QUALE GIURISDIZIONE PER L’AZIONE DI ACCERTAMENTO DELL’ILLEGITTIMITA’ DEL PROVVEDIMENTO
(E RIMOZIONE DI UNA PARTE DELLA SUA MOTIVAZIONE) RITENUTA LESIVA DELL’IMMAGINE?

Cons. Stato, sez. III, 18 aprile 2023, n. 3896 – Pres. Corradino, Est. Tulumello

Rientra nella giurisdizione del G.A. la domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità di un provvedimento finalizzata non alla caducazione degli effetti dell’atto (nel caso di specie lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazioni mafiose), ma alla eliminazione di una parte del suo contenuto motivazionale nei limiti in cui, facendo riferimento alla posizione del ricorrente, lede la sua immagine e la sua reputazione.

La situazione giuridica soggettiva della ricorrente, lesa dal potere autoritativo dell’amministrazione (che si assume essere stato illegittimamente esercitato), va qualificata come di interesse legittimo: non già in ragione della prospettazione (in cui di lamenta la violazione del diritto all’immagine), ma piuttosto quale conseguenza dell’applicazione al caso di specie delle categorie enucleate dalla plurisecolare giurisprudenza del giudice regolatore della giurisdizione in punto di causa petendi.

A tali, già dirimenti, considerazioni va ulteriormente aggiunto che il criterio discretivo basato sulla distinzione fra diritto soggettivo e interesse legittimo fu elaborato all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), riconoscendosi la giurisdizione dell’ (allora) unico giudice in “tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”. Con l’istituzione, ad opera della legge 31 marzo 1989, n. 5992, della IV Sezione del Consiglio di Stato, venne poi attribuita al giudice amministrativo la tutela degli interessi diversi dai diritti civili e politici: dal che la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi come elemento discretivo nell’individuazione del giudice fornito di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione.

A tale dicotomia – essendo vigente la legge abolitrice del contenzioso amministrativo: ed avendo la Costituzione recepito l’assetto ordinamentale pre-repubblicano (Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004) – si fa tuttora riferimento come criterio di riparto: ma non va trascurato – nell’ottica della conformità della regola enunciata al relativo parametro normativo – che, come avvertito da autorevole dottrina, il legislatore, e allo scopo di ridurre le conseguenze derivanti dalle difficoltà classificatorie in punto di individuazione della situazione giuridica soggettiva, nella norma che attualmente regola il riparto della giurisdizione ha spostato l’accento sull’ “esercizio o il mancato esercizio del potere” (art. 7, comma 1, cod. proc. amm.). Tale disposizione si inserisce nell’evoluzione del sistema italiano di giustizia amministrativa, non abrogando ma integrando la precedente disciplina del riparto.

FATTO e DIRITTO

1. La ricorrente, già aggiudicataria della procedura relativa all’affidamento della gestione in concessione dell’-OMISSIS- nel Comune di -OMISSIS-, concessione successivamente revocata a seguito dell’adozione nei suoi confronti di un provvedimento interdittivo antimafia da parte della Prefettura di Lecce, si duole delle carenze motivazionali ed istruttorie che a suo dire vizierebbero il d.P.R. 30 gennaio 2021, avente ad oggetto la nomina della commissione straordinaria per la provvisoria gestione del Comune di -OMISSIS- per infiltrazioni della criminalità organizzata, nella parte in cui detto provvedimento, e gli allegati contenenti le proposte del Ministro dell’Interno e del Prefetto di Lecce ex art.143 TUEL, fanno riferimento alla posizione della ricorrente, e quindi nei limiti dell’interesse fatto valere.

In sostanza la ricorrente lamenta che tali vizi – che sarebbero consistiti nell’averle impropriamente attribuito, per motivare il provvedimento avente ad oggetto la provvisoria gestione comunale, forme di contatto con la criminalità organizzata – le avrebbero cagionato un danno d’immagine, ed avrebbero altresì danneggiato la sua attività economica.

Ella non mira pertanto alla rimozione, mediante l’accoglimento della domanda caducatoria, dell’effetto tipico del provvedimento impugnato (rispetto al quale dichiara di non avere interesse): ma all’accertamento (e, dunque, alla rimozione) del lamentato vizio istruttorio e motivazionale, ai fini del ristoro per equivalente monetario dei danni in conseguenza patiti.

Il T.A.R.,dopo avere osservato che “l’esponente non fa parte della compagine sciolta, né riveste alcuna altra carica pubblica incisa dagli atti in rilievo, essendo una mera privata concessionaria di bene comunale (tale essendo menzionata nei provvedimenti)”, ha qualificato la posizione azionata non come interesse legittimo, ma come diritto soggettivo, e ha declinato la giurisdizione.

La ricorrente in primo grado ha proposto ricorso in appello, contestando la statuizione declinatoria della giurisdizione.

Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Ministero dell’Interno.

Il ricorso è stato trattenuto in decisione alla camera di consiglio del 9 marzo 2023.

2. In punto di fatto il T.A.R. ha osservato che “l’istante, in sostanza, lamenta la lesività, con riferimento al proprio diritto all’immagine ed alla propria libertà negoziale, delle affermazioni e delle motivazioni contenute nella relazione conclusiva redatta dalla Commissione incaricata di eseguire l’accesso nei confronti del Comune di -OMISSIS-, poi confluita nelle relazioni prefettizia e ministeriale allegate al provvedimento gravato, con il quale la gestione provvisoria dell’ente è stata affidata alla Commissione straordinaria nominata ai sensi dell’art. 144 TUEL”; e che “la ricorrente contesta che gli atti avversati sarebbero fondati su «un iter argomentativo e motivazionale assolutamente pretestuoso, abnorme, illogico, contraddittorio, lesivo ed offensivo della onorabilità della ricorrente», da cui sarebbe derivata la lesione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione e del diritto all’immagine di cui all’art. 2 Cost.”.

3. Ai fini dello scrutinio della dedotta questione di giurisdizione occorre anzitutto operare, nell’ottica dell’applicazione del criterio di riparto fondato sul c.d. petitum sostanziale, una corretta (e corente con i princìpi e con il dato positivo) individuazione delle domande proposte ed una conseguente qualificazione della situazione giuridica soggettiva azionata (nella misura in cui questa risulti rilevante ai fini dell’individuazione della regola di riparto).

Lo stesso giudice del riparto ricorda tradizionalmente (da ultimo Corte di Cassazione, SS.UU., ord. 28022/2022) che “è noto che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il cosiddetto “petitum sostanziale”, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto sulla base della “causa petendi”, ossia dei soli fatti dedotti a fondamento della pretesa fatta valere con l’atto introduttivo della lite, di cui essi sono manifestazione e da cui la domanda viene identificata, indagando sull’effettiva natura della controversia, in relazione alle caratteristiche del particolare rapporto fatto valere in giudizio ed alla consistenza delle situazioni giuridiche soggettive su cui esso si articola e si svolge (ex multis, Cass., S.U., 16 aprile 2021, n. 10105; Cass., S.U., 12 ottobre 2020, n. 21993; Cass., S.U., 31 luglio 2018, n. 20350; Cass., S.U., 16 maggio 2008, n. 12378; Cass., S.U., 11 aprile 2006 n. 8374; Cass. S.U., 27 gennaio 2005, n. 1622; Cass., S.U., 7 marzo 2003 n. 3508; cfr., da ultimo, Cass., S.U., 5 settembre 2022, n. 26039)”.

4. Nel caso di specie la ricorrente nel giudizio di primo grado ha chiesto anzitutto l’annullamento del provvedimento lesivo “in parte qua e nei limiti dell’interesse fatto valere”.

Come già accennato in premessa, ella ha spiegato di non agire per l’accertamento e alla rimozione del vizio (istruttorio e motivazionale) dedotto avendo di mira la caducazione dell’assetto di interessi posto dall’effetto tipico del provvedimento di scioglimento.

La domanda proposta mira piuttosto ad accertare l’illegittimo esercizio del potere esercitato nella fattispecie: il dedotto vizio istruttorio e motivazionale lede l’interesse della ricorrente, ed ella intende rimuoverne le conseguenze pregiudizievoli, indipendentemente dal non contestato scioglimento del Consiglio comunale.

Si tratta, pertanto, di una domanda di accertamento, funzionale alla caducazione in parte qua del provvedimento lesivo: si versa, dunque, nella prima delle ipotesi che la dottrina più autorevole ha enucleato, distinguendo fra “accertamento come momento cognitivo che attiene ai presupposti per l’adozione di una sentenza costitutiva o di condanna, dall’azione di mero accertamento, volta ad eliminare una situazione di incertezza”.

In ogni caso, alla luce del riferito inquadramento della fattispecie (e prescindendo, allo stato, dal rilievo della funzionalizzazione dell’azione di accertamento anche alla domanda risarcitoria pure proposta, di cui si dirà a breve), la situazione giuridica soggettiva della ricorrente, lesa dal potere autoritativo dell’amministrazione (che si assume essere stato illegittimamente esercitato), va inequivocamente qualificata come di interesse legittimo: non già in ragione della prospettazione, ma piuttosto quale conseguenza dell’applicazione al caso di specie delle categorie enucleate dalla plurisecolare giurisprudenza del giudice regolatore della giurisdizione in punto di causa petendi.

5. L’applicazione del criterio del petitum sostanziale comporta quindi la devoluzione della controversia alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, in ragione della natura della situazione giuridica soggettiva di cui si chiede la tutela mediante la domanda di annullamento (in parte qua) del provvedimento impugnato.

6. A tali, già dirimenti, considerazioni va ulteriormente aggiunto che il criterio discretivo basato sulla distinzione fra diritto soggettivo e interesse legittimo fu elaborato all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E), riconoscendosi la giurisdizione dell’ (allora) unico giudice in “tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”.

Con l’istituzione, ad opera della legge 31 marzo 1989, n. 5992, della IV Sezione del Consiglio di Stato, venne poi attribuita al giudice amministrativo la tutela degli interessi diversi dai diritti civili e politici: dal che la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi come elemento discretivo nell’individuazione del giudice fornito di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione.

A tale dicotomia – essendo vigente la legge abolitrice del contenzioso amministrativo: ed avendo la Costituzione recepito l’assetto ordinamentale pre-repubblicano (Corte costituzionale, sentenza n. 204 del 2004) – si fa tuttora riferimento come criterio di riparto: ma non va trascurato – nell’ottica della conformità della regola enunciata al relativo parametro normativo – che, come avvertito da autorevole dottrina, il legislatore, probabilmente allo scopo di ridurre le conseguenze derivanti dalle difficoltà classificatorie in punto di individuazione della situazione giuridica soggettiva (ed i connessi limiti ad una efficace tutela del cittadino derivanti dall’incertezza nell’individuazione della regola di riparto), nella norma che attualmente regola il riparto della giurisdizione ha spostato l’accento sull’ “esercizio o il mancato esercizio del potere” (art. 7, comma 1, cod. proc. amm.).

Tale disposizione si inserisce nell’evoluzione del sistema italiano di giustizia amministrativa, non abrogando ma integrando la precedente disciplina del riparto.

Si tratta di un dato normativo che non può essere ignorato nella ricognizione del significato della complessiva disciplina, e nella sussunzione della singola fattispecie nell’ambito categoriale prefigurato dal diritto positivo

7. Sempre nell’ottica di non trascurare la rilevanza del precetto positivo, la stessa dottrina avverte che la violazione del principio di “concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi” (art. 7, comma 7, cod. proc. amm.), trattandosi di principio riferito all’articolata nozione di giusto processo, potrebbe far sorgere dubbi di legittimità costituzionale di un diritto vivente che da tale parametro si discostasse (sussistendo il legame con il potere).

Anche nell’ottica dell’interpretazione necessariamente adeguatrice della regola – positiva- di riparto, e alla luce di tutte le considerazioni che precedono (in punto di ricostruzione della disciplina positiva regolante il riparto della giurisdizione), deve pertanto ritenersi che non risulta assistita da un condivisibile fondamento l’affermazione del primo giudice secondo la quale “la posizione giuridica sostanziale vantata dall’esponente, riguardata alla luce della causa petendi del ricorso, non è in alcun modo intersecata dal potere esercitato dall’amministrazione nella vicenda de qua”.

8. La ricorrente ha altresì proposto sempre nel giudizio di primo grado, una domanda di “accertamento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale”, domandando il ristoro per equivalente dei danni patiti in conseguenza del vizio (istruttorio e motivazionale) del provvedimento.

Con riferimento a questa seconda domanda è sufficiente osservare che l’art. 7, comma 4, del codice del processo amministrativo devolve alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, tra l’altro, le controversie “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.

Quando il danno lamentato è conseguenza del cattivo esercizio del potere la posizione del danneggiato è di interesse legittimo e la relativa domanda risarcitoria non può che essere conosciuta dal giudice amministrativo.

Anche in questo caso la dottrina non ha mancato di rilevare, con particolare rigore metodologico, che “la lettura che del sistema generale ha dato Corte cost. n. 204/2004 conferma la concentrazione in capo al giudice amministrativo delle questioni risarcitorie connesse all’attività provvedimentale dell’amministrazione. Tale soluzione è ora sposata dal codice del processo (d. lgs. 104/2010), che all’art. 7 non lascia spazi alla giurisdizione di giudici diversi quanto alle controversie risarcitorie originate dalla lesione di posizioni giuridiche legate all’esercizio di poteri”.

9. Il danno lamentato non è dunque un danno da comportamento, e meno che mai da comportamento “mero”, id est del tutto svincolato dall’esercizio del potere: unica fattispecie nella quale la Corte costituzionale ha ritenuto la conformità a Costituzione della regola di riparto che devolve al giudice ordinario la relativa controversia (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 20 del 2021).

10. Non risulta pertanto condivisibile la sentenza gravata allorchè afferma che la situazione giuridica soggettiva della quale la ricorrente chiede tutela – la “libertà di iniziativa economica cui all’art. 41 della Costituzione” ed il “diritto all’immagine di cui all’art. 2 Cost.” – avrebbe “consistenza di diritto soggettivo”.

Nel caso di specie, l’esercizio del potere, che si assume viziato, ha prodotto effetti giuridici – ancorché indiretti – sull’esercizio di tali diritti: secondo l’ordinaria vicenda che vede il diritto suscettibile di essere compresso, nelle sue forme di godimento, dall’esercizio del potere.

Non si tratta, peraltro, neppure di diritti cc.dd. incomprimibili, o indegradabili, secondo la nota classificazione del giudice del riparto (che peraltro la dottrina, con argomenti rimasti insuperati, ha dimostrato essere priva di un plausibile fondamento di teoria generale).

In ogni caso, se in tale vicenda l’amministrazione abbia o meno “compresso“ il diritto oltre lo spettro dei propri poteri, è questione che concerne il merito, vale a dire la (contestata) legittimità delle forme di esercizio, in concreto, del potere: e non riguarda la giurisdizione, che è invece un presupposto processuale.

10. Argomenta ulteriormente il T.A.R. che “a ben vedere, la dedotta lesività deriverebbe non dal provvedimento autoritativo, bensì dai meri fatti enunciati nel corpo degli atti gravati, venendo dunque in considerazione, semmai, un ipotetico pregiudizio recato ad una posizione vantata che ha la consistenza del diritto soggettivo”.

Tale affermazione non risulta autorizzata da una corretta lettura del ricorso di primo grado: nel quale si afferma che gli effetti lesivi del provvedimento sono stati amplificati dalla diffusione dello stesso mediante organi di informazione, ma pur sempre nel contesto di una domanda che univocamente mira al duplice risultato processuale (parzialmente caducatorio, e risarcitorio) sopra descritto.

I “fatti enunciati nel corpo degli atti gravati”, nella misura in cui non afferiscono (quali conseguenze) al provvedimento impugnato e al relativo procedimento (che di tali fatti costituiscono la causa), possono al più incidere nel merito della liquidazione del danno: ma non possono certamente avere l’effetto di negare la qualificazione della fattispecie come direttamente correlata all’esercizio del potere che si assume viziato (che sul punto risulta inequivoca).

11. Non è pertanto condivisibile neppure l’affermazione della sentenza impugnata secondo la quale la ricorrente, poiché “non fa parte della compagine sciolta, né riveste alcuna altra carica pubblica incisa dagli atti in rilievo, essendo una mera privata concessionaria di bene comunale (tale essendo menzionata nei provvedimenti)”, non sarebbe titolare di “una posizione di interesse legittimo rispetto al potere esercitato dall’amministrazione, tale da legittimarla a reagire avverso gli atti impugnati”.

Tale conclusione opera una ricognizione solo parziale ed eccessivamente formale dei destinatari (degli effetti) del provvedimento: tanto più non condivisibile perché posta a presupposto della successiva negazione dell’accesso alla tutela giurisdizionale avverso gli atti di esercizio del potere (questione che peraltro, a ben vedere, essendo argomentata mediante il riferimento a requisiti soggettivi, attiene più allo scrutinio della sussistenza, in concreto, dell’interesse a ricorrere – operazione logica che, quale condizione dell’azione, si pone a valle dell’individuazione della regola di riparto – che alla astratta qualificazione della situazione giuridica soggettiva azionata, propedeutica all’individuazione della giurisdizione).

Ove si accedesse ad una simile opzione ermeneutica, peraltro, si avrebbe che il terzo che – a torto o a ragione – si dica leso dagli effetti di un provvedimento amministrativo direttamente destinato ad altri, non potrebbe mai impugnarlo, e addirittura rispetto alla lamentata lesione, provocata dalla vicenda del potere, non sarebbe titolare di un interesse legittimo.

È viceversa un dato ormai acquisito quello per cui la dialettica autorità-libertà, che nello Stato liberale seguiva una logica tendenzialmente binaria, nello Stato sociale pluriclasse si caratterizza invece per la presenza della posizione (anche) dei portatori di interessi antagonisti, o comunque indirettamente coinvolti, rispetto alla funzione esercitata dall’amministrazione.

12. Conclusivamente, va dunque rilevato che la giurisdizione competente a conoscere la domanda caducatoria e quella risarcitoria è, per quanto fin qui detto, quella del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7 – rispettivamente, comma 1 e comma 4 – del codice del processo amministrativo.

Ne segue che, in accoglimento dell’appello, debba essere affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine all’intera controversia e che, annullata la decisione qui impugnata, la stessa controversia debba essere rimessa in toto alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nel termine stabilito dall’art. 105, comma 3, c.p.a.

Le parti devono, ai sensi dell’art. 105, comma 3, c.p.a., riassumere avanti al Tribunale il processo con ricorso notificato nel termine perentorio di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza.

Le spese del doppio grado del giudizio, per la parziale novità delle questioni esaminate, possono essere interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, annulla la sentenza di primo grado con rinvio della causa al Tribunale amministrativo per il Lazio.

Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la ricorrente.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 marzo 2023 con l’intervento dei magistrati: