DANNO DA NASCITA INDESIDERATA: ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE DELL’ONERE DELLA PROVA E DELLA LEGITTIMAZIONE DEL NATO ALLA RICHIESTA RISARCITORIA

Nell’ambito del cosiddetto danno da nascita indesiderata (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza), deve essere rimessa alle Sezioni Unite la risoluzione del contrasto concernente la questione relativa all’onere probatorio e quella attinente alla legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria.

alle sezioni unite o nel merito rigetto.

 

 

Premesso che:

F.E. e B.M., in proprio e quali esercenti la potestà sulla figlia C., convennero in giudizio il prof. V.A. e il Dott. S.A. (nelle rispettive qualità di primario di Ostetricia e Ginecologia presso l’Ospedale (OMISSIS) e di direttore del Laboratorio di Analisi dello stesso presidio) nonchè l’Azienda U.S.L. n. (OMISSIS) di Lucca per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita della figlia, affetta da sindrome di Down, assumendo che la B. era stata avviata al parto, senza che fossero stati disposti approfondimenti, benchè i risultati degli esami ematochimici effettuati alla sedicesima settimana avessero fornito valori non rassicuranti;

– nel giudizio si costituirono tutti i convenuti, nonchè la Assitalia s.p.a., chiamata in causa dal V.;

– la sentenza del Tribunale di Lucca, che rigettò la domanda, è stata confermata dalla Corte di Appello di Firenze;

– il F. e la B. hanno proposto ricorso per cassazione, basato su due motivi, cui hanno resistito tutti gli intimati.

Rilevato che:

– la Corte fiorentina ha osservato che, “anche a voler considerare provata la volontà di B.M. di orientarsi verso l’aborto, non emergono neppure indizi per ritenere che sussisteva per la medesima il diritto di ricorrere alla interruzione della gravidanza, in presenza dei presupposti di legge, e cioè del grave pericolo per la salute fisica o psichica”; ha pertanto ritenuto che, “non potendosi affermare il diritto della gestante ad interrompere comunque la gravidanza in presenza di anomalie o malformazioni del feto, la domanda proposta … in proprio non può trovare accoglimento, rimanendo quindi assorbita la questione se effettivamente sussisteva il dedotto inadempimento all’obbligo di esatta informazione, contestato ai convenuti”;

– quanto alla domanda risarcitoria avanzata dai genitori in nome e per conto della figlia, la Corte ha rilevato che “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile in capo al medesimo un diritto a non nascere o a non nascere se non sano” e che non è quindi “configurabile il diritto al risarcimento dei danni prospettato dagli attori, in qualità di genitori della minore C., quale pregiudizio conseguente alla nascita, atteso che la tutela dell’individuo (che con la nascita acquista la personalità giuridica) nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse”;

– col primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto “violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 e 2236 c.p.c., e della L. n. 194 del 1978, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c. , n. 3″ e hanno censurato la sentenza perchè, dopo aver rilevato che l’interruzione di gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione è consentita a condizione che sussista un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, ha ritenuto che gli attori non avessero fornito la prova di tale presupposto, senza però considerare che si trattava di una “prova impossibile”, in quanto alla donna non era stata “fornita l’esatta informazione sulle condizioni del feto in grado di attivare il processo patologico che induce in pericolo la sua salute”, e senza neppure valutare come sia “del tutto naturale la volontà di interrompere la gravidanza a fronte di una corretta diagnosi e di una completa informazione che indichi gravi malformazioni del feto”;

– col secondo motivo (“violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 31 e 32 Cost. , e della L. 29 luglio 1975, n. 405 , in relazione all’art. 360 c.p.c. , n. 3″), è stato censurato il capo della sentenza che ha escluso la possibilità di riconoscere il risarcimento in favore della minore; hanno sostenuto – all’opposto – i ricorrenti che, “se… al momento della mancata informazione erano presenti le condizioni previste dalla legge per far ricorso all’aborto…, allora il nato è legittimato ad agire in giudizio in quanto la richiesta è volta non a richiedere i danni per una nascita non voluta, bensì per un’esistenza difficile da portarsi dietro tutta la vita e da vivere in ragione delle proprie limitazioni psicofisiche”.

Considerato che:

– il ricorso investe la tematica del cosiddetto danno da nascita indesiderata (ricorrente quando, a causa del mancato rilievo dell’esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza) e si incentra su due questioni – quella relativa all’onere probatorio e quella concernente la legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria – che meritano, ad avviso del Collegio, il vaglio delle Sezioni Unite di questa Corte, al cospetto di contrastanti orientamenti di legittimità;

– la questione del riparto degli oneri probatori si pone – nel caso – sotto un duplice profilo, giacchè la prova deve riguardare non soltanto la correlazione causale fra l’inadempimento dei sanitari (che si assume consistito nell’omissione di approfondimenti diagnostici) e il mancato ricorso all’aborto, ma anche la sussistenza delle condizioni comunque necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione (in relazione alla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), che subordina la possibilità di aborto – oltre tale termine – all’accertamento di “processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”);

– al riguardo, si registrano due orientamenti contrastanti (articolati – al loro interno – in posizioni ulteriormente differenziate) che, pur muovendo entrambi dalla premessa – pacifica e tralaticia – secondo cui, trattandosi di fatti costitutivi, spetta alla donna l’onere di dimostrare che l’accertamento dell’esistenza di anomalie o malformazioni l’avrebbe indotta ad interrompere la gravidanza e, altresì, che la conoscenza di tali elementi avrebbe generato nella gestante uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica (con ciò rendendosi praticabile il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno), divergono allorquando si tratta di individuare il tipo e, più specificamente, il contenuto della prova richiesta alla madre;

– un primo e più risalente orientamento (quello richiamato dai ricorrenti) ritiene “corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto” (Cass. n. 6735/2002, ribadita da Cass. n. 14488/2004 e – più recentemente – da Cass. n. 13/2010 e da Cass. n. 15386/2011): si è affermato, in particolare, che “è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso”, compresa quella del “pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia”, precisandosi -peraltro- che “l’esigenza di prova al riguardo sorge solo quando il fatto sia contestato dalla controparte, nel qual caso si deve stabilire -in base al criterio (integrabile da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali) del “più probabile che non” e con valutazione correlata all’epoca della gravidanza – se, a seguito dell’informazione che il medico omise di dare per fatto ad esso imputabile, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (Cass. n. 22837/2010);

– tale orientamento è stato recentemente sottoposto a critica da alcune pronunce di questa stessa Sezione, a partire da Cass. n. 16754/2012, che ha evidenziato come – in mancanza di una preventiva “espressa ed inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica” – la mera richiesta di un accertamento diagnostico costituisca un “indizio isolato… del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza)”, dal quale “il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico”, se “tale presunzione semplice possa essere sufficiente a provare quel fatto”, non potendo pertanto riconoscersi una “automatica significazione richiesta di diagnosi = interruzione di gravidanza in caso di diagnosi di malformazioni”; con la conseguenza che, “in mancanza di qualsivoglia elemento che colori processualmente la presunzione de qua, il principio di vicinanza alla prova e quello della estrema difficoltà (ai confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione”;

– nella stessa linea, è stato affermato che “è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza” e che “tale prova non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi ad esami volti ad accertare l’esistenza di eventuali anomalie del feto, poichè tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità”, ribadendosi che “il rischio della mancanza o della insufficienza del quadro probatorio acquisito andrà a suo carico”, fermo restando ù tuttavia – che l’accertamento “va condotto con giudizio ex ante, di talchè ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo” (Cass. n. 7269/2013);

– sulla scia di tali pronunce si sono poste – da ultimo – Cass. n. 27528/2013, che ha anche sottolineato la limitata rilevanza della non contestazione delle allegazioni attoree da parte del convenuto (discostandosi, sul punto, da Cass. n. 16754/2012 che proprio dall’esistenza di tale contestazione aveva fatto dipendere l’insorgenza del “problema della prova”) e Cass. n. 12264/2014;

– ancora più marcato è il contrasto sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico (e/o della struttura sanitaria) che – col suo inadempimento – abbia privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione della gravidanza, rispetto alla quale si registrano almeno due recenti decisioni di segno opposto al consolidato orientamento negativo;

– com’è noto, dopo aver rilevato che “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, essendo pertanto (al più) configurabile un diritto a nascere e a nascere sano, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione… nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie”, l’orientamento prevalente esclude che sia configurabile anche un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano” (che sarebbe un “diritto adespota” in quanto “non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più”), con la conseguenza che, “verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto” (Cass. n. 14488/2004;

conformi Cass. n. 16123/2006 e Cass. 10741/2009);

– di contro, è stato recentemente affermato ù dapprima – che, “una volta esclusa l’esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato”, dovrebbe ammettersi – in caso di omessa diagnosi di malformazioni congenite – che “il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)” (Cass. n. 9700/2011) e ù successivamente – che il nascituro, “ancorchè privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, e rappresentato dell’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando nè che la sua patologia fosse congenita, nè che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire” (Cass. n. 16754/2012)