intervento di chirurgia plastica con effetti deturpanti sul seno (v. Cass., 28/8/2009, n. 18805); dall’impossibilità di realizzare la propria “opzione di vita” consistente nell’ottenere il collocamento a riposo in ragione del mancato accredito di contributi da parte del datore di lavoro (v.
Cass., 10/2/2010, n. 3023); dall’impossibilità di espletare l’attività di imprenditore per illegittima revoca di autorizzazione di polizia (v. Cons. Stato, sez. 6, 8/9/2009, n. 5266).
Si è invece escluso che il cd. danno esistenziale rimanga integrato da meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e “ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., 13/11/2009, n. 24030), in stress o violazioni del diritto alla tranquillità (v. Cass., 9/4/2009, n. 8703. Contra, per la risarcibilità del danno da stress a causa della ricerca del proprio veicolo oggetto di rimozione forzata, v. peraltro Cass., 23/3/2011, n. 6712) ovvero ad altri diritti “immaginari” (per la qualificazione in tali termini del diritto al “tempo libero” v.
Cass., 4/12/2012, n. 21725).
Va al riguardo ulteriormente osservato che il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale si è da questa Corte invero ritenuto configurabile e rilevante non solo quale degenerazione del danno morale ma anche in termini meramente oggettivi, in quanto di per sè indice di sconvolgimento della vita meritevole di ristoro autonomamente e a prescindere dalla ricorrenza del danno morale, dalla sofferenza inferiore cioè per la perdita del rapporto parentale.
Tale ipotesi si è in particolare ravvisata ricorrere in caso di determinatasi necessità di iniziare a lavorare per far fronte ad una situazione di indigenza insorta in conseguenza della morte del congiunto che in precedenza aveva assicurato una condizione di agiatezza (per il riferimento al “danno esistenziale” derivato “dall’improvviso e radicale mutamento delle loro condizioni di vita e dall’essersi trovati in una grave situazione d’indigenza” a causa dell'”improvvisa perdita di qualsiasi fonte di reddito” v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974, ove si fa peraltro riferimento ai “patimenti e alle angosce” derivate ai danneggiati dalla sopravvenuta situazione d’indigenza, cui la compagnia assicuratrice non aveva posto rimedio, colposamente tardando per oltre 5 anni la corresponsione dell’indennizzo); ovvero di aver dovuto abbandonare il lavoro svolto da anni per adattarsi a svolgerne un altro del tutto diverso (v. Cass., 9/3/2012, n. 3718).
Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale non può in ogni caso considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno (per il rilievo che ben può accadere, sia pur non frequentemente, che la perdita di un congiunto non cagioni danno relazionale o danno morale o alcuno di essi v. Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26975).
Esso va dal danneggiato allegato e provato, secondo la regola generale ex art. 2697 c.c. (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/5/2011, n. 10527).
L’allegazione a tal fine necessaria, si è da questa Corte precisato, deve in realtà concernere fatti precisi e specifici del caso concreto, essere cioè circostanziata e non già purchessia formulata, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 25 settembre 2012, n. 16255).
Anche per il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale va osservato che la natura non patrimoniale non osta alla cedibilità dell’acquisito diritto di credito al relativo risarcimento e alla sua trasmissibilità iure hereditatis (cfr. Cass., 3/10/2013, n. 22601).
Come già più sopra ribadito, la diversità ontologica dei suindicati aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale impone che, in ossequio al principio (dalle Sezioni Unite del 2008 assunto ad assioma) della integralità del risarcimento dei danni nello specifico caso concreto subiti dal danneggiato (o dal creditore) in conseguenza del fatto illecito extracontrattuale (ovvero dell’inadempimento delle obbligazioni), essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v., da ultimo, Cass., 23/4/2013, n. 9770; Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108).
Lo stesso fenomeno si verifica d’altro canto relativamente al danno patrimoniale.
E’ noto che quest’ultimo si scandisce in danno emergente e lucro cessante, e ciascuna di queste “categorie” o “sottocategorie” è a sua volta compendiata da una pluralità di voci o aspetti o sintagmi, quali ad esempio il mancato conseguimento del bene dovuto o la perdita di beni integranti il proprio patrimonio, il cd. fermo tecnico, le spese (di querela per l’avvocato difensore, per il C.T., funerarie, ecc.) (danno emergente); o la perdita della clientela, la irrealizzazione di rapporti contrattuali con terzi, il discredito professionale, la perdita di prestazioni alimentari o lavorative, la perdita della capacità lavorativa specifica (lucro cessante).
Aspetti o voci che ovviamente non ricorrono tutti sempre e comunque in ogni ipotesi di illecito o di inadempimento, e il cui ristoro dipende dalla verifica della loro sussistenza, con conseguente differente entità del quantum da liquidarsi al danneggiato/creditore nel singolo caso concreto.
Senza che la relativa considerazione ai fini della determinazione del complessivo aumentare dovuto dal danneggiante/debitore si consideri per ciò stesso una duplicazione risarcitoria.
Perplessità evoca, a tale stregua, la riduttiva interpretazione secondo cui “la più recente giurisprudenza di questa Corte ha precisato che i danni non patrimoniali di cui all’art. 2059 c.c. comprendono tutti i pregiudizi non connotati dalla patrimonialità, e che la categoria non può essere suddivisa in diverse sottovoci suscettibili di autonomo risarcimento (danno esistenziale, danno alla vita di relazione, estetico, morale, biologico, ecc), come si è spesso verificato in passato nella prassi giurisprudenziale” (in tali termini v. Cass., 28/8/2009, n. 18805).
Una siffatta lettura delle sentenze del 2008 è in realtà smentita, oltre che da altra sentenza della stessa 3 Sezione v. Cass., 30/10/2009, n. 23056, ove si afferma che “le sezioni unite di questa Corte, nella sentenza 11/11/2008, n. 26973, hanno chiarito in termini definitivi ed appaganti che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. è categoria generale, non suscettibile di divisione in sottocategorie variamente etichettate, di modo che il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il risarcimento di distinte categorie di danno”. Analogamente v., da ultimo, Cass., 9/3/2012, n. 3718), da decisioni di altre sezioni semplici (v. la citata Cass., 5/10/2009, n. 21223) e delle stesse Sezioni Unite.
Va al riguardo per converso sottolineato che, al di là di affermazioni di principio secondo cui il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. precluderebbe la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (v. Cass., 12/2/2013, n. 3290; Cass., 14/5/2013, n. 11514), viene poi generalmente (in anche in tali decisioni) a darsi comunque rilievo alla circostanza che nel liquidare l’ammontare dovuto a titolo di danno non patrimoniale il giudice abbia invero tenuto conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto, facendo luogo, in sede di personalizzazione della liquidazione, al correlativo incremento del dato tabellare di partenza (cfr., da ultimo, Cass., 23/9/2013, n. 21716).
Emerge evidente come rimanga a tale stregua invero sostanzialmente osservato il principio dell’integralità del ristoro, sotto il suindicato profilo della necessaria considerazione di tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel singolo caso concreto, non essendovi in realtà differenza tra la determinazione dell’ammontare a tale titolo complessivamente dovuto mediante la somma dei vari “addendi”, e l’imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a ciascuno di tali aspetti o voci.
Nella giurisprudenza di legittimità si è per altro verso sottolineato che il principio della integralità del ristoro subito da quest’ultimo non si pone invero in termini antitetici ma trova per converso correlazione con il principio in base al quale il danneggiante/debitore è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone invero di evitarsi anche duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 14/9/2010, n. 19517).
Duplicazioni risarcitorie si configurano solo allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito o dall’inadempimento e incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.
In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non già il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.
Si ha, pertanto, duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 6/4/2011, n. 7844. In tal senso deve intendersi invero anche quanto affermato anche da Cass., Sez. Un., 16/2/2009, n. 3677: “Il cd. danno esistenziale …
costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perchè diversamente denominato”).
E’ invero compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, e provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Le Sezioni Unite del 2008 avvertono che i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, cui viene riconosciuta “portata tendenzialmente onnicomprensiva”.
In tal senso è da intendersi la statuizione secondo cui la sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa non rimanga allo stadio interiore o intimo ma si obiettivizzi, degenerando in danno biologico o in danno esistenziale.
Non condivisibile è invece l’assunto secondo cui, allorquando vengano presi in considerazione gli aspetti relazionali, il danno biologico assorbe sempre e comunque il cd. danno esistenziale (in tal senso v. invece Cass., 10/2/2010, n. 3906; Cass., 30/11/2009, n. 25236).
E’ infatti necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, in cui di detto aspetto (o voce) del danno non patrimoniale si coglie il significato pregnante per un’ipotesi di ritenuta esaustività della liquidazione operata dal giudice di merito del danno non patrimoniale (subito da gestante non posta in condizione, per errore diagnostico, di decidere se interrompere la gravidanza) utilizzando, come parametro di riferimento, quello di calcolo del danno biologico, espressamente al riguardo indicando in motivazione che “la fattispecie costituiva un caso paradigmatico di lesione di un diritto della persona, di rilievo costituzionale, che indipendentemente da un danno morale o biologico, peraltro sempre possibile, impone comunque al danneggiato di condurre giorno per giorno, nelle occasioni più minute come in quelle più importanti, una vita diversa e peggiore, di quella che avrebbe altrimenti condotto”, v. Cass., 4 gennaio 2010, n. 13.
In presenza di una liquidazione del danno biologico che contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico- relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.
Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione del danno morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2010, n. 9040, ove si è ravvisato essere indubbio che il giudice del merito, nel liquidare il “danno morale” dei genitori per la morte del figlio all’esito di sinistro stradale, avesse nel caso tenuto in considerazione anche la “perdita del rapporto parentale”, sottolineando non assumere al riguardo “rilievo il nomen iuris adottato dal giudice e dalle parti” bensì “i tipi di pregiudizio che vengono complessivamente risarciti nella liquidazione del danno non patrimoniale da fatto configurabile come reato”; Cass., 16/9/2008, n. 23275).
Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati invece presi in considerazione (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il cd. danno esistenziale), dal relativo ristoro non può invero prescindersi corretta appare l’affermazione, nel caso peraltro riferita al “comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato”, secondo cui i danni ex art. 2059 c.c. debbono essere liquidati “in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”, che si rinviene in Cass., 17 settembre 2010, n. 19816.
Come già più sopra osservato, il ristoro del danno non patrimoniale è imprescindibilmente rimesso alla relativa valutazione equitativa.
Con particolare riferimento alla liquidazione del danno alla salute, si è in giurisprudenza costantemente affermata la necessità per il giudice di fare luogo ad una valutazione che, movendo da una “uniformità pecuniaria di base”, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto, risponda altresì a criteri di elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. in particolare Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).
Si è a tale stregua esclusa la possibilità applicarsi in modo “puro” parametri rigidamente fissati in astratto, giacchè non essendo in tal caso consentito discostarsene, risulta garantita la prevedibilità delle decisioni ma assicurata invero una uguaglianza meramente formale, e non già sostanziale.
Del pari inidonea si è ravvisata una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, e quindi, in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, sostanzialmente al suo mero arbitrio.
Se una siffatta valutazione vale a teoricamente assicurare un’adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto può infatti dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si sottolinea come la circostanza che lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate in modo fortemente difforme non possa ritenersi una mera circostanza di fatto ma integra una vera e propria “violazione della regola di equità”).
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere idonei a consentire altresì la cd. personalizzazione del danno (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/6/2006, n. 13546), al fine di addivenirsi ad una liquidazione congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (v. Cass., 12/7/2006, n. 15760).
In tema di liquidazione del danno, e di quello non patrimoniale in particolare, l’equità si è in giurisprudenza intesa nel significato di “adeguatezza” e di “proporzione”, assolvendo alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” così Cass., 7/6/2011, n. 12408: “equità non vuoi dire arbitrio, perchè quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è consustanziale l’idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità di trattamento. Se infatti in casi uguali non è realizzata la parità di trattamento, neppure può dirsi correttamente attuata l’equità, essendo la disuguaglianza chiaro sintomo della inappropriatezza della regola applicata. Ciò è tanto più vero quando, come nel caso del danno non patrimoniale, ontologicamente difetti, per la diversità tra l’interesse leso (ad esempio, la salute o l’integrità morale) e lo strumento compensativo (il denaro), la possibilità di una sicura commisurazione della liquidazione al pregiudizio areddituale subito dal danneggiato; e tuttavia i diritti lesi si presentino uguali per tutti, sicchè solo un’uniformità pecuniaria di base può valere ad assicurare una tendenziale uguaglianza di trattamento, ad un tempo sintomo e garanzia dell’adeguatezza della regola equitativa applicata nel singolo caso, salva la flessibilità imposta dalla considerazione del “particolare””.
I criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, a tale stregua pertanto del pari aliena da duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), in ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844).
Ne consegue che la quantificazione di un ammontare che si prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione verrebbe per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, legittimando i dubbi in ordine alla sua legittimità.
Valida soluzione si è ravvisata essere invero quella costituita dal sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527).
Pur se oggetto di forti critiche in dottrina, essendosi il sistema tabellare ritenuto lesivo della dignità umana, da epoca risalente il giudice, anche laddove non imposto dalla legge, fa ricorso all’ausilio di tabelle (v. Cass., 9/1/1998, n. 134).
Tale sistema d’altro canto costituisce solo una modalità di calcolo tra le molteplici utilizzabili (per l’adozione, quanto al danno morale da reato, del criterio della odiosità della condotta lesiva, e quanto al cd. danno esistenziale, del criterio al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare in conseguenza di esso, v. Cass., 19/5/2010, n. 12318).
Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all’art. 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4852), non già di derogarvi; e di addivenire ad una quantificazione del danno rispondente ad equità, nell’effettiva esplicazione di poteri discrezionali, e non già rispondenti ad arbitrio (quand’anche “equo”).
Lo stesso legislatore, oltre alla giurisprudenza, ha fatto ad esse espressamente riferimento.
In tema di responsabilità civile da circolazione stradale, il D.Lgs. n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale per la liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti (i cui importi sono stati da ultimo aggiornati con D.M. 6 giugno 2013, in G.U. 14 giugno 2013, n. 138).
Già anteriormente era stato previsto (con D.M. 3 luglio 2003, e a far data dall’11 settembre 2003) un regime speciale per il danno biologico lieve o da micropermanente (fino a 9 punti).
In assenza di tabelle normativamente determinate, come ad esempio per le cd. macropermanenti e per le ipotesi diverse da quelle oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali (per l’affermazione che tali tabelle costituiscono il cd. “notorio locale” v. in particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431), la cui utilizzazione è stata dalle Sezioni Unite avallata nei limiti in cui, nell’avvalersene, il giudice proceda ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine “di pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, questa Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402).
Essendo l’equità il contrario dell’arbitrio, la liquidazione equitativa operata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità (solamente) laddove risulti non congruamente motivata, dovendo di essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Si è al riguardo per lungo tempo esclusa la necessità per il giudice di motivare in ordine all’applicazione delle tabelle in uso presso il proprio ufficio giudiziario, essendo esse fondate sulla media dei precedenti del medesimo, e avendo la relativa adozione la finalità di uniformare, quantomeno nell’ambito territoriale, i criteri di liquidazione del danno (v. Cass., 2/3/2004, n. 418), dovendo per converso adeguatamente motivarsi la scelta di avvalersi di tabelle in uso presso altri uffici (v. Cass., 21/10/2009, n. 22287; Cass., 1/6/2006, n. 13130; Cass., 20/10/2005, n. 20323; Cass., 3/8/2005, n. 16237).
Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si escludeva altresì che l’attività di quantificazione del danno fosse di per sè soggetta a controllo in sede di legittimità, se non sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione, in presenza di totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 19/5/2010, n. 12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529). In particolare laddove la liquidazione del danno si palesasse manifestamente fittizia o irrisoria o simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura e all’entità del danno dal medesimo giudice accertate (v. Cass., 16/9/2008, n. 23725; Cass., 2/3/2004, n. 4186; Cass., 2/3/1998, n. 2272; Cass., 21/5/1996, n. 4671).
La Corte Suprema di Cassazione è peraltro recentemente pervenuta a radicalmente mutare tale orientamento.
La mancata adozione da parte del giudice di merito delle Tabelle di Milano in favore di altre, ivi ricomprese quelle in precedenza adottate presso la diversa autorità giudiziaria cui appartiene, si è ravvisato integrare violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si è altresì precisato che al fine di evitarsi la declaratoria di inammissibilità del ricorso per la novità della questione non è sufficiente che in appello sia stata prospettata l’inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si sia specificamente doluto, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti. In tanto, dunque, la violazione della regola iuris può essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la questione sia già stata specificamente posta nel giudizio di merito.
Conformemente v. Cass., 22/12/2011, n. 28290).
Si è quindi al riguardo ulteriormente precisato che i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire v. Cass., 30/6/2011, n. 14402. Per l’adozione di Tabelle diverse da quelle di Milano v. Trib. Roma, 9/1/2012; Trib. Roma, 5/11/2012 (inedita).
Va peraltro osservato che l’applicazione delle Tabelle di Milano non è invero aliena dal porre alcune problematiche interpretative e applicative.
Una prima questione concerne la nozione di danno morale presa in considerazione.
Diversamente da quanto pure da alcuni in dottrina osservato, non sembra che esse contemplino il danno morale inteso quale dolore fisico, semmai proprio del danno biologico, dovendo ritenersi viceversa accolta la tradizionale nozione in termini di patema d’animo o sofferenza interiore o turbamento psichico.
I parametri tabellari non risultano per altro verso riferirsi (anche) al pregiudizio alla integrità morale, massima espressione della dignità umana, la cui valutazione nella quantificazione del danno morale è, come più sopra osservato, del pari imprescindibile.
Ulteriore questione emerge laddove, quantificato sulla base delle Tabelle di Milano l’ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale per le sofferenze fisiche o psichiche patite dal soggetto leso, ai fini dell’attività di cd. personalizzazione del danno è consentita la possibilità di superarsi i limiti tabellari, avvalendosi degli elementi già considerati ai fini dell’elaborazione della tabella (es., età della vittima e dei danneggiati superstiti, stato di convivenza, presenza di altri familiari conviventi, abitudini di vita), e in particolare i limiti massimi (in presenza di situazioni di fatto che si discostino in modo apprezzabile da quelle ordinarie, sia per elementi non considerati ai fini dell’elaborazione delle tabelle sia per il peculiare atteggiarsi nel caso concreto di quelli viceversa valutati: v. Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 14/6/2011, n. 12953), con la previsione tuttavia di un tetto massimo, in particolare per i pregiudizi esistenziali conseguenti alla menomazione psicofisica che non siano standard, da applicarsi nelle ipotesi di massimo sconvolgimento della vita familiare.
Orbene, laddove il limite massimo dei parametri tabellari di base o il limite di oscillazione (in difetto e a fortiori) in aumento dei medesimi si configuri come non superabile, la determinazione dell’ammontare di risarcimento può invero risultare non congrua in riferimento al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionata per difetto (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale.
Il sistema di quantificazione si prospetta allora in tal caso inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, sollevando dubbi in ordine alla sua legittimità, in quanto in contrasto con il principio in base al quale il ristoro del pregiudizio alla persona non tollera astratte limitazioni massime.
Questione che si pone anche con riferimento alla Tabella unica nazionale ai fini della liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti, introdotta con D.Lgs. n. 209 del 2005 nel settore della responsabilità civile da circolazione stradale, in attuazione di quanto previsto all’art. 139 Cod. ass..
Nello stabilire che “per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”, l’art. 139, comma 2, Cod. ass. ha in realtà riguardo ad una superata concezione del danno biologico, diversa dalla nozione recepita dalle Sezioni Unite del 2008, e fissa, quanto alla personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale, il limite di aumento massimo (con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato) dell’ammontare quantificato alla stregua del dato tabellare nella misura del quinto, e cioè del 20% (art. 139, comma 3, Cod. ass.) (cfr. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Relativamente a siffatto limite massimo di oscillazione è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, in particolare sotto il profilo dell’irragionevolezza di tale soglia e della sua idoneità a rappresentare un vulnus in ordine all’integrale riparazione del danno G. di P. Torino, 21/10/2011 (in Danno e resp., 2012, 439 ss. e in Resp. civ., 2012, 70 ss.). La questione era stata già sollevata da G. di P. Torino, 30/11/2009 (in Resp. civ., 2010, 920 ss.), in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 76 Cost., del D.Lgs. n. 209 del 2005, (Cod. ass.), art. 139 nella parte in cui tale norma, prevedendo un risarcimento del danno biologico basato su rigidi parametri fissati da tabelle ministeriali, non consentirebbe di giungere ad un’adeguata personalizzazione del danno, e dichiarata manifestamente inammissibile, per ravvisate carenze di prospettazione, da Corte Cost. (ord.), 28/4/2011, n. 157. V. altresì già G. di P. Roma, 14/1/2001 (in Danno e resp., 2002, 309 ss.), nonchè a violare il principio di uguaglianza laddove allo stesso tipo di lesioni possa essere attribuito un diverso risarcimento v. Trib. Tivoli, 21/3/2012 e Trib. Brindisi, 3/4/2012 (in Danno e resp., 2012, 1002 ss. e in Resp., 2012, 1294 ss. e in Vita not., 2012, 1607 ss.).
Si è in dottrina obiettato che la riparazione integrale del danno non costituisce principio costituzionalmente garantito.
La stessa Corte Costituzionale ha in effetti in più di un’occasione escluso che la regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al pregiudizio cagionato al danneggiato abbia copertura costituzionale da ultimo v. Corte Cost. (ord.), 28/4/2011, n. 157, ponendo in rilievo che in casi eccezionali il legislatore ben può ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno, sia nel campo della responsabilità contrattuale (v. ad es., artt. 1784 e 1786 c.c. e artt. 275, 412 e 423 c.n.), che in materia di responsabilità extracontrattuale, in considerazione delle particolari condizioni dell’autore del danno (v. Corte Cost., 6/5/1985, n. 132).
Va al riguardo peraltro sottolineato come la Corte Costituzionale abbia recentemente affermato l’illegittimità dell’apposizione di una limitazione massima non superabile alla quantificazione del ristoro per danni alla persona v. Corte Cost., 30/3/2012, n. 75, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 15, comma 1, nella parte in cui ha fissato un limite all’obbligo risarcitorio per danni alla persona. Pur se emessa con riferimento alla responsabilità da inadempimento di contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (cd. “pacchetto turistico” o “package”), e fondata sulla ravvisata violazione dei criteri posti dalla legge delega, tale principio la pronunzia sembra invero sostanzialmente sottendere.
Orbene, la corte di merito ha nella specie disatteso invero i suindicati principi.
In particolare là dove si è limitata a confermare “le statuizioni del primo giudice”, dopo avere:
a) accolto la domanda di ristoro pecuniario del danno non patrimoniale proposta dal S.M. e dalla C., figli dei defunti P.G. e S.M., riconoscendo ad essi rispettivamente dovuta la somma di Euro 111.495,5 risultante “dalla sommatoria delle seguenti voci: Euro 31.000,00 per danno morale iure hereditatis; Euro 10.000,00 per danno biologico psichico iure hereditatis; Euro 8.495,5 per danno biologico fisico iure hereditatis; Euro 62.000,00 per danno morale personale”;
b) accolto la doglianza dei predetti S.M. e C. circa la “liquidazione meramente equitativa” effettuata dal giudice di prime cure “senza dare conto dei criteri adottati” nonchè in forma “”cumulativa””, con conseguente lamentata impossibilità di “comprendere quali siano le voci di danno riconosciute e le loro entità”;
c) riconosciuto ai medesimi spettare altresì i “danni non patrimoniali derivanti dalla morte del padre S.M. per suicidio, in riforma della sentenza di 1^ grado sul punto ritenendo essere stata “indubbia concausa il trauma psichico conseguente al decesso della moglie nel sinistro de quo”, al riguardo precisando che “l’accertato collegamento; tra la morte del S. e quella della moglie a seguito dell’incidente incide sulla quantificazione del danno”;
d) provveduto alla “liquidazione delle singole voci di danno secondo le tabelle in uso del Tribunale di Milano, la cui applicazione viene invocata dagli appellanti”;
e) osservato che “agli appellanti” è stato peraltro dal giudice di prime cure riconosciuto “un importo superiore (Euro 250.000,00 a S.M. ed Euro 170.000,00 a S.C.)”.
La corte di merito ha disatteso i suindicati principi in particolare là dove ha confermato il rigetto operato dal giudice di prime cure “della domanda di risarcimento danni iure hereditatis formulata dagli appellanti” sigg. S.M. e C. “per il ristoro dei danni personali (da …. lesioni mortali) subiti dalla loro madre P.G., in quanto deceduta dopo circa tre ore e mezzo dal sinistro, dopo cioè un lasso di tempo insufficiente a far sorgere in capo alla vittima il diritto ad indennizzi di sorta”.
Nel far proprie le argomentazioni del primo giudice senza esprimere invero le ragioni della conferma della pronunzia in relazione ai motivi di impugnazione proposti in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto, la laconicità sul punto della motivazione dell’impugnata sentenza appalesandosi pertanto inidonea a rivelare la ratio deciderteli e a consentire di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado essa sia pervenuta attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di impugnazione, sicchè la motivazione si rivela sul punto come meramente apparente (v. Cass., 20/7/2012, n. 12664; Cass., 23/2/2011, n. 4377; Cass., 23/2/2011, n. 4375; Cass., 8/1/2009, n. 161; Cass., 11/6/2008, n. 15483), la corte di merito ha a tale stregua immotivatamente rigettato, oltre a quella di ristoro del danno cd. tanatologico, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, nei molteplici aspetti dei quali tale categoria generale si compone, cui il riferimento al “lasso di tempo insufficiente a far sorgere in capo alla vittima il diritto ad indennizzi di sorta” si appalesa impropriamente operato.
Orbene, a parte il rilievo che come questa Corte ha già avuto modo di precisare ai fini dell’accoglimento della domanda è irrilevante l’erronea denominazione del tipo di pregiudizio non patrimoniale di cui si chiede il risarcimento se ad esso sia stato fatto riferimento in un contesto nel quale era stato richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente senza limitazioni connesse solo ad alcune e non ad altre conseguenze pregiudizievoli derivatene (v.
Cass., 9/3/2012, n. 3718; Cass., 17/7/2012, n. 12236, e da ultimo, Cass., 6/8/2013, n. 18659), in presenza di una domanda sin dall’origine dagli odierni ricorrenti ed originari attori estesa a tutti i danni (patrimoniali e non patrimoniali) subiti in conseguenza del sinistro de quo (“voglia il Tribunale … condannare i convenuti a risarcire agli attori tutti i danni da costoro subiti in seguito ai fatti di causa, iure proprio e iure successionis, così come azionati e sotto tutti gli aspetti risarcibili, patrimoniali e non patrimoniali, nella misura che sarà ritenuta di giustizia in esito agli accertamenti istruttori”: v. atto di citazione in primo grado dei sigg. S.M. e C., P.V. ed F.E., in atti, riprodotto anche dai controricorrenti e ricorrenti incidentali nel rispettivo controricorso e ricorso incidentale), in particolare, la corte di merito, dopo averne correttamente riconosciuto la ricorrenza nella specie, ha immotivatamente e contraddittoriamente non quantificato l’incidenza del danno esistenziale sofferto dal S.M. nella determinazione del complessivo ammontare del danno non patrimoniale al medesimo spettante e trasmissibile iure hereditatis ai figli, la relativa valutazione d’altro canto non emergendo operata nei suoi propri termini di sconvolgimento dell’esistenza dal medesimo sofferto (e invero nemmeno altrimenti considerata sotto il profilo degli aspetti relazionali connessi al danno biologico), al riguardo essendosi essa limitata a valutare l'”aggravamento” dello “stato di depressione, documentata dalle cartelle cliniche in atti”.
I suindicati profili risultano disattesi altresì là dove la corte di merito ha del pari confermato la liquidazione effettuata dal giudice di 1^ grado in favore della F. e del P. V., invero genericamente e immotivatamente ritenendola “congrua in relazione ai normali parametri liquidatori”, nonchè apoditticamente osservando che, “al di là di una generica censura”, i medesimi non hanno fornito “alcun elemento utile per discostarsene”.
Va ulteriormente osservato che, se da un canto ha effettuato la liquidazione del danno non patrimoniale prendendo correttamente a riferimento (trattandosi di debito di valore) le Tabelle in vigore al momento della liquidazione (v. Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 11/5/2012, n. 7272) e “in valori monetari attuali, già comprensivi quindi di rivalutazione e interessi”, sicchè infondate al riguardo risultano le doglianze mosse dai ricorrenti con il 4 motivo, come dai medesimi lamentato nell’impugnata sentenza non risulta essere stato dalla corte di merito dato viceversa pienamente conto della personalizzazione del dato tabellare assunto a base di calcolo, e in particolare della considerazione di indici altri e diversi dall’età della vittima, quali ad esempio il sesso, il grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, la situazione di convivenza, la gravità del fatto e dell’entità della sofferenza della vittima (cfr. Cass., 2/7/1997, n. 5944; Cass., l/3/1993, n. 2491).
Sofferenza nella specie particolarmente grave e degenerata in sconvolgimento dell’esistenza, essendo rimasto nel corso del giudizio di merito accertato (come emerge in particolare dal tenore delle cartelle cliniche, in ossequio al principio di autosufficienza riportate a pag. 85 ss. del ricorso) che nei circa due anni di sopravvivenza dopo la morte della moglie il S.M. ha sempre palesato “chiusura verso l’esterno” (“dove non può più incontrare la moglie che, invece, può convivere nel suo animo”); non è più riuscito “a superare la perdita della moglie” venuta a mancare quando aveva appena superato un “precedente periodo depressivo”, ripetutamente manifestando “idee di inutilità e di incapacità ad affrontare il futuro” senza di lei e in un’occasione (a fine luglio 1988) essendosi addirittura “chiuso in un armadio tra gli abiti della moglie morta”; ha smesso di “frequentare amici, parenti e vicini”; si è infine indotto al suicidio.
Di tale danno la corte di merito non risulta avere tenuto invero conto nella determinazione del danno non patrimoniale ritenuto spettante agli odierni ricorrenti S.M. e C..
Del pari immotivato risulta l’abbattimento dalla corte di merito operato, in misura indicata dapprima come “considerevole” e quindi come “massima” del dato tabellare assunto a base di calcolo, “in considerazione del fatto che S.M. è sopravvissuto solo due anni”.
Quanto al danno morale, nell’impugnata sentenza non risulta dalla corte di merito dato conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, al fine di potersi essa considerare congrua ed adeguata risposta satisfattiva alla lesione (anche) della dignità umana (cfr. Cass., 16/2/2012, n. 2228).
Non risulta infine essere stato dalla corte di merito in alcun modo valutato il danno non patrimoniale (nei diversi aspetti in cui esso si scandisce) dagli odierni ricorrenti S.M. e C. iure proprio rispettivamente sofferto in conseguenza della morte del padre M..
In ordine al pure domandato ristoro pecuniario del danno iure proprio e iure hereditatis da perdita della vita della P. e del S. va osservato quanto segue.
La risarcibilità del danno da perdita della vita è stata dalla Corte Costituzionale negata sulla base del rilievo che oggetto di risarcimento può essere solo la “perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva”, laddove la morte immediata non è invero una “perdita” a carico “della persona offesa”, in quanto la stessa è “non più in vita” così Corte Cost., 27/10/1994, n. 372, che nel dichiarare la non fondatezza, in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., della questione di costituzionalità dell’art. 2043 c.c., nella parte in cui non consente il risarcimento iure hereditatis del “danno biologico da morte”, ha affermato il principio in base al quale, diversamente dalla lesione del diritto alla salute, la lesione immediata del diritto alla vita (senza una fase intermedia di malattia) non può configurare una perdita (e cioè una diminuzione o privazione di un valore personale) a carico della vittima ormai non più in vita, onde è da escludere che un diritto al risarcimento del cd. “danno biologico da morte” entri nel patrimonio dell’offeso deceduto e sia, quindi, trasmissibile ai congiunti in qualità di eredi, in ragione non già del carattere non patrimoniale del danno suddetto bensì del limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l’oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa.
A tale stregua la Corte di legittimità costituzionale delle leggi ha fatto ricorso all'”argomento, risalente a una non recente sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 3475 del 1925), secondo cui un diritto di risarcimento può sorgere in capo alla persona deceduta limitatamente ai danni verificatisi dal momento della lesione a quello della morte, e quindi non sorge in caso di morte immediata, la quale impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non più in vita” (v. Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).
All’esito della detta affermazione è andata nella giurisprudenza di legittimità consolidandosi la massima secondo cui la lesione dell’integrità fisica con esito letale intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo non è configurabile quale danno biologico, giacchè la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (invero protetto con il diverso strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere (v. Cass., 25/2/1997, n. 1704, e, conformemente, Cass., 30/6/1998, n. 6404; Cass., 25/2/2000, n. 2134; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 30/7/2002, n. 11255; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., 2/7/2010, n. 15706).
Siffatta negazione, unitamente alla considerazione che “per il bene della vita è inconcepibile una forma di risarcimento anche solo per equivalente” (così Cass., 14/2/2000, n. 1633; Cass., 20/1/1999, n. 491), ha indotto la giurisprudenza ad ammettere la ristorabilità di altri e diversi “beni”.
Movendo dalla configurazione della morte quale più grave stadio di lesione o lesione massima – in quanto integrale – del bene salute;
dalla distinzione tra danno biologico da invalidità permanente e danno biologico da invalidità temporanea; dalla ritenuta relativa inconfigurabilità per definizione in ipotesi di morte cagionata dalla lesione, giacchè in tal caso la malattia non si risolve con esiti permanenti ma determina la morte dell’individuo, si è nella giurisprudenza di legittimità pervenuti ad affermare che “quando la morte è causata dalle lesioni”, e tra le lesioni colpose e la morte intercorra un “apprezzabile lasso di tempo”, è invero risarcibile il danno biologico terminale (v. Cass., 28/8/2007, n. 18163, nel senso che l’ammontare del danno biologico terminale va commisurato soltanto all’inabilità temporanea, ma ai fini della liquidazione il giudice deve tenere conto, nell’adeguare l’ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che pur se temporaneo tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte), e “per il tempo di permanenza in vita” (v. Cass., 16/5/2003, n. 7632), e a considerare il diritto di credito al relativo risarcimento trasmissibile iute hereditatis (v. Cass., l/2/2003, n. 18305; Cass., 16/6/2003, in 9620; Cass., 14/3/2003, n. 3728; Cass., 2/4/2001, n. 4783; Cass., 10/2/1999, n. 1131; Cass., 29/9/1995, n. 10271).
Il danno biologico terminale, quale pregiudizio della salute che pur se temporaneo è massimo nella sua entità ed intensità (v. Cass., 23/2/2004, n. 3549) in quanto conduce a morte un soggetto in un sia pure limitato ma apprezzabile lasso di tempo (v. Cass., 23/2/2005, n. 3766), si è ravvisato come “sempre esistente”, per effetto della “percezione”, “anche non cosciente”, della gravissima lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita (v. Cass., 28/8/2007, n. 18163).
La brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni ha peraltro indotto ad escludersi la sussistenza del danno biologico laddove risulti non apprezzabile, ai fini risarcitori, il deterioramento della qualità della vita a cagione del pregiudizio alla salute.
Si è cioè ritenuto che in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte la sofferenza non sia suscettibile di degenerare in danno biologico.
Si è peraltro affermato che, se non il danno biologico, in tal caso può ritenersi senz’altro integrato il danno morale terminale, dalla vittima subito per la sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine.
Danno morale terminale per la cui configurabilità, in luogo dell’apprezzabile intervallo di tempo tra lesioni e decesso della vittima, assume rilievo il diverso criterio dell’intensità della sofferenza provata (v. Cass., 8/4/2010, n. 8360; Cass., 23/2/2005, n. 3766; Cass., l/12/2003, n. 18305; Cass., 19/10/2007, n. 21976; Cass., 24/5/2001, n. 7075; Cass., 6/10/1994, n. 8177; Cass., 14/6/1965, n. 1203. In tema di cd. danno catastrofico v. già Cass., 2/4/2001, n. 4783).
Anche in tal caso la risarcibilità è ammessa solamente al ricorrere del presupposto della permanenza in vita (v. Cass., 25/2/1997, n. 1704; Cass., 6/10/1994, n. 8177), in ragione della sofferenza, rilevante sotto il profilo del danno morale, provocata dalla cosciente percezione da parte della vittima delle “conseguenze catastrofiche delle lesioni” (v. Cass., 31/5/2005, n. 11601; Cass., 6/8/2007, n. 17177). E al riguardo si è parlato anche di danno “biologico di natura psichica” (v. Cass., 14/2/2007, n. 3260).
Le Sezioni Unite del 2008 hanno quindi ammesso la risarcibilità della “sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo”, quale “danno morale inteso nella sua nuova più ampia accezione”, altrimenti indicato come danno da lucida agonia o catastrofale o catastrofico (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26772; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26773).
Pur continuando a qualificarsi a volte la lucida percezione dell’approssimarsi della propria fine in termini di danno biologico di natura psichica (v. Cass., 18/1/2011, n. 1072. V. altresì Cass., 13/1/2009, n. 458, di conferma della sentenza impugnata, che aveva qualificato la sofferenza della vittima come danno morale, e non già come danno biologico terminale, in ragione della ravvisata inidoneità dell’intervallo di tempo di tre giorni tra il sinistro e la morte ad integrare gli estremi di quest’ultimo), tale ricostruzione è stata prevalentemente confermata dalle Sezioni semplici della Corte Suprema di Cassazione, che considera catastrofale il “danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona sopravvissuta per un lasso di tempo apprezzabile in condizioni di lucidità tali da consentirle di percepire la gravità della propria condizione e di soffrirne” (v. Cass., 21/3/2013, n. 7126).
In dottrina si è al riguardo criticamente osservato che il riferimento ai “danni terminali (biologico, morale o da “lucida agonia”)” costituisce il “frutto” di “acrobazie logiche e concettuali”, e di “intenzioni sostanzialmente compensative della totale assenza di risarcimento per la perdita della vita”.
A tale stregua, piuttosto che al decorso di un apprezzabile intervallo di tempo tra l’evento lesivo e la morte decisivo rilievo risulta assegnato alla sofferenza psichica e alla disperazione, di “massima intensità”, che provoca la percezione, pur se di breve durata, dell’approssimarsi della propria morte, la “sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa della fine” (v. Cass., 13/1/2009, n. 458. V. altresì Cass., 8/4/2010, n. 8360. E già Cass., 2/4/2001, n. 4783).
Danno da tenersi invero distinto dal “danno biologico”, il quale si ha allorquando la vittima sia sopravvissuta “per un considerevole lasso di tempo ad un evento poi rivelatosi mortale” ed abbia in tale periodo “sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica autonomamente considerabile come danno biologico …, quindi accertabile con valutazione medicolegale e liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio” (v. Cass., 21/3/2013, n. 7126).
Pregiudizio che va del pari tenuto distinto dal cd. danno tanatologico inteso quale “danno connesso alla perdita della vita” (v., da ultimo, Cass., 21/3/2013, n. 7126).
Si è in dottrina da alcuni sostenuto che le Sezioni Unite del 2008 hanno negato la risarcibilità del danno tanatologico o da perdita della vita in favore del soggetto deceduto.
In realtà nelle richiamate pronunzie le Sezioni Unite non si sono espresse al riguardo, limitandosi a fare il punto in ordine all’orientamento interpretativo maturato (in particolare nella giurisprudenza di legittimità) in argomento, pervenendo ad ammettere la risarcibilità del danno subito dalla persona danneggiata, rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine, allorquando la morte segua “dopo breve tempo” dall’evento dannoso, atteso che la vittima soffre una “sofferenza psichica … di massima intensità”, pur se di “durata contenuta”, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973, che ha nella specie riconosciuto la configurabilità del danno morale da danno cd. catastrofale in un caso di agonia protrattasi per undici ore).
A tale stregua Le Sezioni Unite hanno fatto in realtà riferimento al cd. danno catastrofale, quale particolare espressione del danno morale.
Pur segnando tale affermazione un progresso sul piano interpretativo, non sfugge che rimane a tale stregua priva di tutela l’ipotesi dell’agonia inconsapevole, peraltro in passato dalla giurisprudenza ritenuta ristorabile (con riferimento al danno biologico e al danno morale v., da ultimo, Cass., 19/10/2007, n. 21976. Per la risarcibilità del danno non patrimoniale sofferto anche se in stato di incoscienza v. altresì Cass., 19/2/2007, n. 3760; Cass., 24/5/2001, n. 7075; Cass., 6/10/1994, n. 8177; Cass., 14/6/1965, n. 1203).
Successivamente alla pronunzia delle Sezioni Unite del 2008, mentre la risarcibilità iure hereditatis della perdita del congiunto ha trovato riconoscimento nella giurisprudenza di merito per la risarcibilità del danno da morte, non già quale lesione della salute, bensì quale danno da perdita del bene vita v., in giurisprudenza di merito, Trib. Venezia 15/6/2009 (in Danno e resp., 2010, 1013 ss.). Anteriormente al 2008, v. in particolare Trib. Terni, 20/4/2005 (in Giur. it., 2005, 2281 ss.); Trib. S. Maria C.V., 14/5/2003 (in Giur. it., 2004, 495 ss.); Trib. Foggia, 28/6/2002 (in Foro it., 2002, 1, 3494 ss.); Trib. Civitavecchia, 26/2/1996 (in Ass., 1997, 2, 2, 85 ss.); App. Roma, 4/6/1992 (in Resp. civ., 1992, 597 ss.); Trib. Roma, 24/5/1988 (in Dir. pratica ass., 1988, 379 ss.), nella giurisprudenza di legittimità si è ribadito che il cd. danno tanatologico, o da morte avvenuta a breve distanza di tempo da lesioni personali, deve essere ricondotto al danno morale, concorrendo alla relativa liquidazione, non potendo ritenersi riconducibile alla nozione di danno biologico cd. terminale (v. Cass., 13/1/2009, n. 458; Cass., 27/5/2009, n. 12326; Cass., 8/4/2010, n. 8360; e, da ultimo, Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 29/5/2012, n. 8575. La risarcibilità del danno non patrimoniale morale cd. catastrofale è stato negata, in mancanza di prova in ordine alla lucidità della vittima durante l’agonia, da Cass., 28/11/2008, n. 28433).
Si è al riguardo altresì precisato che il risarcimento del cd. danno catastrofale può essere fatto valere iure hereditario a condizione che sia entrato a far parte del patrimonio della vittima al momento della morte (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754. Conformemente v. Cass., 9/5/2011, n. 10107).
Pur riconoscendosi che in una virtuale scala gerarchica il diritto alla vita è sicuramente il primo tra tutti i diritti inviolabili dell’essere umano, nel sottolinearsi come esso risulti “in ogni contesto e con le più variegate modalità” tutelato, se ne esclude invero la ristorabilità in favore dello stesso soggetto che la vita abbia perso, appunto morendo all’esito di lesioni inferte da terzi (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Del tutto improduttive, si afferma (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754), si palesano le disquisizioni sul se la morte faccia parte della vita o se, contrassegnando la sua fine, sia alla stessa estranea (per tale tesi v. Cass., 16/5/2003, n. 7632).
Mero artifizio retorico viene qualificata (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754) l’obiezione secondo cui, essendo il risarcimento del danno da lesioni gravissime assai oneroso per l’autore dell’illecito, ed escludendosi per converso la risarcibilità del danno da soppressione della vita a favore dello stesso soggetto di cui sia provocata la morte, viene paradossalmente a risultare “economicamente più “conveniente” uccidere che ferire”.
“Improprio” si considera il rilievo secondo cui, essendo quella risarcitoria la tutela minima di ogni diritto, la negazione della risarcibilità del danno da lesione del diritto alla vita a favore del soggetto stesso la cui vita è stata spenta da terzi viene a porsi in intima contraddizione con il riconoscimento della tutela propria del primo tra tutti i diritti dell’uomo.
Il vero problema, si osserva, è che il risarcimento costituisce solo una forma di tutela conseguente alla lesione di un “diritto di credito, diverso dal diritto inciso, ad essere tenuto per quanto è possibile indenne dalle conseguenze negative che dalla lesione del diritto derivano, mediante il ripristino del bene perduto, la riparazione, la eliminazione della perdita o la consolazione- soddisfazione-compensazione se la riparazione non sia possibile” (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Non è allora “giuridicamente concepibile”, si conclude, che dal soggetto che muore venga acquisito un diritto derivante dal fatto stesso della sua morte (“chi non è più non può acquistare un diritto che gli deriverebbe dal non essere più”), essendo “logicamente inconfigurabile” la stessa funzione del risarcimento che, nel diritto civile, non ha nel nostro ordinamento natura sanzionatoria bensì riparatoria o consolatoria, che in caso di morte che si è ravvisata “per forza di cose” non attuabile “a favore del defunto” (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Si è ulteriormente asserito che il “Pretendere che tutela sia data (oltre che ai congiunti) “anche” al defunto” risponda in realtà al mero “contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti”, giacchè non si sostiene “da alcuno che sia in linea col comune sentire o col principio di solidarietà l’erogazione del risarcimento da perdita della vita agli eredi “anzichè” ai congiunti (se, in ipotesi, diversi), o, in mancanza di successibili, addirittura allo Stato” (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Il risarcimento, si osserva, assumerebbe in tal caso una “funzione meramente punitiva, viceversa assolta dalla sanzione penale. E si risolverebbe in breve, come l’esperienza insegna, in una diminuzione di quanto riconosciuto iure proprio ai congiunti, cui viene ora riconosciuto un ristoro corrispondente ad un’onnicomprensiva valutazione equitativa, con la conseguenza che verrebbe a risultare frustrata anche la finalità di innalzamento dell’ammontare del risarcimento” (v. Cass., 24/3/2011, n. 6754).
I suindicati argomenti sono stati dalla giurisprudenza di legittimità anche recentemente ribaditi (v., da ultimo, Cass., 17/7/2012, n. 12236).
In una non risalente occasione, nel fare richiamo alla pronunzia Corte Cost., 6/5/1985, n. 132 e ricordando come parte della dottrina (italiana ed Europea) suggerisca il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente, al momento della lesione mortale, nel patrimonio della vittima quale corrispettivo del danno ingiusto, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata, questa Corte ha peraltro sottolineato come la ristorabilità anche del danno da morte, inteso come lesione del diritto inviolabile alla vita, in favore di chi la perde, si appalesi in realtà imprescindibile, in quanto tutelato dall’art. 2 Cost., e ora anche dalla Costituzione Europea (v. Cass., 12/7/2006, n. 15760).
Tale affermazione costituisce invero un obiter dictum, che nella stessa pronunzia viene definito “sistematico” e necessitato dall’essere la Corte Suprema di Cassazione “vincolata dal motivo del ricorso”.
In dottrina si è per altro verso suggerito di configurare la perdita della vita in termini di perdita della chance di sopravvivenza.
Movendo dalla qualificazione giurisprudenziale della chance quale “entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile”, che fa parte del soggetto la cui “perdita produce un danno attuale e risarcibile”; nonchè argomentando dalla ammissione della risarcibilità del danno (conseguente ad errata diagnosi medica) consistente nelle chances di vivere di più e meglio v. Cass., 16/10/2007, n. 21619. In giurisprudenza di merito v. Trib. Monza, 30/1/1998 (in Resp. civ., 1998, 696 ss.), si sostiene che, intendendo il dictum della Suprema Corte in una accezione più ampia, come se dicesse “alla vittima che, per effetto di un comportamento (illecito/negligente, omissivo o attivo) di un dato soggetto, abbia perduto la chance di vivere più a lungo, spetta il risarcimento del danno”, debba riconoscersi che allorquando viene colpito un bene già parte del patrimonio della vittima rappresentato dalla “aspettativa di vita media”, non può negarsene il ristoro.
Alla stessa stregua di quanto invero avviene, a prescindere dalla sua sopravvivenza per un apprezzabile arco temporale, per le cose materiali appartenenti alla vittima medesima, come ad esempio il diritto di proprietà sul veicolo distrutto in conseguenza del comportamento illecito altrui.
La suddetta ricostruzione è in effetti (anch’essa) sintomatica dell’avvertita esigenza di superare in qualche modo il recepito assunto della irrisarcibilità del danno da perdita della vita.
Proprio l’individuazione della chance quale entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita determina un danno attuale e risarcibile, depone peraltro per la relativa autonoma considerazione rispetto al bene vita, che, come da tempo in dottrina del resto sottolineato, è bene altro e diverso, in sè anche la prima in realtà racchiudendo.
Se ne trae comunque la conferma che la perdita della vita, bene massimo della persona, non può lasciarsi invero priva di tutela (anche) civilistica.
Orbene, il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all’effettivo sentire sociale nell’attuale momento storico.
Il ricorso a soluzioni indirette, la cui strumentante traspare evidente, testimonia la necessità di ammettersi senz’altro la diretta ristorabilità del bene vita in favore di chi l’ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui.
Movendo dalla considerazione della morte quale massima lesione del bene salute si è nella giurisprudenza di merito e in dottrina segnalata l’incongruenza di un’interpretazione che riconosce ristorabile la compromissione anche lieve della integrità psico- fisica e la nega viceversa quando essa raggiunge appunto la massima espressione, a fortiori in ragione della circostanza che per quanto breve possa essere il lasso di tempo in cui sopraggiunge, la morte costituisce pur sempre conseguenza della lesione (in giurisprudenza di merito v. Trib. Venezia, 15/6/2009, cit.: “in ogni caso quel che si trasmette non è il diritto assoluto della persona, ma quello patrimoniale al risarcimento del danno. Si è ancora osservato che i diritti non sono azioni umane o beni che vivono in tempo, ma sono in uno spazio logico: “tra fatto e diritto esiste una relazione logica (istituita dall’ordinamento), ma non una relazione temporale”. In altri termini, se la morte determina una lesione della salute, nel senso che elimina alla radice, l’evento morte determina sul piano logico giuridico, la nascita di una pretesa risarcitoria spettante agli eredi in virtù dell’apertura della successione al momento della morte come stabilito dall’art. 456 c.c.”. Negli stessi termini v.
Trib. Venezia, 15/3/2004, in Arch. circolaz., 2004, 1013 ss. e in Danno e resp., 2005, 1137 ss.. Nel senso che la morte è da intendersi quale massima lesione del bene salute v. altresì, in giurisprudenza di legittimità, Cass., 7/6/2010, n. 13672; Cass., 12/2/2010, n. 3357; Cass., 8/4/2010, n. 8360; Cass., 2/4/2012, n. 6273, e, da ultimo, Cass., 21/3/2013, n. 7126; e, in giurisprudenza di merito, Trib. S. Maria C.V., 14/5/2003, cit.; Trib. Brindisi, 5/8/2002; Trib. Messina 17/7/2002; Trib. Foggia 28/6/2002; Trib. Vibo Valentia, 28/5/2001 (in Danno e resp., 2001, 1095 ss.); Trib. Cassino, 8/4/1999 (in Giur. it., 2000, 1200 ss.); Trib. Massa Carrara, 19/12/1996 (in Danno e resp., 1997, 354 ss.); Trib. Civitavecchia, 26/2/1996 (in Riv. circ. e trasp., 1996, 958); Trib.
Vasto, 17/7/1996; Pret. Montella, 12/4/1996 (in Nuovo dir., 1998, 855 ss.); Trib. Napoli, 6/2/1991 (in Arch. circolaz., 1991, 586 ss.).
Orbene, che il diritto alla vita sia altro e diverso dal diritto alla salute costituisce dato invero inconfutabile, quest’ultima rappresentando un minus rispetto alla prima, che ne costituisce altresì il presupposto.
Siffatta distinzione non comporta tuttavia necessariamente la conclusione che della perdita della vita debba negarsi la ristorabilità.
In dottrina si è di recente autorevolmente suggerito di mutare l’impostazione del problema.
Nel sottolinearsi che le categorie giuridiche non costituiscono un dato oggettivo esistente in rerum natura, come il fatto che nelle stesse l’interprete si sforza di sussumere ai fini dell’applicazione del diritto, ma è uno strumento che lo stesso interprete a tale scopo crea, si è osservato, evocando in particolare la recente Cass., 17/7/2012, n. 12236, che non essendo entità oggettiva nè costituendo a priori concettuale ben possono le categorie essere dall’interprete poste “in qualunque momento in discussione”, e ciò “al di là della forza attrattiva di sedimentazioni storiche che ci conducono ad utilizzare certi paradigmi”.
Si è criticamente osservato che “Pretendere di giustificare le soluzioni in funzione di categorie classificatorie preconfezionate (e il limite risulta tanto più paradossale in quanto nella specie si tratta di categorie di derivazione giurisprudenziale), se può risultare indifferente nella maggior parte dei casi, quando si tratta di risolvere problemi in qualche modo consueti, e rispetto ai quali il profilo qualificativo può ritenersi scontato ed è comunque pacificamente accolto in base a criteri di valore condivisi, appare invece ingiustificato ed ambiguo quando si tratta di dare soluzione a problemi nuovi, dietro i quali pulsano contrasti in chiave assiologica e rispetto ai quali il pacifico riferimento ad una categoria classificatoria del passato risulterebbe inevitabilmente riduttivo e condizionante. E’ necessario allora mettere in discussione i nostri schemi tradizionali modificandone la struttura o forgiandone di nuovi. Perchè le categoria non sono trovate dall’operatore giuridico, ma sono da lui (consapevolmente o inconsapevolmente) costruite in vista del caso pratico che si tratta di risolvere”.
Si è per altro verso posto in rilievo come sia invero “aprioristico sostenere che, essendo, nell’ordinamento civile, la funzione del risarcimento di segno riparatorio o consolatorio, ne sarebbe impensabile un’attuazione a favore del defunto”.
Si è proposto di considerare allora la vita come “riconducibile alla sfera dei diritti e alla loro relativa tutela finchè appartiene al suo titolare”, e di intenderla viceversa “nell’ottica dei beni nel momento in cui viene distrutta”, rimarcando che all’esito della relativa estinzione, la vita “non è più riconducibile ad un titolare, ma non per questo, nella sua oggettività, immeritevole di tutela nell’interesse della collettività”.
L’ordito argomentativo risulta muovere anzitutto dal rilievo che “la qualificazione (e conseguentemente la tutela) in termini oggettivi non è alternativa ad una tutela in termini … soggettivi (essendo per esempio consentito al titolare del nome di reagire contro una sua infondata contestazione o contro una sua pregiudizievole usurpazione)”.
Si è sottolineato, ancora, come in un ordinamento in cui il diritto alla salute è definito dalla giurisprudenza quale “situazione resistente a tutta oltranza” (formulazione utilizzata da Cass., Sez. Un., 6/10/1979, n. 5172), sia “impensabile che invece il diritto alla vita possa degradare ad una tutela meno penetrante e diretta, finendo in qualche modo per dipendere dalla garanzia del primo” (e si evidenzia che tale è sostanzialmente l’assunto di Cass., 24/3/2011, n. 6754).
Privo di fondamento si è altresì ravvisata la tesi secondo cui la vita non sarebbe protetta (almeno nell’ottica della tutela risarcitoria) in quanto tale, ma solo in quanto la sua “perdita derivi da una lesione del diritto alla salute”, obiettandosi essere “invero difficile pensare che un’ impostazione di questo tipo non dipenda dal modo con cui vengono aprioristicamente assunte, ai fini della soluzione, le categorie qualificanti”.
Si è stigmatizzato che la giurisprudenza, pur avendo “concorso a modificare, in tema di responsabilità civile, gli angusti schemi di derivazione codicistica”, degli stessi abbia poi finito per rimanere “(almeno entro certi limiti) schiava”.
Si è osservato che il problema risulta “non direttamente affrontato nei suoi profili qualificanti” ma “aggirato” là dove, “anzichè circoscrivere il danno tanatologico alla sola lesione del bene vita, lo si sposta sul terreno di un danno ulteriore (ed eventuale) qual è la sofferenza che la vittima ha subito nel percepire la fine della propria esistenza”, a tale stregua addivenendosi ad “artificiose enfatizzazioni”, quali l’individuazione del cd. danno catastrofico o del cd. danno biologico terminale, nonchè a figure frutto della “fantasia della giurisprudenza” quali il “danno al rapporto parentale” e il “danno edonistico” (figura quest’ultima di diritto americano, concernente il “più ampio valore della vita”, comprendente “il profilo economico, quello morale, quello fisiologico; insomma (a) tutto il valore che si può attribuire alla vita”: v. Corte distr. Illinois, 15/11/1995 (Sherrod v. Berry, Breen and City of Joiliet), in Foro it., 1987, 4, 71 ss.).
Si è invitato a “rompere” allora “postulati categoriali”, e in particolare quello della “scontata coincidenza tra il punto di incidenza del danno e il titolare dell’azione risarcitoria”, mutando la prospettiva in modo da avere riguardo non più alla posizione del titolare bensì a quello dell’intera collettività, alla stregua di quanto avviene relativamente in tema di interessi diffusi e di tutela di consumatore.
Si è proposto di considerare quindi la perdita del bene vita quale danno non già del singolo individuo che la subisce bensì dell’intera collettività, in quanto “la morte rappresenta certo un danno (il più grave fra quelli possibili) per la persona, ma anche un costo per la società al quale deve corrispondere un risarcimento capace (sul terreno civilistico e non solo quindi sul versante delle sanzioni penali) di trasmettere ai consociati il disvalore dell’uccisione e la deterrenza della reazione dell’ordinamento”, sottolineandosi che “ridurre tutto al profilo della soggettività e delle sue tutele è certamente riduttivo e per tanti versi distorcente”.
Diversamente, in dottrina si è del pari autorevolmente da altri sottolineata la possibilità e la necessità di non abbandonare i tradizionali schemi argomentativi e di trarre piuttosto da essi nuovi e differenti corollari.
Si è posto in rilievo come l’assunto della assenza di capacità giuridica della vittima si profili carente laddove non considera che al momento della lesione mortale la medesima è ancora in vita, ed è in tale momento che acquista il diritto al risarcimento (principio rispondente, secondo alcuni, al brocardo momentum mortis vitae tribuitur).
Si è ulteriormente osservato che tra fatto e diritto esiste una relazione “logica” e non già “temporale”, sicchè nel determinare la scomparsa della persona la morte determina contestualmente anche l’insorgenza della pretesa risarcitoria e del relativo trapasso agli eredi.
Si è negato, sotto altro profilo, validità all’assunto che solo il danno conseguenza, e non anche il danno evento, debba ritenersi risarcibile, non trovando esso riscontro nel dato normativo e risultando smentito dalla stessa giurisprudenza.
Si è avvertito, con riguardo ad ulteriore aspetto, come la tesi dell’incedibilità e intrasmissibilità del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in ragione del relativo carattere strettamente personale sia stata superata dalla giurisprudenza (v. Cass., 3/10/2013, n. 22601), e si profili ormai generalmente recessiva sia nei sistemi di common law, ivi compreso quelli di diritto americano, che nei sistemi di diritto continentale, nello stesso ordinamento tedesco riconoscendosi agli eredi la pretesa al risarcimento del danno non patrimoniale (Schmerzengeld) acquistata in vita dal de cuius.
Al rilievo che il risarcimento non può giovare alla vittima ormai defunta si obietta che la circostanza per la quale la prestazione è percepita da altri non tocca il titolo dell’obbligazione nè estingue la sua funzione risarcitoria, giacchè anche attraverso la trasmissione per via ereditaria la vittima trae vantaggio dall’acquisizione del relativo credito, contribuendo esso ad accrescere l’eredità lasciata ai propri congiunti.
Si evidenzia, ancora, la fallacia dell’argomento secondo cui la morte non provoca sofferenza morale, atteso che la vittima comunque subisce il danno della perdita di un bene essenziale, senza altresì considerarsi che esso invero contrasta con il compiuto riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del nascituro, e a fortiori dell’ente giuridico per violazione del diritto al nome, all’onore, all’immagine, alla reputazione, all’identità.
Orbene, la tesi del danno collettivo è indubbiamente suggestiva.
Va senz’altro condivisa l’osservazione che le categorie dogmatiche create e poste dagli interpreti a base dell’argomentare non possono divenire delle “gabbie argomentative” di cui risulti impossibile liberarsi anche quando conducano ad un risultato interpretativo non rispondente o addirittura in contrasto con il prevalente sentire sociale, in un determinato momento storico.
Degli schemi tradizionali si profila peraltro prodromicamente necessario verificare se sia possibile confermarne la validità e utilità nel quadro della ricostruzione sistematica compiuta dalle Sezioni Unite nel 2008, prima di darsi ingresso a soluzioni radicali come quella del danno collettivo, che prospetta aspetti di indubbia problematicità, al di là del risultare connotata da profili di deterrenza e carattere sanzionatorio.
Va anzitutto posto in rilievo che un fondamentale principio dalle Sezioni Unite del 2008 posto a base, quale assioma o postulato, dell’argomentare è che solamente il danno conseguenza è risarcibile, non anche il danno evento.
Si è al riguardo in dottrina criticamente sottolineato che tale principio costituisce in realtà esso stesso il risultato di un oscillante orientamento interpretativo, essendo stato in un primo tempo abbandonato e quindi riproposto all’esito dell’accoglimento da parte della giurisprudenza di legittimità della figura del danno biologico (v. Cass., 10/3/1992, n. 2840).
Costituendo quello secondo cui risarcibili sono solo i danni- conseguenza, e non anche il danno-evento, un principio basilare dell’architettura argomentativa su cui si sorregge la rilettura del sistema dei danni operata dalle Sezioni Unite del 2008 alla stregua dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (cfr. Corte Cost., 27/10/1994, n. 372), non appare invero consentito quantomeno allo stato, a fortiori a distanza di sì breve arco temporale, avuto riguardo alle esigenze di certezza del diritto, “conoscibilità” della regola di diritto e ragionevole prevedibilità della sua applicazione (cfr, Cass., Sez. Un., 11/7/2011, n. 15144) su cui si fonda (anche) il valore del giusto processo ex art. Ili Cost. (cfr. Cass., 7/6/2011, n. 12408) farsi luogo in ordine al medesimo a un revirement interpretativo che la suindicata ricostruzione sistematica minerebbe alle fondamenta.
E’ invece ben possibile argomentare alla stregua della “logica interna” di tale principio.
Orbene, esso non appare di per sè idoneo ad escludere la ristorabilità del danno da perdita della propria vita.
Tale perdita non ha invero, per antonomasia, conseguenze inter vivos per l’individuo che appunto cessa di esistere, ma ciò non può e non deve tuttavia condurre a negarne in favore del medesimo il ristoro, giacchè la perdita della vita, bene supremo dell’uomo e oggetto di primaria tutela da parte dell’ordinamento, non può rimanere priva di conseguenze anche sul piano civilistico.
Vale al riguardo osservare che giusta incontrastato dato di esperienza ogni principio ha invero le sue eccezioni.
Orbene, non è chi non veda che il ristoro del danno da perdita della vita costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni-conseguenza.
La morte ha infatti per conseguenza … la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto. Non solo di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo, la vita, che tutto il resto racchiude. Non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze.
Non si tratta quindi di verificare quali conseguenze conseguano al danno evento, al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no.
Nel più sta il meno.
La morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima, che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l’illecito dell’autore non ne avesse determinato la soppressione.
Come correttamente osservato in dottrina, la perdita della vita va in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all’evento che la determina.
E’ allora proprio l’eccezione che vale a confermare la regola, evitando che la stessa risulti fallace in quanto insuscettibile di generare applicazione, sì da legittimarne la revoca in dubbio.
Altra e diversa questione costituisce d’altro canto la definizione dell’ambito dell’eccezione, se cioè anche la perdita di altri diritti inviolabili e beni essenziali dell’uomo, oltre a quello alla vita, legittimi di per sè l’attribuzione di un ristoro, a prescindere dalle conseguenze personali ed economiche che possano derivarne.
Vale al riguardo osservare come nella stessa giurisprudenza di legittimità si afferma, a volte, che la mera violazione di diritti inviolabili o di diritti fondamentali integra danno in re ipsa (in particolare, per l’affermazione che l’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c. comporta, nella liquidazione del danno da immissioni, sussistente in re ipsa, l’esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c., e specificamente, per quanto concerne il danno alla salute, nello schema del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c., v. Cass., 9/5/2012, n. 7048).
Deve in proposito peraltro ribadirsi che il danno, anche in caso di lesione di valori della persona, non può considerarsi in re ipsa, risultando altrimenti snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), ma va provato dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697 c.c..
A tale stregua, (pure) il danno non patrimoniale deve essere allora sempre allegato e provato, in quanto l’onere della prova non dipende dalla relativa qualificazione in termini di “danno-conseguenza”, ma tutti i danni extracontrattuali sono da provarsi da chi ne pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non patrimoniale, nei suoi vari aspetti, la prova potendo essere d’altro canto data con ogni mezzo, anche per presunzioni (v. Cass., 3/10/2013, n. 22585; Cass., 20/11/2012, n. 20292; Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì, successivamente alle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 5/10/2009, n. 21223; Cass., 22/7/2009, n. 17101; Cass., l/7/2009, n. 1540).
Negare alla vittima il ristoro per la perdita della propria vita significa determinare una situazione effettuale che in realtà rimorde alla coscienza sociale, costituendo ipotesi che del principio in argomento viene invero a minare la bontà, dando adito ad aneliti di relativo abbandono o superamento in quanto divenuto una “gabbia interpretativa” inidonea a consentire di pervenire a legittimi risultati ermeneutici, rispondenti al comune sentire sociale dell’attuale momento storico.
Deve pertanto revocarsi in dubbio l’assunto secondo cui, pur essendo superata da norme internazionali ed Europee, la discrasia tra “morte immediata” e “lesioni mortali” non costituisce invero lacuna o discriminazione costituzionalmente rilevante per il nostro ordinamento interno, posto che comunque il legislatore appresta mezzi di tutela, giurisdizionalmente azionabili (in sede penale e civile), sicchè solo “de iure condendo” appare auspicabile “una riforma che possa allineare il sistema italiano a quello internazionale o di diritto comune” (così Cass., 2/4/2001, n. 4783).
Perde invero pregnanza il rilievo che il risarcimento del danno da perdita della vita assumerebbe una funzione meramente punitiva, propria invero della sanzione penale (in tal senso v. in particolare Cass., 24/3/2011, n. 6754), giacchè la funzione compensativa risulta per converso pienamente assolta dall’obiettiva circostanza che il credito alla vittima spettante per la perdita della propria vita a causa dell’altrui illecito accresce senz’altro il suo patrimonio ereditario.
Vano risulta fare ricorso al presupposto del “lasso di tempo non trascurabile” o al criterio dell’intensità della sofferenza, meri escamotages interpretativi per superare le iniquità scaturenti dalla negazione del risarcimento del danno da perdita della vita, e superare le disparità di trattamento derivanti dalla necessità di stabilire quale esso sia.
Inutile si appalesa il sopperire alla mancanza di ristoro della perdita della vita mediante l'”attribuzione ai familiari – iure proprio – del diritto di risarcimento di tutti i danni non patrimoniali, comprensivi non delle sole sofferenze fisiche (eventuali danni biologici) o psichiche (danni morali o soggettivi), ma anche dei cd. danni esistenziali, consistenti nell’irredimibile, oggettiva e peggiorativa alterazione degli assetti affettivi e relazionali all’interno della famiglia (e che di un tanto si tratti emerge evidente dalla relativa ristorabilità riconosciuta anche in caso – come più sopra evidenziato – di sopravvivenza protrattasi solamente per mezz’ora o per pochi attimi dopo il sinistro), derivante dalla morte”.
Soluzione che pone il rischio di confusioni concettuali ovvero di avallare l’idea dell’uso strumentale di determinati istituti per sopperire al mancato riconoscimento di altri.
Vengono meno anche le ragioni delle (peraltro condivisibili) perplessità emergenti in ordine alla persistente affermazione dell’irrisarcibilità dell’agonia inconsapevole (v. Trib. Venezia, 6/7/2009, cit; Trib. Venezia, 15/3/2004, cit.), le cui incongruenze argomentative emergono evidenti in ragione del segnalato riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale in favore del neonato e del nascituro v. Cass., 3/5/2011, n. 9700: “la mancanza del rapporto intersoggettivo che connota la relazione tra padre e figlio è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla luce. In quel momento s’è verificata la propagazione intersoggettiva dell’effetto dell’illecito per la lesione del diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre; e nello stesso momento è sorto il suo diritto di credito al risarcimento, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della capacità giuridica per essere nato”; Cass., 11/5/2009, n. 10741, e a fortiori della persona giuridica e dell’ente per l’affermazione della risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia “equivalente” ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, come il diritto all’immagine, alla reputazione, all’identità della persona giuridica o dell’ente, v. Cass., 4/6/2007, n. 12929; Cass., 9/5/2001, n. 10125. Nel senso che spetta alla persona giuridica e all’ente non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, sofferto per la durata irragionevole del processo v. Cass., 4/6/2013, n. 13986; Cass., 1V12/2011, n. 25730; Cass., 29/3/2006, n. 7145; Cass., 18/2/2005, n. 3396; Cass., 16/7/2004, n. 13163. In ordine alla risarcibilità del danno all’immagine della P.A. v. Cass., 22/3/2012, n. 4542 e Cass., 4/6/2007, n. 12929, nonchè Corte Cost., 15/12/2010, n. 355. Per l’affermazione che anche nei confronti delle persone giuridiche, e in genere degli enti collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, che non coincide con la pecunia doloris (danno morale), bensì ricomprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole ad un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione, v. Cass., 12/12/2008, n. 29185.
La perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile, è allora ex se risarcibile, nella sua oggettività, a prescindere pertanto dalla consapevolezza che il danneggiato/vittima ne abbia.
La giurisprudenza di legittimità ha d’altro canto già avuto modo di affermare che la percezione della gravità della lesione dell’integrità personale della vittima nella fase terminale della sua vita può essere anche “non cosciente”, il danno essendo anche in tal caso pur “sempre esistente” (v. Cass., 28/8/2007, n. 18163. V. altresì Cass., 19/10/2007, n. 21976; e, da ultimo, con riferimento al danno morale, Cass., 7/2/2012, n. 1716: sarebbe iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento di un danno non patrimoniale diverso dal pregiudizio alla salute e consistente in sofferenze morali, e negarlo quando queste sofferenze non siano neppure possibili a causa dello stato di non lucidità del danneggiato. V. altresì Cass., 11/6/2009, n. 13530; Cass., 15/3/2007, n. 5987).
Va conclusivamente affermato che il danno non patrimoniale da perdita della vita consiste nella perdita del bene vita, bene supremo dell’individuo oggetto di un diritto assoluto e inviolabile dall’ordinamento garantito in via primaria, anche sul piano della tutela civile.
Trattasi di danno altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia pertanto dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se, nella sua oggettività di perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile.
La perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte cd. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto rilievo nè il presupposto della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento nè il criterio dell’intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine.
Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacchè la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l’illecito non ne avesse causato la soppressione.
Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis (cfr. Cass., 3/10/2013, n. 22601), non patrimoniale essendo il bene protetto (la vita), e non già il diritto al ristoro della relativa lesione.
Orbene, nel respingere “la domanda di risarcimento iure hereditario formulata dagli appellanti per il ristoro dei danni personali (da morte e da lesioni mortali) subiti dalla loro madre P. G., in quanto deceduta dopo circa tre ore e mezzo dal sinistro, dopo cioè un lasso di tempo insufficiente a far sorgere in capo alla vittima il diritto ad indennizzi di sorta”, la corte di merito ha disatteso i principi da questa Corte – anche a Sezioni Unite – posti già in tema di danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico), ravvisato ristorabile anche in caso di sopravvivenza della vittima per poche ore (v. Cass., 21/3/2013, n. 7126), anche solo due (v. Cass., 22/3/2007, n. 6946; Cass., 31/5/2005, n. 11601), e financo per una mera mezz’ora (v. Cass., 8/4/2010, n. 8360) o addirittura pochi attimi (v. Cass., 7/6/2010, n. 13672) dopo il sinistro.
Alla stregua di quanto sopra osservato in ordine alle incongruenze e agli aspetti ingiustificatamente discriminatori che (così come quella del danno biologico terminale) la figura del danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) prospetta (si pensi, ad esempio, con riferimento all’ipotesi di aereo dirottato da terroristi e lanciato verso un preannunziato attacco terroristico, al differente trattamento della vittima inconsapevole, in quanto affetta da malattia o perchè neonata, cui essa conduce rispetto alla vittima rimasta viceversa lucidamente in attesa dell’evento mortale), e a fortiori della segnalata diversità dell’oggetto del bene vita, la perdita della vita deve ritenersi dunque di per sè ristorabile in favore della vittima che la subisce, irrilevanti al riguardo invero essendo sia il presupposto della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento che il criterio dell’intensità della sofferenza della vittima per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine.
Deve a tale stregua nel caso senz’altro riconoscersi (anche) il danno da perdita della vita sia della P.G. che del S.M. dagli odierni ricorrenti S.M. e C. sia iure proprio che iure hereditatis subito.
E’ al riguardo appena il caso di rilevare che non si prospetta nella specie l’applicazione del principio della cd. prospective overruling, secondo cui, facendo eccezione al principio in base al quale la pronunzia con cui il giudice della nomofilachia muta la propria precedente interpretazione si applica retroattivamente (sicchè anche il caso portato alla sua attenzione viene deciso in base alla nuova regola), in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo tale da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso, il relativo abbandono si connoti del carattere della (assoluta) imprevedibilità, nel qual caso la norma non si applica secondo il nuovo significato attribuitale nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa (v. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2011, n. 15144).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il suindicato principio dell’overruling opera infatti in caso di mutamento di consolidata interpretazione di norma processuale, comportante un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa in danno di una parte del giudizio v. Cass., 27/12/2011, n. 28967. Conformemente v. Cass., 11/3/2013, n. 5962. Cfr. altresì Cass., 17/5/2012, n. 7755; Cass., 4/5/2012, n. 6801; Cass., 28/2/2012, n. 3042; Cass., 30/12/2011, n. 30111; Cass., 7/2/2011, n. 3030, e non anche in ipotesi di (radicale) mutamento di orientamento interpretativo in ordine a norma come nella specie di diritto sostanziale cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, 18 dicembre 2008, n. 20153/04, Unedic c. Francia; Cass., 17/5/2012, n. 7755; Cass., 4/5/2012, n. 6801; Cass., 3/11/2011, n. 22799.
In ordine alla quantificazione del danno da perdita del bene vita in favore della persona che appunto la perde va osservato che esso (come del resto il danno biologico terminale e il danno morale terminale della vittima), non è contemplato dalle Tabelle di Milano.
Il danno biologico terminale o il danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico), sono stati quantificati con applicazione del criterio equitativo cd. puro (v. Cass., 21/3/2013, n. 7126) ovvero, e più frequentemente, movendo dal dato tabellare dettato per il danno biologico, e procedendo alla relativa personalizzazione (v., in particolare, Cass., 8/4/2010, n. 8360).
Anche allorquando si è in giurisprudenza di merito fatto riferimento alla lesione del bene vita in sè considerato, ai fini liquidatori si è del pari solitamente utilizzato il criterio tabellare, riferito a soggetto con invalidità al 100% (v. in particolare la citata Trib. Venezia, 15/6/2009).
Idoneo parametro di liquidazione è stato altresì ritenuto l’indennizzo previsto dalla L. n. 497 del 1999 per i parenti delle vittime del disastro del Cermis (v. Trib. Roma, 27/11/2008, in Danno e resp., 2010, 533 ss.).
Come correttamente osservato in dottrina, l’autonomia del bene vita rispetto al bene salute/integrità psico-fisica impone peraltro di individuarsi un sistema di quantificazione particolare e specifico, diverso da quello dettato per il danno biologico.
Si è al riguardo evocato il criterio del rischio equivalente, elaborato dalla dottrina nordamericana.
Nel sottolinearsi le perplessità che esso peraltro suscita laddove, nella versione “soggettivistica” (che ai fini della determinazione della somma dovuta rimette all’indicazione della stessa vittima di quanto sarebbe disposta a pagare o ad accettare al fine di evitare o di sostenere il rischio dell’illecito) prospetta un rischio di “sovrastima” che ciascuno può assegnare al valore della propria vita, e in quella statistico-oggettiva di cd. salutazione sociale che rimette a quanto una data collettività (categoria di lavoratori, abitanti di una certa area geografica, ecc.) sarebbe disposta a pagare per ridurre le probabilità di morte di un soggetto, di identità non nota, alla stessa appartenente prospetta un rischio di “indifferenza” nei confronti della vittima e delle circostanze del caso concreto, si è invero adombrata la possibilità di farsi riferimento a quest’ultimo criterio “correggendolo con riferimenti legati al caso di specie, quali l’età della vittima e, quando sussistano elementi idonei, il valore indicativo attribuito dal danneggiato alla propria vita (ad es., gli oneri assicurativi sopportati in proporzione alla sua capacità patrimoniale)”.
Come già con riferimento alla liquidazione del danno non patrimoniale e al sistema delle tabelle, va ribadito che la valutazione equitativa spetta al giudice di merito ed è rimessa alla sua prudente discrezionalità l’individuazione dei criteri di relativa valutazione.
La stessa indicazione delle Tabelle di Milano è stata da questa Corte operata non già contrapponendo “una propria scelta a quella già effettuata dai giudici di merito” ma limitandosi a prendere atto della relativa pregressa diffusione e della conseguentemente palesata “vocazione nazionale” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Essendo la vita in sè e per sè insuscettibile di valutazione economica in un determinato preciso ammontare, appare imprescindibile che il diritto privato consenta di riconoscersi alla vittima per la perdita del suo bene supremo un ristoro che sia equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Deve ritenersi allora ammissibile qualsiasi modalità che consenta di addivenire ad una valutazione equa.
Non appare a tal fine invero idonea una soluzione di carattere meramente soggettivo, nè la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione (in considerazione ad esempio dell’età delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima).
Vale al riguardo altresì segnalare che dal riconoscimento della ristorabilità della perdita del bene vita in sè e per sè considerato, anche in caso di immediatezza o istantaneità della morte, deriva, quale corollario, la necessità di procedere alla relativa quantificazione senza dare in ogni caso ingresso a duplicazioni risarcitorie.
Rigettati i ricorsi proposti in via incidentale, l’accoglimento nei suindicati termini del ricorso proposto dai sigg. S.M. e C. nonchè dai sigg. F.E. e P.V. comporta, assorbita ogni altra e diversa questione, la cassazione in relazione dell’impugnata sentenza e il rinvio alla Corte d’Appello di Milano, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei seguenti principi:
– la categoria generale del danno non patrimoniale, che attiene alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita e (così come il danno patrimoniale si scandisce in danno emergente e lucro cessante) si articola in una pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale;
– il danno morale va inteso a) come patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico nonchè b) come lesione alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana;
– del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, sicchè se ne impone la valutazione equitativa;
– la valutazione equitativa, che attiene alla quantificazione e non già all’individuazione del danno, deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione;
– i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta e adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere idonei a consentire altresì la cd. personalizzazione del danno, al fine di addivenirsi ad una liquidazione equa, e cioè congrua, adeguata e proporzionata;
– la liquidazione deve rispondere ai principi dell’integralità del ristoro, e pertanto:
a) non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque non correlata all’effettiva natura o entità del danno ma tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento;
b) deve concernere tutti gli aspetti (o voci) di cui la generale ma composita categoria del danno non patrimoniale si compendia;
– il principio della integralità del ristoro subito dal danneggiato non si pone in termini antitetici ma trova per converso correlazione con il principio in base al quale il danneggiante è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone di evitarsi altresì duplicazioni risarcitorie, le quali si configurano (solo) allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito ed incidenti sulla persona del danneggiato;
– nel liquidare il danno morale il giudice deve dare motivatamente conto del relativo significato al riguardo considerato, e in particolare se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana;
– il danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale (che consiste nello sconvolgimento dell’esistenza sostanziatesi nello sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione – sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare -; in fondamentali e radicali scelte di vita diversa) risulta integrato in caso come nella specie di sconvolgimento della vita subito dal coniuge (nel caso, il marito) a causa della morte dell’altro coniuge (nel caso, la moglie);
– costituisce danno non patrimoniale altresì il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica;
– il danno da perdita della vita è altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se nella sua oggettività di perdita del principale bene dell’uomo costituito dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, e dovendo essere ristorato anche in caso di morte cd.
immediata o istantanea, senza che assumano pertanto al riguardo rilievo la persistenza in vita all’esito del danno evento da cui la morte derivi nè l’intensità della sofferenza interiore patita dalla vittima in ragione della cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine;
– il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacchè la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta (va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l’illecito non ne avesse causato la soppressione;
– il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis;
– il danno da perdita della vita è imprescindibilmente rimesso alla valutazione equitativa del giudice;
– non essendo il danno da perdita della vita della vittima contemplato dalle Tabelle di Milano, è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice di merito l’individuazione dei criteri di relativa valutazione che consentano di pervenire alla liquidazione di un ristoro equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità, non apparendo pertanto idonea una soluzione di carattere meramente soggettivo, nè la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in particolare dell’età delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima.
Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie p.q.r. il ricorso principale, rigettati i ricorsi incidentali condizionati. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2014[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]