IL SINDACATO PER MOTIVI DI GIURISDIZIONE SULLE SENTENZE DEL GIUDICE SPECIALE:
LE SEZIONI UNITE CONFERMANO LA LETTURA COSTITUZIONALE ANNULLATA DALLA CORTE DI GIUSTIZIA

Cassazione civile, Sez. Unite, 5 aprile 2023, n. 9369

Anche il cd. eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al    contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale) o di difetto  relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga   ad altri giudici); e poiché la nozione di eccesso di potere  giurisdizionale non ammette letture estensive, neanche limitatamente ai casi di sentenze abnormi, anomale ovvero caratterizzate da uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento, il relativo vizio non è configurabile in relazione a denunciate violazioni di legge sostanziale o processuale riguardanti il modo di esercizio della giurisdizione speciale.

Se è pur vero che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione  giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza  compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame, tuttavia, non per questo ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111, ottavo comma, Cost. e dagli artt. 362 cod. proc. civ. e 110 cod. proc. amm.. Infatti, ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire.

Va ribadito che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta  eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., in quanto l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione. Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di giurisdizione inteso in senso dinamico – ha rimarcato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.

 

 

FATTI DI CAUSA

Con determinazione dirigenziale n. 299 del 26.7.2001, il Comune di Canosa di Puglia aggiudicò ad Ecolife S.r.l. il servizio di igiene urbana, spazzamento e servizi complementari al canone annuo di euro 2.298.233,20.

Venne, quindi, stipulato il contratto rep. n. 1363 del 28.9.2001, di durata novennale con decorrenza dall’1.9.2001 al 31.8.2010.

Tale contratto fu inizialmente prorogato per sei mesi e, così successivamente, fino al 28.2.2011; per effetto di ulteriori proroghe,  il servizio si protrasse fino al 31.8.2012.

Prima della scadenza naturale del contratto (31.8.2010), con    ricorso promosso dinanzi al T.A.R. per la Puglia – Bari (rubricato al r.g. n. 577/2009), Ecolife S.r.l. chiese che fosse accertato il diritto al compenso revisionale maturato sul corrispettivo dell’appalto per gli anni dall’1.9.2001 al 31.12.2009, previa declaratoria di nullità del  comma 7 dell’art. 18 del capitolato speciale d’appalto, che prevedeva una franchigia in favore dell’amministrazione pari al 10%.

Con sentenza 20.6.2013, n. 999, in parziale accoglimento del gravame promosso da Ecolife, S.r.l., il T.A.R. adito 1) dichiarò «il diritto della società ricorrente a percepire le somme spettanti a titolo di revisione prezzi rispetto al canone d’appalto per i servizi di cui al  contratto del 28.9.2001, con riferimento al periodo compreso tra il 1° settembre 2002 e il 31 dicembre 2009, secondo le modalità ed i criteri indicati in motivazione, maggiorate degli interessi legali calcolati su base annuale dalla costituzione in mora sino all’effettivo soddisfo»; 2) condannò il Comune di Canosa di Puglia «a corrispondere in favore della società ricorrente le somme indicate al precedente punto, detratte di quanto già versato a titolo di revisione ove riferibile all’arco temporale considerato, previo accordo da raggiungersi con l’interessata entro 90 (novanta) giorni dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 34, quarto comma, c.p.a.».

In pendenza del giudizio di appello della sentenza n. 999/2013 (poi passata in giudicato) Ecolife S.r.l. presentò ricorso per la sua ottemperanza (r.g. n. 232/14 del T.a.r. per la Puglia – Bari), deciso    con sentenza n. 849 del 20 giugno 2019, avverso la quale venne proposto gravame dinanzi al Consiglio di Stato (con ricorso iscritto al  n.r.g. 7335/2019).

Nel frattempo Ecolife S.r.l., con separato ricorso iscritto dinanzi allo stesso T.A.R. per la Puglia – Bari (col n. r.g. 952/2013), chiese l’accertamento del diritto al compenso revisionale per il periodo immediatamente successivo, dall’1.1.2010 al 31.8.2012. In questo giudizio chiese la condanna del Comune di Canosa di Puglia al pagamento delle somme dovute a titolo di revisione e/o adeguamento del canone oltre accessori di legge, ivi compresi gli interessi legali e/o moratori per ritardato pagamento, anche ai sensi del d.lgs. n.     231/2002, nonché, se del caso, la dichiarazione di nullità della clausola n. 18 del capitolato speciale d’appalto per il servizio di igiene urbana e complementari, allegato al contratto di appalto del 28.9.2001 rep. n. 1363, nella parte in cui subordina la revisione del   canone di appalto, a decorrere dal secondo anno, al verificarsi di aumenti o diminuzioni del costo del personale addetto, del carburante e dello smaltimento, tali da determinare una media ponderata di variazione superiore al 10% del prezzo di appalto, in contrasto con quanto disposto dall’art. 6 della legge 24.12.1993, n. 537, così come modificato dall’art. 44 della legge 23.12.1994, n. 724.

Il Comune si costituì resistendo al gravame e proponendo ricorso incidentale con domanda riconvenzionale, con cui oppose un credito pari ad euro 254.187,41 per canoni annui corrisposti in eccesso a titolo di revisione prezzi del servizio igiene urbana e complementari con decorrenza dal giorno 1.9.2002 al 31.8.2012 (data di cessazione del servizio), oltre interessi legali a partire da quest’ultima data e fino al dì dell’effettivo soddisfo.

Con sentenza n. 565/2019 il T.AR. adito – dato atto di una S consulenza tecnica d’ufficio disposta nel parallelo giudizio n. 232/2014 per quantificare le somme spettanti alla ricorrente nel periodo fino al 31 dicembre 2009 e dell’acquisizione, nel presente giudizio, in data 15 dicembre 2018 di una relazione istruttoria richiesta all’amministrazione comunale – rigettò le questioni  preliminari di rito e di merito proposte dalle parti e, nel merito dei due ricorsi, principale e incidentale, decise nei termini appresso indicati.

Quanto al ricorso principale: 1) premesso il diritto alla revisione del prezzo di appalto della società ricorrente, diede atto della rinuncia di quest’ultima alla domanda relativa alle annualità 2011 e 2012, giusta memoria del 15 febbraio 2019, limitò, quindi, la propria pronuncia alla sola annualità 2010; 2) rinviando, ex art. 74 cod. proc. amm., alla motivazione della sentenza n. 999/2013 e decidendo in conformità, riaffermò «la piena operatività del meccanismo di    sostituzione legale (artt. 1419, comma 2, e 1339 del codice civile) per quanto concerne la contestata clausola di cui all’art. 18 del capitolato   speciale d’appalto nella parte in cui subordina la revisione del canone d’appalto, a decorrere dal secondo anno, al verificarsi di aumenti o diminuzioni del costo del personale addetto, del carburante e dello smaltimento, tali da determinare una media ponderata di variazione è superiore al 10% del prezzo di appalto, in quanto in contrasto con il meccanismo imperativo di revisione che non contempla alcuna franchigia»; 3) stabilì che la revisione con riferimento all’anno 2010 dovesse essere calcolata applicando l’indice FOI e che gli interessi di mora erano dovuti nella misura legale e non ai sensi del d.lgs. n. 231/2002, essendo stato il contratto stipulato prima dell’8 agosto 2002 (data a decorrere dalla quale soltanto alle somme dovute per revisione dei prezzi contrattuali si applicavano gli interessi di cui al citato decreto legislativo); 4) dispose che, in sede di liquidazione, si dovesse tenere conto dell’eventuale compensazione (oggetto del ricorso incidentale con domanda riconvenzionale) di quanto corrisposto in relazione all’anno 2010 dal Comune di Canosa di Puglia ad Ecolife S.r.l. in forza della determina n. 397/2005 (ratione temporis operante nell’anno 2010), non potendo trovare applicazione, con riferimento a detta annualità, i criteri di cui alla successiva determina dirigenziale n. 366/2010 (relativa alle annualità 2011 -2012 oggetto di rinuncia da parte della società istante con memoria del 15.2.2019).

Con riferimento al ricorso incidentale: 1) reputò ammissibile la domanda incidentale limitatamente a quanto corrisposto in eccesso dal Comune per il solo anno 2010, e cioè «nei limiti dell’eventuale  controcredito vantato dalla stessa P.A. unicamente con riferimento al periodo successivo al giorno 1.1.2010, in relazione al solo compenso revisionale eventualmente corrisposto in eccesso e con esclusione di   diversi costi ed oneri che fuoriescono dalla giurisdizione del G.A.»; 2) affermò che la determina dirigenziale n. 366/2010, su cui il Comune aveva basato la domanda incidentale concernesse incontestabilmente la revisione relativa al periodo successivo all’1.1.2011, deponendo in tal senso il suo tenore letterale; 3) a tale riguardo condivise, pertanto, le conclusioni raggiunte dal C.T.U. nominato nel giudizio parallelo r.g. n. 232/2014 circa il fatto che detta delibera avesse decorrenza dall’1 gennaio 2011; 4) conseguentemente affermò che dall’importo che sarebbe risultato dovuto a titolo di revisione per l’anno 2010 dovessero essere sottratte le somme già erogate in favore della società ricorrente a titolo di revisione, ove motivatamente riferibili all’anno 2010 sulla scorta di documentazione o calcoli che l’Amministrazione avrebbe avuto l’onere di allegare alla proposta di accordo.

Il T.A.R. adito, quindi, accolse il ricorso principale e quello incidentale nei limiti appena precisati e, per l’effetto, per il solo anno 2010, affermò il diritto della società alla revisione prezzi del canone di appalto per i servizi di cui al contratto del 28 settembre 2001 e ne rimise la determinazione all’Amministrazione comunale secondo le modalità ed i criteri indicati nella motivazione di quella decisione, maggiorate degli interessi legali calcolati su base annuale dalla costituzione in mora sino all’effettivo soddisfo, con conseguente condanna del Comune di Canosa di Puglia al pagamento del dovuto,  previo accordo da raggiungere con l’interessata ai sensi dell’art. 34, comma 4, cod. proc. amm., e compensò le spese processuali.

Avverso tale sentenza il Comune di Canosa di Puglia propose appello, cui resistette Ecolife S.r.l..

Disposta con ordinanza collegiale 6 maggio 2020, n. 2858 una verificazione al fine di «acquisire in via istruttoria, a fronte di dati fattuali disomogenei ed incoerenti, dettagliato e documentato riscontro in ordine alle liquidazioni operate, con distinti deliberati, a favore della società, con puntuale riferimento ai criteri di   quantificazione adottati ed alla precisa imputazione, anche sotto il profilo temporale, delle somme concretamente corrisposte», il Consiglio di Stato, con sentenza n. 7959/2019, pubblicata il 30.11.2021, respinse l’appello, compensò le spese di quel grado, ad o eccezione delle spese di verificazione, che pose definitivamente e per intero a carico del Comune di Canosa di Puglia, e ordinò che la sentenza fosse eseguita dall’autorità amministrativa.

Avverso la richiamata sentenza del Consiglio di Stato il Comune di Canosa di Puglia ha proposto ricorso ex artt. 360, comma 1) cod. proc. civ. e 110 cod. proc. amm., basato su un unico motivo e illustrato da memoria.

Ecolife S.r.l. ha resistito con controricorso pure illustrato da memoria.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’unico motivo è così rubricato: «Art. 360, comma 1, punto 1) c.p.c. e 110 c.p.a.: diniego di giustizia e/o rifiuto di giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda riconvenzionale non può formare oggetto di funzione giurisdizionale ex art. 133, comma 1, lett. e), n. 29 c.p.a. in violazione degli artt. 24, comma 1, e 111, comma 1, Cost. Violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale (anche amministrativa ex art. 1 c.p.a.)».

Con il mezzo in esame, il ricorrente sostiene che il Consiglio di   Stato, «avendo dichiarato inammissibile il ricorso incidentale con domanda riconvenzionale proposto dal Comune di Canosa di Puglia ai sensi dell’art. 42, comma 5 c.p.a., reca in parte qua un “diniego di giustizia” e/o rifiuto di giurisdizione” nell’ambito della giurisdizione    esclusiva riservata al Giudice amministrativo dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2) c.p.ca. sulle controversie “… relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica nell’ipotesi di cui all’articolo 115 del decreto legislativo 12 aprile 200, n. 163″».

In particolare il Comune ricorrente assume che non potrebbero «predicarsi limitazioni e/o restrizioni alla proponibilità nel ricorso amministrativo – e al conseguente esame da parte del g.a. – di una domanda riconvenzionale con ricorso incidentale che risulti “… correlata alla vicenda sostanziale in contestazione” (Cons. Stato n. 6259/2002 cit.); pena la violazione degli artt. 24, comma 1 e 111, comma 1, Cost., nonché del postulato principio di effettività della tutela giurisdizionale (anche amministrativa ex art. 1 c.p.a.), rientrante nel sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione affidato a codesta Corte regolatrice». Deduce, quindi, «l’erroneità dell’assunto del Giudice amministrativo d’appello secondo cui, ai sensi dell’art. 42, comma 5 c.p.c., non sarebbero “del tutto coincidenti” i presupposti di ammissibilità della domanda riconvenzionale proposta con ricorso  incidentale nelle controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (rispetto a quello proposto nella generale giurisdizione di legittimità)». Asserisce che nella materia oggetto del giudizio, devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a. ex art. 133, comma 1, lett. e), n. 2) c.p.a., il “titolo già dedotto” in giudizio dal ricorrente principale sarebbe costituito dal sottostante “contratto ad esecuzione continuata” nel quale si faccia questione della “clausola di revisione del prezzo” e del “relativo provvedimento applicativo”.

Sostiene che, nella specie, sarebbe il contratto di appalto del 28.9.2001, avente decorrenza dal 1°.9.2001 al 31.8.2012, a costituire il “titolo” dedotto in giudizio dal ricorrente principale e, per l’effetto, a determinare quella «… comunanza della situazione o del rapporto giuridico dal quale traggono fondamento le contrapposte pretese delle parti (Cass. civ., n. 7076/2016 cit.)» e che sarebbe «sempre il contratto, e in particolar modo la clausola di revisione del prezzo ivi prevista (art. 18 c.s.a.), a tracciare il perimetro de: “… l’esercizio in concreto della stessa funzione”». Denuncia l’erroneità della sentenza impugnata sia nella parte in cui si afferma che «quando l’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2 Cod. proc. amm., riserva al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sul provvedimento applicativo della clausola di revisione dei prezzi, individua appunto in tale provvedimento applicativo il “titolo” dedotto in giudizio. Il thema decidendum perciò è delimitato dal contenuto del provvedimento applicativo impugnato e tale rimane anche a seguito della proposizione del ricorso incidentale ex art. 42, comma 5, Cod. proc.amm.» sia laddove si rileva che «… non si intende affatto affermare che l’amministrazione non possa basare la propria domanda riconvenzionale su provvedimenti amministrativi diversi da quello impugnato dall’appaltatore, ma soltanto che la cognizione di tali provvedimenti amministrativi in tanto è ammissibile, anche in via riconvenzionale, in quanto essi abbiano ad oggetto quella stessa “porzione” del rapporto contrattuale che già fa parte del thema decidendum»; evidenzia la «contraddittorietà del dictum che, pur avendo, prima, assunto la centralità del “provvedimento applicativo” impugnato col ricorso principale, sostiene poi, che oggetto del processo amministrativo è, in ogni caso, il “rapporto contrattuale che  attiene alla clausola revisionale del prezzo”, ancorché nella “parte” o “porzione” dello stesso delimitato dal provvedimento impugnato col    ricorso principale. Apparendo, del resto, di non agevole individuazione  [il] perimetro e/o …l’entità di quelle “parti”/”porzioni” di un rapporto   che geneticamente fondi sulla “esecuzione continuata”, a fortiori in mancanza di un “provvedimento applicativo” impugnato dal ricorrente principale; come simultaneamente arduo è ipotizzare che, in una ristretta “porzione” del rapporto negoziale, sussistano “provvedimenti amministrativi diversi da quello impugnato dall’appaltatore».

Conclusivamente, secondo il ricorrente, sussisterebbero «il “diniego di giustizia” e/o il “rifiuto di giurisdizione “perpetrato a danno dell’amministrazione ricorrente dall’impugnata sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato n. 7959/2021, fondati sull’erroneo presupposto che la domanda riconvenzionale proposta in giudizio  dalla p.A. non possa formare oggetto di funzione giurisdizionale ex artt. 133, comma 1, lett. e), n. 2) e 42, comma 5, c.p.a., in violazione degli artt. 24, comma 1, e 111, comma 1, Cost..

Invero, l’interpretazione delle ridette norme processuali operata da Palazzo Spada, determinando la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale promossa con ricorso incidentale dalla p.A. in materia di giurisdizione esclusiva, riverbera, con ogni evidenza, in termini di negazione dell’invocato esercizio della funzione giurisdizione e di lesione della effettività cui deve essere informata la tutela giurisdizionale (anche amministrativa ex art. 1 c.p.a.)».

1.1. Il motivo è inammissibile, alla luce dei principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di diniego o rifiuto di giurisdizione e appresso riportati: «In materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice speciale, integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione contro la regola iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della    estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice, atteso che, ove tale affermazione fosse, invece, accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorrerebbe un’ipotesi di diniego della propria  giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili  dalla Corte di cassazione ex art 111, ultimo comma, Cost, diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione soggettiva azionata» (Cass., sez. un., n. 13976 del 6/06/2017); «In materia di controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione delle sentenze dei giudici speciali, che l’art. 111, comma 8, Cost., affida alla Corte di cassazione, il diniego di giustizia   è sindacabile solo in astratto, cioè in relazione all’estraneità del deciso rispetto alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, e mai in concreto» (Cass. sez. un., ord., n. 30112 del 26/10/2021); «In tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice speciale, ex art. 111, comma 8, Cost., affinché sia configurabile il rifiuto o il diniego di giurisdizione occorre che una domanda sia stata proposta e che il giudice adito, nel declinare la giurisdizione, ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia in astratto priva di tutela, ovvero riconosca la giurisdizione del giudice ordinario o di altro speciale, non essendo invece prospettabile tale vizio quando il ricorrente si lamenti di giudizi che avrebbero dovuto essere promossi innanzi al giudice ordinario ma non lo sono stati, o che avrebbero potuto anche essere incardinati di fronte allo stesso giudice speciale,  ma in epoca precedente rispetto alla introduzione di quello definito con la sentenza impugnata» (Cass., sez. un., ord., n. 37552 del 30/11/2021).

1.2. In particolare, osserva il Collegio che il ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., e degli artt. 362 cod. proc. civ. e 110 cod. proc. amm., è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione e,   secondo la costante giurisprudenza di queste Sezioni Unite, è, quindi, esperibile solo nel caso in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale, esercitando la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negando la giurisdizione sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale, ovvero qualora abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione (pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale; o negandola o compiendo un sindacato di merito, pur trattandosi di materia attribuita alla propria giurisdizione  limitatamente al solo controllo di legittimità degli atti amministrativi, e invadendo arbitrariamente il campo dell’attività riservato alla P.A. (v., ex plurimis, Cass., sez. un., 23 luglio 2015, n. 15476; Cass., sez. un., 29 dicembre 2017, n. 31226; Cass., sez. un., 30/03/2018, n. 8047).

Come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di precisare (Cass., sez. un., 13 maggio 2020, n. 8848; Cass., sez. un., 19 aprile 2021, n. 10245; Cass., sez. un., 26 ottobre 2021, n. 30112), in particolare, anche il cd. l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al    contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale) o di difetto   relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga   ad altri giudici); e poiché la nozione di eccesso di potere  giurisdizionale non ammette letture estensive, neanche limitatamente ai casi di sentenze abnormi, anomale ovvero caratterizzate da uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento, il relativo vizio non è configurabile in relazione a denunciate violazioni di legge sostanziale o processuale riguardanti il modo di esercizio della giurisdizione speciale (Cass., sez. un., 4 febbraio 2021, n. 2605).

Se è pur vero che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione  giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza  compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame, tuttavia, non per questo ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111, ottavo comma, Cost. e dagli artt. 362 cod. proc. civ. e 110 cod. proc. amm.. Infatti, ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire (Cass., sez. un., 14 settembre 2020, n. 19085).

É stato ribadito (Cass., sez. un., 19 dicembre 2018, n. 32773;   Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta     eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., in quanto l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione. Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di giurisdizione inteso in senso dinamico – ha rimarcato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali (v., in particolare, Cass., sez. un., ord., 26 ottobre 2021, n. 30112, cit.).

1.3. Alla luce di quanto sopra evidenziato, queste Sezioni Unite ritengono che nella specie non sia configurabile un rifiuto o un diniego di giurisdizione.

In materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice speciale – come già sottolineato – integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione, contraria alla regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda, che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice; mentre, ove tale affermazione sia accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorre un’ipotesi di diniego della propria giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione   soggettiva azionata (Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).

Come già sopra affermato, nella sentenza impugnata non è riscontrabile il denunciato vizio di rifiuto o diniego di giurisdizione.

Ed infatti, il Consiglio di Stato ha deciso come appresso indicato, con riferimento alla questione rilevante in questa sede (v. ricorso p. 5 o 9), relativa alla seconda censura proposta dal Comune con il secondo motivo di appello, con la quale è stata criticata la sentenza di primo grado nella parte in cui il TAR ha respinto (sia pure implicitamente e non con apposita statuizione contenuta nel dispositivo) la domanda riconvenzionale per ottenere il riconoscimento del credito rivendicato dal Comune, compreso quello maturato per gli anni 2011 e 2012, sostenendo l’appellante al riguardo che, trattandosi di domanda autonoma e non di eccezione riconvenzionale tendente unicamente alla reiezione della domanda di parte ricorrente, promossa in un giudizio rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, avrebbe dovuto essere decisa nel merito, nonostante la rinuncia della ricorrente Ecolife S.r.l. alla domanda concernente il compenso revisionale per gli anni 2011 e 2012.

In particolare, sulla base di articolata motivazione, che si snoda da p. 15 a p. 19 della sentenza impugnata in questa sede, il Consiglio di Stato ha ribadito che: «La materia oggetto della presente controversia è devoluta alla giurisdizione esclusiva dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2, Cod. proc. amm. nella parte in cui prevede le controversie “relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui all’art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163», ha precisato che «quando l’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2 Cod. proc. amm., riserva al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva sul provvedimento applicativo della clausola di revisione dei prezzi, individua appunto in tale provvedimento applicativo il “titolo” dedotto in giudizio. Il thema decidendum perciò è delimitato dal contenuto del provvedimento applicativo impugnato e tale rimane anche a seguito della proposizione del ricorso incidentale ex art. 42, comma 5, Cod. proc.amm.

In sintesi, oggetto del processo amministrativo in materia di revisione del prezzo di appalto non è il rapporto contrattuale nella sua interezza, tanto da potersi ritenere che il “titolo” dedotto in giudizio  sia il contratto stipulato tra le parti; oggetto del processo è quella “parte” di rapporto contrattuale che attiene alla clausola di revisione del prezzo ed alla sua applicazione così come risultante dal “relativo provvedimento applicativo” (arg. ex art. 133, comma 1, lett. e, n. 2, Cod. proc. amm.) impugnato dal ricorrente principale.

Giova precisare che non si intende affatto affermare che l’amministrazione non possa basare la propria domanda riconvenzionale su provvedimenti amministrativi diversi da quello impugnato dall’appaltatore, ma soltanto che la cognizione di tali provvedimenti amministrativi in tanto è ammissibile, anche in via riconvenzionale, in quanto essi abbiano ad oggetto quella stessa “porzione” del rapporto contrattuale che già fa parte del thema decidendum. Così, nel caso di specie, si è estesa la cognizione alla delibera n. 366/2010 nei limiti della revisione del prezzo dell’appalto  per l’annualità 2010, oggetto di giudizio, sia pure al fine di escludere      che essa riguardasse tale annualità».

Il Consiglio di Stato ha, quindi, affermato che: «In conclusione, non è ammissibile, perché non dipende dal “titolo” già dedotto in giudizio, la domanda riconvenzionale che lo stesso Comune di Canosa di Puglia definisce “autonoma”, nel senso che ha ad oggetto partite di dare-avere tra le parti per compenso revisionale riferite ad un periodo   di servizio (anni 2011-2012) diverso da quello oggetto del ricorso principale (anno 2010).

7.2.6. La riprova dell’inammissibilità della domanda riconvenzionale che presupponga un accertamento di un asserito  credito dell’amministrazione (da tenere quindi distinta da un’eventuale eccezione di compensazione proponibile in fase esecutiva, relativamente a crediti e contro-crediti certi, liquidi ed    esigibili) si rinviene nella considerazione che il credito del cui accertamento si tratta sarebbe sorto in capo all’amministrazione per effetto di un proprio provvedimento amministrativo, riguardante la liquidazione del compenso revisionale per gli anni 2011-2012.

Si tratterebbe cioè di un credito per un indebito pagamento disposto con un provvedimento amministrativo.

…, il giudice amministrativo non può accertare l’indebito senza la preventiva rimozione del provvedimento amministrativo che liquida il dovuto e ne dispone il pagamento.

La rimozione del provvedimento amministrativo è tuttavia possibile soltanto previa impugnazione da parte del privato destinatario ovvero previo esercizio dei poteri di autotutela della p.a., non essendo consentito a quest’ultima di agire per via giudiziale contra factum proprium.

Poiché la determinazione del 29 dicembre 2010, n. 366 per la parte concernente il compenso revisionale per gli anni 2011 e 2012 non è oggetto di impugnazione né è stata revocata o annullata dall’amministrazione comunale, è corretta la sentenza di primo grado che, sia pure implicitamente, ha concluso per l’inammissibilità della  corrispondente domanda riconvenzionale del Comune di Canosa di Puglia.».

A fronte di tale motivazione, il ricorrente formula le sue censure sostenendo quanto riportato all’inizio del presente paragrafo.

Si evidenzia che le doglianze proposte, articolate nei termini sopra ricordati, non investono, in sostanza, questioni attinenti a motivi di giurisdizione né, in particolare, evidenziano effettivamente, al di là delle espressioni utilizzate, che il Consiglio di Stato abbia rifiutato di esercitare la sua giurisdizione o che la decisione si sia risolta in un sostanziale diniego del suo esercizio (Cass., sez. un., 6 giugno 2017, n. 13976/17; Cass., sez. un., ord., 26 ottobre 2021, n. 30112; Cass., sez. un., ord., 30 novembre 2021, n. 37552; v. anche Cass., sez.  un., 17 dicembre 2018, n. 32623, non massimata sul punto), ma lamentano, in realtà, errores in iudicando o in procedendo, esclusi, tuttavia, dal sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del     Consiglio di Stato (Cass., sez. un., 11 novembre 2019, n. 29082; Cass., sez. un., ord., 15/10/2020, n. 22375).

2. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

3. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza tra le parti

4. Quanto alla domanda proposta dalla controricorrente e volta alla condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 96, terzo coma, c.p.c., ritiene il Collegio che non ricorrono, nella specie, i presupposti per il suo accoglimento.

5. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso      art. 13 (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida, in favore della controricorrente, in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli  esborsi liquidati in euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 24 gennaio 2023.