DANNO NON PATRIMONIALE PER ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE SANITARIA: IL RINVIO AL CRITERIO TABELLARE PREVISTO DALLA LEGGE BALDUZZI È DIRETTAMENTE APPLICABILE ANCHE AI GIUDIZI PENDENTI

[vc_row css=”.vc_custom_1595493734065{margin-bottom: 30px !important;}”][vc_column][edumax_title title=”DANNO NON PATRIMONIALE PER ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE SANITARIA: IL RINVIO AL CRITERIO TABELLARE PREVISTO DALLA LEGGE BALDUZZI È DIRETTAMENTE APPLICABILE ANCHE AI GIUDIZI PENDENTI” subtitle=”Cassazione Civile Sez. III, 11 novembre 2019, n. 28990 – Pres. Travaglino, Est. Olivieri”][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile (negando od impedendo il risarcimento di conseguenze-dannose già realizzatisi), l’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 settembre 2012 n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012 n. 189 (cd. legge Balduzzi che dispone l’applicazione, nelle controversie concernenti la responsabilità – contrattuale od extracontrattuale per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del CAD – criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche dalla successiva legge 8.3.2017 n. 24 cd. Gelli -Bianco ), trova diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione, in pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum”. Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa, ed il danno si sia prodotto, anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’entrata in vigore del predetto decreto legge; né può configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario. Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al Giudice di merito, si colloca su un piano distinto e comunque al di fuori della fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha, infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla condotta illecita, né ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie.

  

RAGIONI DELLA DECISIONE

A. Questioni preliminari.

I genitori della minore hanno introdotto il giudizio di merito richiedendo anche il risarcimento del danno non patrimoniale “jure proprio” derivante dalla omessa preventiva informazione sui rischi di complicanze cui poteva dare luogo l’intervento chirurgico, nonchè dalla sofferenza dovuta ai plurimi interventi cui era stata sottoposta la minore ed alla incidenza sulla vita familiare delle menomazioni permanenti subite dalla figlia. Tale domanda è stata accolta dalla Corte distrettuale con statuizione che non è stata investita dai motivi del ricorso per cassazione nè da impugnazione incidentale ed è, dunque, passata in giudicato.

Consegue la declaratoria di inammissibilità, per difetto di legittimazione attiva, della impugnazione proposta da T.R. ed To.El. anche “in proprio”, oltre che nella qualità di genitori della minore TA.EL..

B. Esame dei motivi di ricorso.

Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., artt. 1218,1223,1226,2043 e 2059 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

p..1 Sostengono i ricorrenti che la Corte distrettuale ha travisato il motivo di gravame con il quale non si intendeva contestare l’accertamento compiuto dai CC.TT.UU., sibbene valorizzarlo – ai fini liquidatori – laddove i consulenti di ufficio avevano accertato che la minore era già affetta da una rara sindrome genetica (Bartter) che risultava sufficientemente stabilizzata e che comportava una preesistente invalidità biologica permanente valutata intorno al 10%, menomazione sulla quale avevano inciso peggiorativamente gli esiti negativi dell’intervento chirurgico eseguito in base alla errata ed incompleta diagnosi, che avevano determinato ulteriori postumi permanenti valutati nella misura del 6-7%.

1.2 Preliminarmente va disattesa la eccezione di giudicato interno formulata dalla parte controricorrente in reazione alla asserita mancata impugnazione in grado di appello della statuizione sulla liquidazione del danno biologico della minore.

Dal ricorso, infatti, emerge come con l’atto di appello i genitori della minore avessero tra l’altro contestato che l’ulteriore danno derivato dalla esecuzione dell’intervento chirurgico praticato dal Dott. M. fosse stato considerato in modo avulso dalla preesistente patologia genetica di Bartter, dovendosi piuttosto ritenere, anche sulla scorta della relazione dei CC.TT.UU., che si fosse in presenza di un “maggior danno o danno differenziale giunto ad aggravare un quadro clinico di per sè complesso ed invalidante” (cfr. trascrizione del motivo di appello riportata alla pag. 17-18 del ricorso).

1.3 Tanto premesso, in caso di preesistenze invalidanti della condizione di salute di una persona fisica, occorre fare chiarezza sulle nozioni di “concausa di lesioni” e di “concausa di menomazioni”.

La prima nozione (concausa di lesioni) attiene al ciclo della causalità materiale ed è regolata dall’art. 41 c.p. e dall’art. 1227 c.c., comma 1, venendo in questione il concorso della causa naturale (lo stato di salute pregresso) con la causa umana (la condotta professionale medica) nella determinazione dell’evento lesivo della salute in un soggetto già parzialmente compromesso. La questione va risolta in base al principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui, in materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno (cd. “thin skull rule”), l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo “con-causale” di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi ad un ragionamento probatorio “semplificato”, tale da condurre “ipso facto” ad un frazionamento delle causalità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del “quantum” risarcitorio (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del

21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 8995 del 06/05/2015), dovendo quindi trovare applicazione sul piano della causalità materiale il principio “all or nothing”, sia pure temperato nell’ambito del diritto civile, dalla regola logica fondata sull’esame delle circostanze concrete del “più probabile che non”.

La seconda nozione (concausa di menomazioni) attiene al piano della cd. causalità giuridica disciplinato dall’art. 1223 c.c. ossia della relazione che lega l’evento lesivo (lesione della salute) alle conseguenze pregiudizievoli (postumi invalidanti) secondo un nesso di regolarità eziologica che riconduce al primo tanto gli effetti dannosi diretti quanto quelli indiretti ove oggettivamente prevedibili quali effetti che derivano o che deriveranno – secondo l'”id quod plerumque accidit” – dalla lesione personale.

1.4 Al riguardo occorre osservare che, in caso di lesione del diritto alla salute, le distinte menomazioni della capacità biologica del soggetto possono incidere in modo diverso sulla complessiva condizione di salute residua della persona fisica, secondo differenti ipotesi fenomenologiche indagate dalla medicina-legale, che hanno trovato esplicitazione nelle linee guida di valutazione del danno alla persona elaborate dalle associazioni professionali, tra cui la Società di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SMILA), nonchè diretto riscontro nella disciplina normativa del settore delle assicurazioni sociali obbligatorie (D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 78, comma 4, art. 79, art. 80, comma 3 e artt. 81 e 82; D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13, commi 5 e 6) e della liquidazione del danno biologico, originariamente con riferimento alla sola materia di sinistri stradali (D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139, in relazione al D.M. Salute 3 luglio 2003 adottato in attuazione della L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, comma 5, che nell’All. 1, intitolato “criteri applicativi”, fa espresso riferimento al “danno composito” ed ai “danni plurimi monocroni”) e, successivamente, anche al danno biologico subito dalla vittima di atti di terrorismo (D.Lgs. 30 ottobre 2009, n. 181, art. 4, comma 1, lett. b) e quindi, più recentemente, ai danni conseguenti a responsabilità professionale medica (D.L. n. 158, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012 – cd. Legge Balduzzi -; L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 7, commi 4 e 5, – cd. Legge Bianco Gelli -).

La condotta lesiva della integrità psicofisica può produrre, infatti, un’unica menomazione (una sola alterazione anatomica od una sola minorazione funzionale) o può invece determinare un insulto comprensivo di plurime alterazioni anatomiche e minorazioni funzionali in quanto interessanti più organi od apparati.

1.5 Le menomazioni plurime – prodotte dalla medesima lesione o da molteplici lesioni arrecate contestualmente od in tempi diversi – possono distinguersi:

a) in relazione al criterio cronologico del fatto generatore: in menomazioni “monocrone o policrone” (secondo che il medesimo attentato alla integrità psicofisica del soggetto porti ad emersione tutte le plurime conseguenze dannose, simultaneamente o comunque progressivamente secondo una sequenza di naturale aggravamento, od invece, gli attentati alla integrità psicofisica del soggetto siano stati realizzati con condotte lesive diacroniche sicchè la nuova menomazione si innesti su uno stato patologico pregresso del soggetto e cioè su postumi invalidanti preesistenti).

b) in relazione al tipo di disfunzionalità prodotto: in menomazioni “concorrenti o coesistenti” (secondo che le menomazioni colpiscano tutte il medesimo apparato od organo, ossia concernano più arti od organi sinergici od aventi comunque affinità funzionale, ovvero – invece – interessino differenti distretti anatomici o funzioni organiche, ossia più arti o più organi non affini o sinergici: le menomazioni “concorrenti” possono comportare, di regola, una variazione incrementativa dell’effetto invalidante e dunque del grado di inabilità della menomazione preesistente; le menomazioni “coesistenti” conservano l’effetto invalidante dalle stesse prodotto, che rimane, di regola e salvo specificità del caso concreto, immutato, in quanto del tutto indipendente rispetto alla valutazione della capacità pregressa del soggetto rispetto alla nuova menomazione. Appare, inoltre, opportuno chiarire come il fenomeno delle menomazioni “concorrenti” debba tenersi separato da quello dell'”aggravamento” della medesima menomazione: il primo configurando un rapporto tra distinti postumi – ossia tra eventi lesivi policroni che presuppongono il loro consolidamento, il che è a dire la definitiva stabilizzazione delle condizioni invalidanti, derivate da ciascuna lesione, che segue alla guarigione dal periodo di malattia, sicchè la ulteriore invalidità si “aggiunge” a quella preesistente -; il secondo consistendo, invece, nella naturale evoluzione degli effetti invalidanti prodotti dalla medesima lesione, generalmente identificandosi nello sviluppo delle cd. malattie lungolatenti o nella emersione di effetti patologici inizialmente sconosciuti. L’aggravamento della malattia ha assunto rilievo in giurisprudenza soprattutto nell’ambito della tutela infortunistica del lavoro, al fine della delimitazione degli ambiti applicativi delle disposizioni di cui agli artt. 83 e 137 – aumento o diminuzione della rendita, in caso la inabilità originaria subisca aggravamenti o miglioramenti nel corso del tempo – ed agli artt. 80, 131 e 132 – riformulazione integrale della rendita in caso di “nuovo” infortunio o “nuova” malattia, seppure originato dal medesimo rischio patogeno od avente la stessa natura della prima – del TU approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124: cfr. Corte Cost. sentenza del 12.2.2010, n. 46).

1.6 La esigenza teorica di provvedere ad una diversa valutazione del danno biologico in seguito a plurime menomazioni nasce dagli stessi criteri di redazione dei “baremes” medico-legali attraverso i quali ad ogni compromissione anatomo-funzionale, specificamente individuata viene assegnato un determinato grado di invalidità rispetto allo standard fatto pari a 100 della piena integrità dell’apparato od organo preso in considerazione, criteri che prescindono, quindi, dal riferimento alla globale ed effettiva situazione personale del soggetto il quale, ad esempio, potrebbe riportare plurime contestuali menomazioni, che tuttavia non potrebbero per ciò stesso essere valutate attraverso una semplice sommatoria dei gradi di invalidità tabellari determinati in relazione a ciascuna di esse, atteso che l’applicazione del mero criterio matematico potrebbe esitare finanche nell’assurdo riconoscimento di una invalidità complessiva addirittura superiore al 100%, che risulterebbe logicamente incompatibile rispetto ad una persona che, essendo tuttora in vita, esprime ancora – per quanto minimo possa essere – un determinato grado di capacità biologica.

Del pari nel caso di menomazioni “preesistenti”, il mero cumulo del nuovo grado di invalidità con quello corrispondente alla precedente minore capacità biologica del soggetto, oltre a dare luogo all’inconveniente sopra descritto, non appare idoneo ad esprimere – in maggiore evidenza nel caso di lesioni concorrenti – l’effettiva condizione di salute globale residua della persona (è ormai classico l’esempio per cui se il grado di invalidità per la perdita di un occhio “in soggetto sano” è valutata in un certo grado tabellare, la perdita dell’unico occhio residuo “in soggetto monocolo” non potrà essere valutata allo stesso modo, in quanto in quest’ultimo caso è stata definitivamente compromessa la funzione della vista, e dunque il pregiudizio alla capacità biologica complessiva del soggetto è certamente maggiore).

Evidente risulta, pertanto, la diversa incidenza che può assumere, ai fini dell’accertamento della complessiva validità biologica di un soggetto, la menomazione che si aggiunga ad altra già preesistente, a seconda che concorra alla medesima disfunzionalità o invece ne determini una nuova non interferente con il distretto anatomo-funzionale già pregiudicato.

Deve essere, dunque, accolta la indicazione elaborata in medicina legale e recepita dal Legislatore secondo cui, in caso di plurime menomazioni, è certamente legittimo assumere come riferimento i gradi tabellari concernenti le singole compromissioni, salva, in ogni caso, una valutazione globale complessiva della residua capacità biologica del soggetto leso, volta ad individuare la effettiva incidenza dei molteplici postumi, concorrenti o coesistenti, sulla integrità psico-fisica del soggetto danneggiato.

A tale compito deve accingersi confrontando la situazione antecedente e quella successiva, bene potendo emergere la totale irrilevanza della pregressa invalidità sul distinto pregiudizio alla salute arrecato dalla successiva lesione della integrità psicofisica, salva, va ripetuto, la specificità del caso concreto (la pregressa perdita di due dita di un arto superiore, di regola, non interferisce in alcun modo con l’indebolimento dell’organo visivo cagionato dalla lesione successiva: ma la stessa perdita inciderà diversamente nell’ipotesi di soggetto già totalmente non vedente, che utilizzava quella parte dell’arto superiore a fini non soltanto tattili). In tal caso, allora, il medico-legale, al fine di verificare il grado di invalidità derivato dalla successiva menomazione, dovrà avere come parametro di riferimento la piena capacità biologica anteriore del soggetto, senza tenere conto dei postumi preesistenti non interferenti.

A diversa conclusione si dovrà invece pervenire laddove il postumo preesistente, pur non potendo considerarsi “concorrente” (in quanto non afferente il medesimo distretto anatomo-funzionale), venga tuttavia in qualche modo ad incidere sulla complessiva validità biologica del soggetto, rendendogli più difficoltoso l'”agere” quotidiano o le relazioni sociali (la pregressa invalidità all’arto inferiore che imponga al soggetto, per deambulare, l’appoggio con bastone, pur attenendo a complesso anatonomo-funzionale distinto, assume indiscussa incidenza peggiorativa sulle condizioni biologiche del soggetto laddove questi, a causa di lesioni policrone, venga successivamente a perdere anche uno degli arti superiori utilizzato per l’ausilio alla deambulazione).

1.7 L’accertamento del grado di invalidità biologica è compiuto dall’ausiliario medico-legale, e dunque a questi spetta rispondere, alla stregua delle pertinenti “leges artis”, al quesito posto dal Giudice, verificando quale fosse la capacità del soggetto “ante ac post eventum”; in sostanza, egli deve accertare la capacità biologica per così dire “differenziale” ponendo a confronto lo stato di validità anteriore e quello successivo, venendo a pesare in modo diverso il grado percentuale indicato nel bareme secondo che lo stato patologico pregresso:

– risulti del tutto indifferente rispetto alla “nuova” disfunzionalità residuata dall’evento lesivo (ipotesi normalmente riscontrabile nel caso di menomazioni coesistenti);

– venga a peggiorare la situazione già compromessa incrementando la disfunzionalità preesistente (ipotesi che, al massimo grado, si riscontra nelle menomazioni concorrenti).

Nel primo caso il consulente tecnico di ufficio potrà valutare autonomamente gli effetti invalidanti permanenti della nuova lesione, come se venissero riferiti ad un soggetto sano.

Nel secondo caso la maggiore invalidità permanente derivata dal nuovo evento lesivo risulterà effetto dello stato preesistente, in quanto l’indebolimento di un organo già compromesso, rispetto al medesimo indebolimento di un organo sano, non si traduce in un eguale diminuzione di validità, ma nel soggetto affetto dalla preesistenza quell’indebolimento corrisponderà ad un grado (ulteriore) di invalidità biologica maggiore.

Accertato dall’ausiliario il grado di invalidità in relazione ad un giudizio espresso in prospettiva globale alla concreta ed effettiva condizione biologica del soggetto, spetterà esclusivamente al Giudice, sul piano della liquidazione del danno, individuare se ed in che modo il differenziale esprimente la compromissione biologica debba essere integralmente o solo parzialmente ricondotto alle conseguenze dirette ed immediate dell’evento lesivo, ex art. 1223 c.c., individuando il criterio da utilizzare per la liquidazione equitativa del danno biologico nel caso in cui, come nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio, la (nuova) conseguenza dannosa arrecata dalla condotta illecita (indipendentemente dalla natura contrattuale od extracontrattuale) colpisca una persona che presentava uno stato di validità biologica già parzialmente compromesso. Orbene, fermo il distinto accertamento del nesso di causalità materiale tra condotta e (nuovo) evento lesivo, da condurre alla stregua dei principi normativi rinvenibili negli artt. 40 e 41 c.p. e nell’art. 1227 c.c., comma 1, con la conseguenza che la lesione del bene salute, se riconducibile anche – alla condotta del debitore/autore dell’illecito, non può che essere imputata integralmente a quest’ultimo, non spiegando alcun rilievo sulla predetta verifica eziologica la preesistente – concorrente – causa naturale (costituita dallo stato patologico pregresso) quando anche abbia contribuito alla progressiva evoluzione peggiorativa delle condizioni di salute del soggetto (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 1135 del 19/01/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011), osserva il Collegio che non possono, tuttavia, essere attribuite al professionista ed alla struttura sanitaria anche quelle conseguenze dannose non ricollegabili direttamente all’evento lesivo, secondo il nesso di causalità giuridica ex art. 1223 c.c., in quanto risultino derivate – invece – dal pregresso stato invalidante del soggetto danneggiato, non potendo affermarsi la responsabilità dell’agente per quei danni che non dipendano dall’evento lesivo riconducibile alla sua condotta – che non ne costituisce un antecedente causale – e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, nè per quelli preesistenti, come la pregressa situazione patologica del danneggiato che, a sua volta, non sia eziologicamente riconducibile a negligenza, imprudenza ed imperizia del sanitario (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 13400 del 08/06/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 12/06/2012; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27524 del 20/11/2017; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 10812 del 18/04/2019), essendo opportuno, pertanto, estendere, da parte del Giudice di merito, la indagine demandata all’ausiliario anche alle eventuali modalità evolutive in senso peggiorativo della menomazione preesistente onde verificare quale sarebbe stata la ineluttabile condizione di invalidità del soggetto in assenza del successivo atto lesivo (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 24204 del 13/11/2014, in un particolare caso in cui, nella determinazione del quantum, si era tenuto conto dell’effetto anticipatore immediato della invalidità psichica che, altrimenti sarebbe comunque sopravvenuta – se pure in un tempo più lungo – a causa della pregressa malattia di Alzheimer di cui era affetto il danneggiato; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27524 del 20/11/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 20836 del 21/08/2018, secondo cui, quando difetti la prova che la menomazione pregressa sarebbe evoluta determinando autonomamente conseguenze invalidanti, alcuna rilevanza può essere attribuita a tale preesistenza, ai fini della individuazione del danno risarcibile, diversamente venendo ad applicarsi l’intollerabile principio secondo cui persone che, per loro disgrazia – e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi -, siano più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto agli altri consociati caratterizzati da cosiddetta “normalità”).

1.8 La fase della “aestimatio”, di esclusiva pertinenza del giudice, segue pertanto alla esatta individuazione della modifica peggiorativa del grado di invalidità biologica, che rimane specularmente di esclusiva pertinenza della medicina legale, dovendo il Giudice di merito tradurre il differenziale di tale invalidità nell’equivalente monetario oggetto della obbligazione risarcitoria. Operazione che prescinde, quindi, da incrementi o diminuzioni del grado percentuale di invalidità permanente accertato dal consulente di ufficio, dovendo piuttosto essere eseguita confrontando i valori patrimoniali ricavati dalle Tabelle di liquidazione del danno biologico corrispondenti ai differenti stati di incapacità rilevati dal CTU prima e dopo l’evento lesivo – tenendo conto, come si è visto, della incidenza eventualmente svolta dalle menomazioni preesistenti – e dunque determinando in tal modo la entità patrimoniale del danno effettivamente gravante sul responsabile, operando, alla luce della specificità del caso concreto, aumenti o diminuzioni dell’importo risarcitorio su base equitativa (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25327 del 12/12/2016 che, nel caso di plurime liquidazioni parziali del danno determinate con criteri diversi – indennizzo corrisposto dall’assicuratore sociale in base alla normativa speciale; risarcimento del danno secondo i criteri propri della responsabilità civile -, evidenzia come il residuo importo risarcitorio debba essere liquidato non già sottraendo dal grado percentuale di invalidità permanente, individuato sulla base dei criteri civilistici, quello determinato dall’INAIL coi criteri dell’assicurazione sociale, bensì, dapprima, monetizzando l’uno e l’altro grado di invalidità, e successivamente sottraendo il valore capitale dell’indennizzo INAIL dal credito risarcitorio aquiliano).

p..2 Tanto premesso, il motivo di ricorso è inammissibile, non rispondendo ai requisiti minimi prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4).

I ricorrenti infatti intendono contestare l’affermazione della Corte d’appello secondo cui le conseguenze tipiche della sindrome di Bartter non potevano essere considerate ai fini dell’accertamento dei postumi derivati dall’intervento chirurgico non correttamente eseguito, trattandosi di sindrome genetica preesistente. Sostengono a tal fini i ricorrenti che in tal modo il Giudice di merito si sarebbe discostato dalle conclusioni raggiunte dai CC.TT.UU., nelle note integrative ed a chiarimenti, secondo cui “il danno permanente preesistente può essere inquadrato per via analogica intorno al 10% e quindi la valutazione del danno biologico permanente (6/7%) proposta nella c.t.u. è inquadrabile come percentuale ulteriormente peggiorativa (differenziale) della condizione di salute di base della bambina” (cfr. ricorso pag. 19).

Ma, affermando i ricorrenti di condividere le risultanze peritali, non è dato allora individuare se la critica debba intendersi allora rivolta, non all’accertamento del grado di invalidità, ma al valore patrimoniale riconosciuto dai Giudice di merito, ovvero al criterio con il quale è stato esercitato il potere di liquidazione equitativa del danno.

2.1 Se tale ultima fosse da ritenere la critica, appare evidente come lo stralcio delle note integrative predette non consenta alla Corte di acquisire contezza degli elementi essenziali per compiere la verifica della censura di legittimità e per constatare la correttezza o meno della “aestimatio” del danno biologico.

E’ infatti reso noto, dalla lettura del ricorso, soltanto che la Corte d’appello ha assunto a base della liquidazione il grado di invalidità permanente del 6%, indicato nella c.t.u. medico-legale, confermando sul punto la statuizione del Tribunale (che, secondo quanto emerge da fugace notazione a pag. 21 ricorso, avrebbe applicato i valori delle Tabelle di Milano), rimanendo invece del tutto ignoto il “modus procedendi” del Giudice di merito e dunque difettando proprio lo stesso oggetto della critica, non essendo specificato se l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale andrebbe rinvenuto nella individuazione del valore punto ricavato dalla Tabella in quanto determinato in base alla scala 0-6 anzichè in base alla scala 10-16 (ove 10 è l’invalidità della menomazione pregressa non imputabile alla condotta professionale del medico), od invece nella errata comparazione dei valori monetari equivalenti concernenti i predetti stati di invalidità biologica, od ancora, invece, la mancata considerazione di un “differente” grado di invalidità biologica rispetto a quelli indicati nella relazione peritale e nelle note a chiarimento depositate dai CC.TT.UU..

2.2 In quest’ultimo caso, che sembrerebbe adombrato nel ricorso mediante il richiamo ai precedenti di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6341 del 19/03/2014 ed id. Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 12/06/2012, la critica parrebbe diretta a contestare la omessa considerazione da parte del Giudice di merito del “danno cd. differenziale”, la cui nozione tuttavia – nel caso concreto – non trova chiara esplicazione nel motivo di ricorso atteso che:

nel primo precedente giurisprudenziale si ha riguardo all’esito infausto dell’intervento chirurgico che, in quanto eseguito non in conformità alle “leges artis”, ha prodotto un esito peggiorativo del precedente stato di salute (già compromesso), determinando conseguenze pregiudizievoli “maggiori” (cd. danno iatrogeno) di quelle altrimenti riconducibili – quali conseguenze in ogni caso non evitabili – dell’intervento correttamente eseguito: in questa ipotesi lo stato patologico pregresso, rendendo necessario detto intervento, è causa naturale efficiente delle conseguenze negative “normali”, cioè riferibili al rischio oggettivamente ineliminabile dell’intervento infausto, sicchè il relativo danno (ossia il peggioramento della capacità biologica determinato dalla complicanza inevitabile connessa alla esecuzione – regolare e corretta – dell’intervento, quale rischio noto ed oggettivamente ineliminabile) non può essere in alcun modo imputabile al professionista che ha diligentemente eseguito la prestazione (anche se questa non ha raggiunto il risultato di miglioramento o guarigione sperato); laddove invece detto intervento non sia stato conforme alle “leges artis” ed abbia prodotto, oltre alla prevista complicanza comunque ineliminabile, anche ulteriori pregiudizi (determinati da altre complicanze che non si sarebbero verificate ove l’intervento fosse stato correttamente eseguito), allora in tal caso: a) lo stato patologico pregresso (quale causa naturale preesistente) interviene a concorrere con la inesatta prestazione del professionista (quale causa umana successiva) nella produzione del danno consistito nella complessiva diminuzione della precedente capacità biologica del soggetto, non essendo quindi idoneo “ex se” ad escludere la riconducibilità eziologica dell’evento lesivo (anche) alla condotta del professionista (risultando in tal guisa verificato il nesso di causalità materiale tra concorso di causa naturale ed umana ed “eventuffi damni”); b) la diminuzione della capacità biologica – rispetto a quella accertata anteriormente all’intervento – non può essere imputata, tuttavia, integralmente al medico, dovendo provvedersi a distinguere, sul piano del nesso di causalità giuridica ex art. 1223 c.c., la invalidità correlata alla inevitabile complicanza derivata dalla necessità dell’intervento (che trova genesi nella causa naturale pregressa, ossia nella precedente condizione di salute) da quella invece correlata all’altrimenti evitabile “maggiore” pregiudizio determinato dalla inesatta prestazione, e dunque dovendosi accertare il pregiudizio biologico differenziale tra lo stato di salute che sarebbe esitato da intervento infausto correttamente eseguito e quello invece esitato in concreto a causa dell’errore professionale (danno differenziale iatrogeno) nel secondo precedente giurisprudenziale, invece, oltre alla affermazione del principio di equivalenza causale (supra lett. a), viene in questione, ai fini della identificazione delle conseguenze pregiudizievoli determinate dalla inesatta prestazione medica la ridotta validità biologica residuata al soggetto dopo l’intervento rispetto alla già compromessa capacità preesistente, e dunque in questo caso il “differenziale negativo” del grado percentuale di invalidità (danno differenziale) è dato dal mero confronto tra lo stato di capacità biologica del soggetto “ante ac post eventum damni”, dovendo aggiungersi che la verifica può complicarsi nel caso in cui i postumi derivati dall’intervento inesatto si sarebbero in tutto od in parte – anche se eventualmente in tempi diversi – egualmente prodotti a causa della naturale evoluzione della patologia pregressa: in quest’ultimo caso infatti – come si è visto – dovrà provvedersi a circoscrivere il “maggior” danno biologico risarcibile dovuto dal professionista soltanto a quello non dipendente dal naturale sviluppo della malattia (tenuto conto anche del decorso temporale della stessa e dei tempi di insorgenza dell’indefettibile peggioramento).

2.3 Orbene la critica rivolta con il motivo in esame alla asserita omessa considerazione del danno differenziale, indipendentemente dalla esatta ricognizione dello stesso, non appare calzante, atteso che i CC.TT.UU. hanno esplicitamente indicato il grado del 6% quale percentuale riferibile al danno biologico differenziale, e tale misura percentuale è stata adottata da entrambi i Giudici di merito nella liquidazione equitativa dell’importo da risarcire, di tal chè non è dato comprendere in che modo gli stessi siano incorsi nell’errore denunciato.

2.4 Qualora poi i ricorrenti avessero inteso invece contestare la determinazione del grado percentuale di invalidità riferito al danno “differenziale”, il motivo si palesa del tutto privo di specificità in quanto:

a) non viene fornito alcun argomento critico rispetto alle modalità attraverso le quali il collegio degli ausiliari è pervenuto all’accertamento di tale “maggiore” grado invalidità, non venendo neppure allegato se gli ausiliari abbiano proceduto ad accertare con valutazione sintetica il “differenziale” tra lo stato di salute pregresso e lo stato successivo, confrontando quindi i rispettivi gradi di invalidità biologica “complessiva”, od abbiano invece – in ipotesi – individuato semplicemente il grado di invalidità riferito ai postumi (“lieve incontinenza sfinteriale ano-rettale…..lieve difficoltà nella assunzione di cibi solidi in via di risoluzione”) isolatamente considerati, in base ai baremes utilizzati;

b) non vengono neppure specificate quali siano le menomazioni stabilizzatesi antecedentemente all’intervento chirurgico- riferibili alla sindrome genetica di Bartter che caratterizzavano la invalidità pregressa (stimata dai CC.TT.UU. nella misura del 10%);

c) non viene sviluppato alcun argomento critico in ordine alla qualificazione ed alla relazione in cui vengono a porsi i postumi, derivati dall’intervento chirurgico, con le menomazioni preesistenti: in particolare non viene neppure riferito se debba intendersi sussistente una relazione di concorrenza o di mera coesistenza. Questione come sopra indicato che dà luogo a soluzioni di indagine medico-legale e, conseguentemente, di liquidazione del danno per equivalente del tutto distinte: argomentazione critica tanto più necessaria, tenuto conto che, come è dato evincere dalla lettura della sentenza di primo grado, parzialmente trascritta nel controricorso (pag. 9-10) e nella memoria illustrativa (pag. 11-15) del resistente Istituto Giannina Gaslini, il Tribunale aveva espressamente esaminato la questione rilevando, da un lato, che i CC.TT.UU. avevano determinato la ulteriore invalidità, nella misura del grado del 6%, tenendo conto della preesistente sindrome di Bartter, e dall’altro, che pur in presenza di “pregresse ed autonome menomazioni che tecnicamente vengono definite inabilità non concorrenti” (dunque in presenza di preesistenti menomazioni “coesistenti”) non si era fatto ricorso al “metodo scalare” inteso a raccordare il grado di invalidità “differenziale” soltanto ad una frazione (corrispondente alla pregressa ridotta capacità biologica) e non all’intera capacità biologica del soggetto (fatta pari a 100 in relazione ad un soggetto sano, di pari età e genere).

Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell’art. 11 preleggi; D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3; D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139; artt. 1218,1223,1226,2043 e 2059 c.c..

p..3 I ricorrenti impugnano la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto immediatamente applicabile lo “jus superveniens” della disposizione del D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, conv. con mod. in L. n. 189 del 2012, che in materia di responsabilità sanitaria della struttura e del medico ha rinviato per la liquidazione del danno biologico ai parametri già previsti dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139 in tema di assicurazione della responsabilità civile da sinistro stradale.

Sostengono i ricorrenti, richiamando diversi precedenti dei Giudici di merito, che la norma sopravvenuta:

– è inapplicabile ai fatti pregressi, essendosi già perfezionata la fattispecie dannosa, e dunque ai giudizi in corso, in difetto di espressa previsione di retroattività (artt. 11 preleggi).

– è inapplicabile ai giudizi in corso, trattandosi di norma di diritto avente “natura sostanziale” e non processuale, e se applicata verrebbe a ledere il “legittimo affidamento in ordine alla regola equitativa uniforme” posta a base del risarcimento del danno biologico.

– è inapplicabile ai giudizi in corso, in quanto andrebbe ad incidere su “diritti quesiti”, tale dovendo essere considerato il credito risarcitorio di valore anche in relazione al criterio di liquidazione del “quantum”, in quanto già insorto nel patrimonio del danneggiato al momento del fatto dannoso.

3.1 Il motivo è infondato, in relazione alle molteplici questioni prospettate e che si passano di seguito in esame.

Al fine di una migliore comprensione della problematica occorre prendere le mosse dalle disposizioni innovative dei plessi normativi che fanno capo al D.L. 13 settembre 2012, n. 158 conv. con modificazione nella L. 8 novembre 2012, n. 189 recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute” (cd. legge Balduzzi) ed alla L. 8 marzo 2017, n. 24 recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” (cd. legge Gelli-Bianco).

Venendo a provvedere ad un riassetto generale della materia della responsabilità professionale medica il Legislatore è intervenuto ad introdurre una disciplina volta ad individuare un punto di equilibrio idoneo a garantire l’attuazione dei diversi interessi meritevoli di tutela coinvolti in tale materia e precipuamente l’interesse dei danneggiati ad ottenere un integrale ristoro del danno alla salute subito in relazione ad errori terapeutici imputabili al medico (art. 32 Cost., comma 1), e l’interesse della generalità degli utenti a ricevere – sia dalle strutture pubbliche che da quelle private – un adeguato trattamento sanitario, consentendo agli operatori del settore di continuare a praticare la professione – della quale beneficia e non può fare a meno la intera collettività – in funzione del perseguimento di elevati livelli di efficienza e risultati di cura delle persone, senza che l’impegno che la stessa richiede possa essere limitato o influenzato da considerazioni e comportamenti di “difesa preventiva” rispetto alla proliferazione che, negli ultimi tempi, si è verificata delle iniziative giudiziarie di risarcimento danni che, indipendentemente dalla fondatezza o meno, possono innescare – in considerazione del volume delle richieste risarcitorie – fenomeni di ritrazione dalla esecuzione di interventi terapeutici a maggior rischio di insuccesso, incidendo in modo gravemente negativo sulle modalità di erogazione del servizio sanitario.

A tal fine – per quanto interessa la presenta controversia – il D.L. n. 158 del 2012, con disposizione rimasta immodificata nella legge di conversione, ha ritenuto di utilizzare anche nel settore sanitario il criterio di liquidazione del danno “biologico” secondo il sistema tabellare già adottato nel settore dei sinistri cagionati dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, e definito nel D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, artt. 138 e 139 (Codice delle assicurazioni provate) che, come espressamente previsto dall’art. 138, comma 2, risponde “ai criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità” secondo i principi esplicitati nel medesimo comma 2, lett. da a) ad f).

La norma della legge “Balduzzi” è stata nuovamente riprodotta nella L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 7, comma 4, – Legge “Gelli Bianco” – con variazioni od integrazioni lessicali che non comportano significative modifiche sul piano prescrizionale (“4. Il danno (la legge Balduzzi specificava: “biologico”) conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria (la legge Balduzzi si riferiva alla: “attività dell’esercente della professione sanitaria”) è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”).

La trasposizione del criterio tabellare previsto dal C.A.P. al settore della responsabilità sanitaria trova fondamento nelle analoghe esigenze sottese alle controversie risarcitorie che interessano le due materie, esigenze evidenziate direttamente dal Legislatore nella stessa norma (“Al fine di garantire il diritto delle vittime dei sinistri a un pieno risarcimento del danno non patrimoniale effettivamente subito e di razionalizzare i costi gravanti sul sistema assicurativo e sui consumatori…”: art. 138, comma 1, CAP) e che debbono rinvenirsi nell’estensione del regime assicurativo obbligatorio alle strutture aziendali pubbliche e private ed ai professionisti sanitari, e nell’azione diretta attribuita al paziente danneggiato nei confronti della impresa assicurativa: esigenze la cui composizione in un equilibrato bilanciamento degli interessi in conflitto ha superato il vaglio della verifica di costituzionalità (Corte Cost. sentenza 16 ottobre 2014 n. 235 – con riferimento all’art. 139 CAP -).

Tanto premesso possono ora esaminarsi i diversi rilievi di illegittimità formulati dai ricorrenti in ordine alla immediata applicabilità anche ai rapporti in corso, ed ai giudizi pendenti in materia di responsabilità professionale medica, delle norme del D.L. n. 158 del 2012 conv. in L. n. 189 del 2012 che prevedono l’adozione del criterio tabellare nella liquidazione del danno non patrimoniale.

A- Difetto di retroattività espressa.

3.2 La mancanza di una disposizione della legge che ne preveda la retroattività non integra una critica pertinente alla inapplicabilità della norma ai giudizi pendenti, laddove si osservi come, nel caso di specie, non si verta in tema di successione di leggi che regolano difformemente il medesimo fenomeno, poichè la eventuale discrasia applicativa “quoad effecta” corre non tra diverse disposizioni di legge, bensì tra una (nuova) disposizione normativa ed una prassi giurisprudenziale finalizzata all’esercizio uniforme della discrezionalità nel giudizio di equità (come tale priva, ipso facto, di forza di legge).

Non appare pertanto dirimente il precedente di questa Corte Sez. 3, Sentenza n. 11048 del 13/05/2009, richiamato dai ricorrenti, secondo cui il D.M. Salute in data 3 luglio 2003 (“Tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica compresa tra 1 e 9 punti di invalidità”) emanato in attuazione alla L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 5, comma 5, in difetto di previsione legislativa di retroattività, non poteva trovare applicazione ai sinistri verificatisi anteriormente alla sua pubblicazione in GU in quanto introduceva “un regime speciale deroga al regime ordinario codificato dall’art. 2056 c.c.”.

La norma sopravvenuta del D.L. n. 158 del 2012 non disciplina, infatti, la fattispecie costituiva del diritto sostanziale, ma definisce – nella materia della responsabilità sanitaria – l’ambito delle modalità di esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno attribuito al Giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., ed è dunque direttamente applicabile nei limiti in cui tale potere sia ancora esercitabile nel corso del processo che non sia ancora definito. Al riguardo non appare corretta la lettura della sentenza in data 16 ottobre 2014 n. 235 della Corte costituzionale, effettuata dai ricorrenti, laddove pronunciando sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 139 Codice Assicurazioni Private – ha rilevato (in motivazione paragr. 3.1), sia pure ai soli fini di escludere la necessità di una restituzione degli atti al Giudice a quo, che le modifiche – costituenti jus superveniens – introdotte al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, predetto art., al comma 2 ed al comma 3 quater dall’art. 32 conv. con mod. in L. 24 marzo 2012, n. 27 (che vengono a condizionare il risarcimento del danno biologico permanente delle lesioni di lieve entità, all'”accertamento clinico-strumentale obiettivo” ed il risarcimento del danno biologico temporaneo al riscontro medico-legale visivo o strumentale della lesione), “in quanto non attinenti alla consistenza del diritto al risarcimento delle lesioni in questione, bensì solo al momento successivo del suo accertamento in concreto, si applicano, conseguentemente, ai giudizi in corso (ancorchè relativi a sinistri verificatasi in data antecedente alla loro entrata in vigore)”, dando in tal modo riscontro alla consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui il principio della irretroattività della legge (art. 11 preleggi) comporta che: a) la legge nuova non possa essere applicata, oltre ai rapporti giuridici esauritisi prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi nel fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali o future di esso; b) la legge nuova è, invece applicabile ai fatti, agli “status” e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1115 del 04/05/1966; id. Sez. U, Sentenza n. 2926 del 12/12/1967; id. Sez. L, Sentenza n. 2433 del 03/03/2000; id. Sez. 1, Sentenza n. 16620 del 03/07/2013; id. Sez. 3, Sentenza n. 16039 del 02/08/2016).

La pronuncia della Corte costituzionale n. 235/2014, per un verso, viene a riconoscere che la controversia in ordine al diritto al risarcimento del danno implica la esistenza di un rapporto pendente; per altro verso ritiene esterne all’area della “consistenza del diritto” (intangibile dalla legge successiva), le modalità tecniche di liquidazione del danno indicate nella norma sopravvenuta – modificativa dell’art. 139 CAP – pur interessando le stesse una “fase anteriore” alla quantificazione del danno, qual è quella dell’accertamento della stessa esistenza (“an”) della conseguenza dannosa risarcibile.

3.3 Tanto premesso, si osserva che la fattispecie dell’illecito civile – per quanto concerne la individuazione e la verifica giudiziale dell’evento lesivo produttivo del danno da cui insorge la responsabilità per l’obbligazione risarcitoria – non viene intaccata dalla norma sopravvenuta (legge cd. Balduzzi), che non pone limiti alla responsabilità civile e neppure viene a negare alla vittima – ovvero anche soltanto a limitare ingiustificatamente e sproporzionatamente – il diritto di credito al risarcimento del danno, ma interviene a definire, tra i molteplici criteri utilizzabili discrezionalmente dal Giudice per procedere alla “aestimatio” del danno – qualora non possa trovare attuazione il risarcimento in forma specifica -, quello ritenuto più idoneo a realizzare quel bilanciamento – perseguito dal Legislatore – tra plurimi interessi di rilevanza costituzionale (l’interesse del danneggiato ad ottenere il ristoro del danno patito; l’interesse generale e sociale al perseguimento di fini solidaristici in relazione al calmieramento dei premi della assicurazione obbligatoria estesa al settore sanitario), rispondendo la norma sopravvenuta – almeno in parte – alla medesima logica sottesa alla disciplina della liquidazione del danno biologico nel settore dell’assicurazione obbligatoria della RCA (venendo in questione, nella legge del 2012, anche la esigenza di non distogliere risorse indispensabili all’espletamento del servizio, contrastando i riflessi negativi sulla organizzazione ed erogazione del servizio sanitario pubblico, determinati dall’incremento esponenziale degli impegni finanziari delle Aziende sanitarie preoccupate ad immobilizzare sempre maggiori risorse per fare fronte alle possibili richieste risarcitorie a decremento dei necessari investimenti strutturali).

Il D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, viene, dunque, ad indicare al Giudice un criterio di liquidazione del danno che specifica – e non deroga – le norme del codice civile attributive del potere equitativo integrativo ex artt. 1226 e 2056 c.c., non ponendo, pertanto, alcuna problematica di successione di leggi nel tempo.

Il nuovo precetto normativo, introducendo un sistema liquidatorio, quello tabellare, già invalso da tempo negli uffici giudiziari e ritenuto da questa Corte di legittimità coerente con i principi cui deve informarsi la valutazione equitativa del “danno biologico” compiuta dal Giudice (valutazione che, secondo la interpretazione dei predetti artt. 1226 e 2056 c.c. fornita da questa Corte, deve corrispondere alla duplice esigenza di garantire “non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da differenti Uffici giudiziari”: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011), non viene ad incidere neppure su quegli elementi valutativi – grado di invalidità, aspettativa di vita, progressione geometrica del valore punto in relazione al grado di invalidità e riduzione proporzionale dell’incremento del valore danno in relazione all’aumento della età – ritenuti determinanti ai fini dell’accertamento della “entità” del danno biologico, lasciando intatto anche il criterio di rivedibilità del “valore-punto” secondo periodiche rilevazioni statistiche della casistica giudiziaria. Ed è appena il caso di osservare come tale criterio di valutazione del “quantum” non individua un (ulteriore) elemento costitutivo della fattispecie normativa della responsabilità civile, non integra cioè un fatto-storico od un elemento normativo presupposti dell’affermazione della imputazione del danno, ma rappresenta soltanto la espressione della misura monetaria della perdita di validità biologica ritenuta più adeguata a garantire il ristoro dell’effettivo danno patito, rispetto ad altri criteri affidati alla cd. discrezionalità pura cui il Giudice avrebbe potuto ricorrere al momento di procedere alla “aestimatio”: coerentemente, infatti, questa Corte ha statuito come, in tema di risarcimento danni, la circostanza che l’attore, nel domandare il ristoro del danno patito, dopo aver quantificato nell’atto di citazione la propria pretesa, all’udienza di precisazione delle conclusioni, domandi la condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore, al fine di tenere conto dei “nuovi criteri standard” di risarcimento (c.d. “tabelle”) adottati dal tribunale al momento della decisione (“nuovi” in quanto debbono essere mutati gli essenziali “parametri indicatori” assunti a base della determinazione del valore-punto, e non in quanto sia intervenuta una mera variazione quantitativa del valore-punto conseguente ai rilevamenti statistici periodici), non costituisce mutamento inammissibile della domanda, sempre che attraverso tale mutamento non si introducano nel giudizio fatti nuovi o nuovi temi di indagine (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 17977 del 24/08/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 1083 del 18/01/2011); ed ancora che, ferma l’eventuale formazione del giudicato interno sul “quantum”, quando, all’esito del giudizio di primo grado, l’ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo il sistema “tabellare”, la sopravvenuta variazione – nelle more del giudizio di appello – delle tabelle utilizzate, legittima il soggetto danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano l’applicazione di differenti criteri di liquidazione, atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c. (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 25485 del 13/12/2016; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 22265 del 13/09/2018; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 24155 del 04/10/2018).

B- Perfezionamento della fattispecie di diritto sostanziale (diritto quesito).

3.4 Assumono i ricorrenti che il principio di irretroattività delle norme di legge ex art. 11 preleggi impedirebbe l’applicazione della sopravvenuta norma “tabellare” della legge cd. Balduzzi, in quanto in tal modo si andrebbe ad incidere sulla fattispecie dell’illecito civile già perfezionatasi al momento della condotta lesiva e della conseguente insorgenza della responsabilità civile e del correlativo dritto di credito.

3.5 L’argomento non appare condivisibile, in quanto il criterio di liquidazione equitativa del danno ex artt. 1226 e 2056 c.c. (che soccorre quando l’ammontare del danno non è predeterminato convenzionalmente o legalmente, ed appare ontologicamente diverso dal diritto alla liquidazione del danno) non è elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria scrutinata nella dimensione sostanziale dell’illecito civile.

Il diritto al risarcimento del danno ha per oggetto un credito di valore che richiede di essere determinato nel suo ammontare attraverso l’attività di liquidazione volta a trasporre in valuta – ossia in una espressione monetaria – quello che viene stimato essere il valore non patrimoniale del bene-salute leso. Ne segue che il valore del credito, che entra a far parte del patrimonio del danneggiato, non è predeterminato nel suo ammontare, occorrendo necessariamente fare ricorso al potere di equità integrativa del Giudice. E’ ben vero, come è stato già rilevato, che la esigenza di uniformità di trattamento di situazioni analoghe e di certezza del diritto viene assicurato tramite l’utilizzo di una medesima Tabella di liquidazione del danno biologico che deve avere applicazione diffusa sull’intero territorio nazionale. Ma a tale principio non segue anche la definitiva immutabilità di tale Tabella e la cristallizzazione dei valori tabellari al momento della introduzione della domanda, essendo, invece, tenuto il Giudice di merito a fare applicazione dei valori delle Tabelle di più recente edizione, in quanto maggiormente idonee ad esprimere l’adeguatezza della conversione patrimoniale del danno da invalidità psicofisica subito dalla persona.

3.6 Al proposito occorre considerare che altro è il perfezionamento della fattispecie sostanziale dell’illecito civile (situazione giuridica protetta – condotta lesiva della stessa – esito dannoso) che si esaurisce con la produzione dell’effetto giuridico che fa insorgere in capo all’autore dell’illecito la responsabilità per la obbligazione risarcitoria, altro è invece l’accertamento dell’equivalente monetario della conseguenza dannosa che ha esaurito il perfezionamento della fattispecie illecita.

Non pare dubbio che il principio di irretroattività della legge impedisce all’intervento del Legislatore di andare ad incidere su effetti giuridici già interamente prodottisi, in quanto dalla legge ricollegati a determinati fatti assunti ad elementi della fattispecie- che, una volta venuti ad esistenza nella realtà, non possono più essere negati o modificati: con la conseguenza che violerebbe il limite predetto una norma sopravvenuta che: 1-modifichi la struttura della fattispecie normativa ex artt. 1218 o 2043 c.c., 2-introduca limitazioni della responsabilità civile sul piano oggettivo o soggettivo, 3-escluda o comprima la estensione delle “conseguenze-dannose” risarcibili, ad esempio non riconoscendo alcune “voci” o componenti del danno non patrimoniale (è notissima la vicenda d’Oltrealpe che, in seguito alle decisioni della CEDU, in data 6.10.2005, n. 1513/2003 Draon c/ Francia e n. 1810/2003 Maurice c/ Francia, ha portato alla sentenza 11.6.2010 n. 2 del Conseil costitutionnel dichiarativa della incostituzionalità della L. 11 febbraio 2005, n. 102, art. 2, paragr. II, comma 2, che aveva disposto la applicazione retroattiva delle norme della L. 4 marzo 2002, n. 303 volte a limitare il risarcimento del danno da malpractice medica al solo “danno morale”, con esclusione del danno patrimoniale futuro relativo alle spese necessarie per l’assistenza del neonato invalido), od eliminando il mancato guadagno come voce di danno patrimoniale, in deroga all’art. 1223 c.c., od ancora precludendo la tutela reale della reintegrazione in forma specifica, limitandola soltanto a quella indennitaria – per equivalente (cfr. per quest’ultima ipotesi Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 301 del 09/01/2014: “In materia di licenziamenti individuali, sebbene la L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 67, preveda l’applicabilità delle disposizioni processuali da essa introdotte solo alle controversie instaurate dopo la sua entrata in vigore, in forza del principio generale di irretroattività della legge, di cui all’art. 11 preleggi, e in assenza, nella L. n. 92 del 2012, di una disposizione di deroga espressa a detta norma, le modifiche apportate alla disciplina di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 con previsione di una tutela indennitaria in luogo di quella reintegratoria, non possono essere applicate neppure ai rapporti giuridici sorti anteriormente alla nuova disciplina e ancora in corso, qualora – con l’applicazione della normativa sopravvenuta – vengano a privarsi di efficacia le conseguenze attuali o future del licenziamento già ritenuto illegittimo dal giudice di merito”).

Gli indicati limiti alla efficacia retroattiva della legge non ricorrono, invece, nella diversa ipotesi in cui la norma generale ed astratta successiva venga ad incidere su di un rapporto giuridico ancora in corso di esecuzione, o, come nella specie, ancora controverso, regolando o definendo le modalità di apprezzamento del valore monetario equivalente di un bene perduto che deve essere risarcito, ovvero conformando i limiti entro i quali le prestazioni non ancora eseguite possono considerarsi leciti.

Non sembra corretto, pertanto, il richiamo, a sostegno della tesi contraria, del precedente di questa Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 5013 del 28/02/2017, non essendo in alcun modo rinvenibile dalla lettura della motivazione l’affermazione per cui il criterio di liquidazione equitativa del danno biologico deve “cristallizzarsi” nei valori indicati nelle Tabelle vigenti al momento in cui si è perfezionata la fattispecie dell’illecito civile. La sentenza afferma, invece, il diverso principio per cui è al momento della “taxatio”, e cioè della liquidazione omnicomprensiva della somma capitale e degli accessori per interessi e rivalutazione, che occorre riferirsi per verificare se lo spontaneo pagamento effettuato dal debitore abbia prodotto l’effetto estintivo del debito risarcitorio (in quanto corrispondente ai criteri liquidatori vigenti in quel momento), o se l’accordo transattivo sul “quantum” risarcibile debba ritenersi incontestabile ove non inficiato da errore sui criteri di liquidazione, o ancora se possa ritenersi corretta la liquidazione giudiziale del danno biologico, in quanto effettuata alla stregua delle Tabelle più recenti (“…gli arresti di questa Corte…. in cui si afferma l’obbligo dell’applicazione nella quantificazione del danno da perdita del rapporto parentale, dei parametri tabellari vigenti al momento della decisione…. non rappresentano altro che la risposta giurisprudenziale al problema nascente dall’ontologico iato tra i due momenti sopra illustrati (i.e. l’epoca di verificazione dell’evento lesivo e quella della liquidazione del danno), con l’affermazione del principio che la stima e la liquidazione del danno vanno compiute secondo i criteri praticati al momento della liquidazione”: Corte cass. n. 5013/2017 cit., in motivazione, pag. 14).

C- Natura di diritto sostanziale e non processuale della norma.

3.7 L’argomento critico che si rifà alla distinzione tra “norme di diritto processuale”, di immediata applicazione, e “norme di diritto sostanziale”, che possono applicarsi a fatti pregressi soltanto se dichiarate espressamente retroattive, non assume rilievo decisivo, bene potendo anche le norme di diritto sostanziale trovare immediata applicazione ai rapporti in corso o non ancora esauriti, trovando limite la retroattività nella impossibilità di modificare “ex post” i fatti genetici (e cioè gli elementi strutturali costitutivi) del rapporto che hanno ormai esaurito i loro effetti con il perfezionamento della fattispecie normativa; diversamente, gli aspetti funzionali connessi alla esecuzione del rapporto bene possono essere regolati diversamente ove sopravvenga una nuova disciplina normativa dei fatti ed atti che debbono ancora verificarsi od essere compiuti.

D- Legittimo affidamento nei criteri di liquidazione.

3.8 Sostengono i ricorrenti che l’applicazione dello “jus superveniens” alla controversia pendente, da un lato, violando il principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), si porrebbe in contrasto con il fondamento dello Stato di diritto volto ad assicurare la certezza del diritto; dall’altro, verrebbe a determinare un ingiustificato differente trattamento di situazioni analoghe in relazione esclusivamente alla diversa durata dei processi.

3.9 Sono noti i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale: “Al legislatore non è preclusa la possibilità di emanare norme retroattive, sia innovative che di interpretazione autentica, purchè tale scelta normativa sia giustificata sul piano della ragionevolezza, attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata. Tra tali valori – costituenti limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi – sono ricompresi il principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti, quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (Corte Cost., sentenza, in data 12 aprile 2017, n. 73). La legittimità costituzionale della norma con efficacia retroattiva, fermo il limite del giudicato (Corte Cost., sentenza, in data 1 luglio 2015, n. 127) e delle situazioni giuridiche consolidate (diritti quesiti), può incidere sui rapporti in corso, sacrificando anche aspettative legittime, laddove tale sacrificio sia il risultato del bilanciamento operato con altri interessi di rilevanza costituzionale ritenuti prevalenti (Corte Cost. ordinanza, in data 22 dicembre 2015, n. 274), e sempre che l’intervento legislativo non sia diretto specificamente a determinare l’esito di una particolare controversia giudiziaria in corso in quanto in tal caso si violerebbero i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, determinando lo sbilanciamento tra le due posizioni in gioco (Corte Cost. sentenza, 30 gennaio 2018, n. 12).

3.10 E’ nota altresì la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha affermato come al Legislatore non sia precluso emanare norme retroattive, purchè la retroattività trovi adeguata giustificazione in “imperative ragioni di interesse generale” (non riducibili, tuttavia, al mero interesse finanziario dello Stato), e sempre che, indipendentemente dal criterio di ragionevolezza della norma retroattiva in quanto funzionale alla risoluzione di contrasti interpretativi, l’intervento legislativo possa ritenersi compatibile con l’art. 6, paragr. 1, CEDU (diritto alla difesa ed al processo equo) e con l’art. 1, n. 1, del Protocollo addizionale CEDU (per cui l’interferenza del Legislatore sulla “res” controversa è assimilato ad illegittima ingerenza nella situazione proprietaria, intesa in senso lato, con riferimento al bene controverso), in relazione al duplice parametro della “prevedibilità” della iniziativa legislativa e dell'”abuso del processo” (cfr. Corte EDU, sez. II, ric. n. 58630/11, sentenza Ljaskaj c. Croazia 20 dicembre 2016): incorrendo, la legge retroattiva, nella violazione delle norme convenzionali laddove sia ravvisabile, nel comportamento delle autorità pubbliche, l’insorgenza di un affidamento sul bene disputato che valga a consolidare l’aspettativa di un determinato esito del giudizio in corso e che renda quindi “imprevedibile” (e per ciò “abusivo”) l’intervento legislativo modificativo, con carattere retroattivo, inteso a volgere a favore dello Stato parte del processo – l’esito della lite, realizzando in tal modo una indebita ingerenza nella gestione del contenzioso giudiziario (cfr. Corte EDU ric. 24846/94, 34165/96, 34173/96, causa Zielinski, Pradal, Gonzalez e altri v. France, sentenza, 28 ottobre 1999; Corte EDU, Grande camera, ric. 36813/97, causa Scordino c/ Italia, sentenza, 29 marzo 2006; Corte EDU ric. 43549/08, 6107/09, 5087/09, causa Agrati ed altri c/ Italia, sentenza, 7 giugno 2011).

3.11 Orbene la categoria della retroattività – così come indagata nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale – non viene legittimamente evocata nel caso di specie, in quanto la norma in esame, volta ad individuare il “valore-punto” tabellare, non modifica – come si è detto – la disciplina normativa della fattispecie dell’illecito civile, modificandone gli elementi costitutivi, ma opera invece all’interno della stessa, modellando il potere giudiziale di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale.

Il fenomeno descritto non è pertanto assimilabile a quello della successione delle leggi con effetti abrogativi, atteso che non vi era alcuna norma preesistente volta a definire il “valore-punto” in modo differente dalla norma successiva. Non possono ritenersi tali, infatti, le disposizioni degli artt. 1226 e 2056 c.c. in quanto dirette esclusivamente ad attribuire al Giudice il potere di integrazione equitativa ed anch’esse estranee alla fattispecie dell’illecito civile, da rinvenire esclusivamente nelle norme che dispongono – nel caso che, dall’inadempimento contrattuale o dalla condotta illecita extracontrattuale, derivino conseguenze pregiudizievoli – l’obbligo di risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale (artt. 1218,2043 e 2059 c.c.).

Nè la norma sopravvenuta della legge Balduzzi può essere assimilata al fenomeno cd. del “prospettive overruling”, che attiene esclusivamente al piano dell’attività interpretativa delle norme di diritto, in ordine alla quale non trova, pertanto, applicazione il principio di irretroattività della legge, al quale rimane estraneo, tanto il mutamento di giurisprudenza, quanto la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorchè conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione (e neppure in presenza di una interpretazione consolidata della Corte di legittimità, poichè è jus receptum – Corte cass., S.U., n. 15144/2011; id. n. 174/2015; id., n. 27775/2018; id., n. 4135/2019) che il valore e la forza del “diritto vivente”, quand’anche proveniente dal Giudice di vertice del plesso giurisdizionale, è meramente dichiarativo e non si colloca sullo stesso piano della cogenza che esprime la fonte legale, alla quale il Giudice è soggetto ex art. 101 Cost.), atteso che “un orientamento giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha la stessa efficacia delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante il difetto di vincolatività della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza che impedisce di considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum. L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo “tendenziali”, in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto” (cfr. Corte costituzionale, sentenza, in data 12 ottobre 2012, n. 230). Ed è proprio l’assenza di vincolatività cogente della interpretazione che impedisce che il giudicato ex art. 2909 c.c., formatosi su una controversia risolta in base alla precedente interpretazione di una norma, possa spiegare efficacia vincolante in una successiva controversia in cui viene in questione la medesima norma: l’esercizio della funzione giurisdizionale, in un ordinamento processuale nel quale non opera lo “stare decisis”, non può mai costituire limite alla attività esegetica esercitata da un altro Giudice (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 23723 del 21/10/2013; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 174 del 09/01/2015), con la rilevante conseguenza che la pretesa immutabilità della interpretazione giurisprudenziale non può integrare il fondamento esclusivo di un interesse consolidato, e per ciò tutelabile, al legittimo affidamento sulla risoluzione della controversia giudiziale (cfr. Corte cass. n. 174/2015 cit., che richiama Corte EDU, ric. 20153/04, causa Unedic c. Francia, sentenza, 18 dicembre 2008, e Corte EDU causa Nejdet Sahin e Perihan Sahin, sentenza, 20 ottobre 2011), pur dovendosi precisare per completezza che, “in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere nè gratuita, nè immotivata, nè immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione” (cfr. Corte cass. Sez. U -, Sentenza n. 11747 del 03/05/2019).

Non si ha, peraltro, nel caso dello jus superveniens della legge Balduzzi, neppure la sostituzione del precetto normativo con un consolidato indirizzo giurisprudenziale, atteso che non vengono in questione le categorie giuridiche individuatrici delle “voci” e dei “tipi” di danno risarcibile, nè tanto meno i principi di diritto concernenti la funzione reintegrativa del risarcimento del danno, od ancora il fondamento egualitario della modalità di ristoro del danno alla salute, che anzi vengono ad essere confermati proprio dalla disciplina legislativa sopravvenuta che, tramite il richiamo all’art. 138 CAD, viene a riconoscere la correttezza ed adeguatezza del criterio tabellare in quanto portato della precedente elaborazione giurisprudenziale in materia (in tal senso, infatti, deve essere correttamente inteso l’arresto di Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, in quanto rivolto a garantire la uniformità di trattamento sull’intero territorio nazionale, e non anche a stabilire o addirittura a cristallizzare il valore del “punto base” calcolato nelle Tabelle milanesi, sempre suscettibile di modifica nel tempo in relazione alla variazione – oltre che dei fenomeni di svalutazione della moneta – dei dati statistici rilevati dalla media delle liquidazioni operate dagli Uffici giudiziari o di più aggiornati criteri di rilevazione degli indici di determinazione di detto valore: il riferimento alle Tabelle milanesi trovava giustificazione, non in una verifica selettiva peraltro impossibile avuto riguardo ai limiti del sindacato di legittimità – dei valori più adeguati tra tutte le Tabelle di liquidazione del danno biologico in uso, ma nella maggiore diffusione pratica che le stesse avevano avuto tra gli Uffici giudiziari rispetto ad altre Tabelle pure in uso).

3.12 Nella specie si viene, invece, a riscontrare il diverso fenomeno in cui il diritto positivo viene a disciplinare un settore – quello della quantificazione del danno non patrimoniale nelle controversie per responsabilità sanitaria-precedentemente lasciato al potere giudiziale integrativo, venendo di fatto a ridurre l’ambito della discrezionalità del Giudice, definito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., predeterminando -in via generale ed astratta – il “valore del punto base” da assumere per la liquidazione del danno biologico relativo alle cd. “micropermanenti” (non essendo stata data ancora attuazione all’art. 138, comma 1, CAD che prevede la redazione di una apposita Tabella unica nazionale per le lesioni determinati invalidità superiori al 9%), sostituendosi la norma di legge alle prassi di calcolo in uso presso gli Uffici giudiziari, dovendosi al proposito precisare che – allo stato – la norma dell’art. 139 CAD trova piena applicazione, essendo state elaborati i coefficienti moltiplicatori corrispondenti ai singoli incrementi del grado di invalidità (da 1% a 9%), con variazione del valore-punto base (cfr., da ultimo, DM Sviluppo Economico, in data 9.1.2019), così come trova piena attuazione il criterio di liquidazione del danno biologico temporaneo, essendo stato determinato (da ultimo con il decreto ministeriale indicato) l’importo relativo ad ogni giorno di inabilità assoluta (modulabile in caso di inabilità parziale in relazione alla effettiva riduzione percentuale della capacità biologica: art. 138, comma 2, lett. f); art. 139, comma 1, lett. b) CAD). Trovano, altresì, immediata applicazione anche i criteri di liquidazione intesi a “personalizzare” il valore dell’ammontare del danno da invalidità permanente, secondo gli aumenti individuati per le micropermanenti (fino al

– 20%, comprensivo, per espresso dictum del giudice delle leggi, anche della

– voce di danno morale: art. 139, comma 3, CAD) e per le lesioni di maggiore gravità (personalizzazione del danno dinamico relazionale fino al 30%: art. 138, comma 3, CAD).

Orbene, tale intervento legislativo, proprio perchè non va ad incidere su alcuno degli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile, non intacca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite nel patrimonio del soggetto, e dunque è insuscettibile di ledere l’affidamento riposto dai soggetti di diritto nella stabilità dei rapporti già insorti ed esauriti e nella prevedibilità degli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega a determinati fatti o condotte. La norma sopravvenuta si rivolge esclusivamente al Giudice delimitandone l’ambito di discrezionalità nella liquidazione del danno con criterio equitativo e indicando quale più adeguato il criterio tabellare, onde porre al riparo l’esercizio del potere giurisdizionale – conformatosi al criterio legale – da eventuali critiche in diritto per violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., volte a contestare la arbitrarietà, illogicità od assenza di motivazione della quantificazione del danno non patrimoniale.

3.13 Deve, dunque, concludersi affermando che le norme legislative del 2012 (immodificate, per quanto concerne i criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, dalla successiva L. 8 marzo 2017, n. 24 cd. Gelli-Bianco), trovano diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum” -, non essendo ostativa la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa ed il danno si sia prodotto anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’intervento legislativo, nè potendo configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, tenuto conto che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale che disciplina il rapporto, a garanzia della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario.

3.14 In relazione alle questioni esaminate deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile (negando od impedendo il risarcimento di conseguenze – dannose già realizzatisi), il D.L. 13 settembre 2012, n. 138, art. 3, comma 3, convertito, con modificazioni, nella L. 8 novembre 2012, n. 189 (cd. legge Balduzzi che dispone l’applicazione, nelle controversie concernenti la responsabilità – contrattuale od extracontrattuale – per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del CAD – criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche dalla successiva L. 8 marzo 2017, n. 24 cd. Gelli-Bianco -), trova diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione, in pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum”.

Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa, ed il danno si sia prodotto, anteriormente alla entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’entrata in vigore del predetto decreto legge; nè può configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario. Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al Giudice di merito, si colloca su un piano distinto e comunque al di fuori della fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha, infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla condotta illecita, nè ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie”.

p..4 In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Il perdurante contrasto nelle soluzioni adottate dalla giurisprudenza di merito in ordine alla questione esaminata, e la assoluta novità delle questioni trattate, che hanno necessitato dell’intervento nomofilattico di questa Corte, costituiscono ragioni idonee a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

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