SULLA DISTINZIONE TRA CONDIZIONE RISOLUTIVA E CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA

Si ha condizione risolutiva (art. 1353 c.c.), allorquando le parti subordinino la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un evento futuro e incerto. Qualora si verifichi la condizione risolutiva, gli effetti del negozio si considerano come mai verificati.

 

La clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), invece, è la clausola con la quale le parti prevedono che il contratto dovrà considerarsi risolto qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o non venga adempiuta secondo le modalità stabilite. In tal caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte non inadempiente (la quale ha diritto di scegliere tra il mantenimento del contratto e la sua risoluzione) dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.

Lo stabilire se nel caso concreto sussista una condizione risolutiva o una clausola risolutiva espressa dipende dalla interpretazione della volontà delle parti, rimessa al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nella misura in cui sia informata ad erronei criteri giuridici o non sorretto da una motivazione logicamente adeguata.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 9-6-1988 D.M. conveniva dinanzi al Tribunale di Palermo la s.a.s. Tomasino Lorenzo e C. e l’avv. M.A., commissario giudiziale dell’amministrazione controllata della predetta società, chiedendo l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di compravendita stipulato tra le parti l’8-8-1986, avente ad oggetto un appartamento sito al nono piano del fabbricato di via (OMISSIS), con box di pertinenza.

L’attore deduceva che il prezzo pattuito era di L. 130.000.000, di cui L. 100.000.000 versate al momento della stipula del contratto preliminare a titolo di caparra confirmatoria, importo questo da versare su libretto bancario e da poter liberare quando la promittente venditrice avesse provveduto a cancellare alcune iscrizioni che gravavano sull’immobile; che la detta cancellazione e la stipula dell’atto pubblico sarebbero dovuti avvenire nel termine di sei mesi; che la convenuta era stata messa in amministrazione controllata; che l’istante era pronto a versare l’importo di L. 30.000.000 ancora dovuto. In via subordinata, l’attore chiedeva, per l’eventualità che le iscrizioni non fossero cancellate, la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento della convenuta, con il pagamento in suo favore del doppio della caparra, oltre al risarcimento dei danni.

La società convenuta si costituiva resistendo alla domanda.

Il Tribunale decideva con sentenza in data 9-10-1992, che la Corte di Appello dichiarava nulla per mancanza della sottoscrizione del Presidente del Collegio.

A seguito della riassunzione della causa, con sentenza in data 28-12- 2001 il Tribunale dichiarava inefficace il contratto preliminare stipulato dalle parti per mancato avveramento della condizione sospensiva; condannava l’attore al rilascio dell’appartamento e dell’annesso box in favore della convenuta e quest’ultima a restituire all’attore la somma di L. 100.000.000; rigettava le domande proposte dall’attore nei confronti della s.a.s. Tomasino Lorenzo e C; dichiarava compensate tra le parti le spese del giudizio.

D.M. proponeva appello avverso la predetta decisione.

Con sentenza in data 29-11-2007 la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la s.a.s.

Tomasino Lorenzo e C. al pagamento in favore dell’appellante degli interessi legali sulla somma di Euro 51.645,69, con decorrenza dalla data della domanda al soddisfo; confermava per il resto la sentenza impugnata, condannando l’appellante alle spese del grado. La Corte territoriale, in particolare, rilevava che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la clausola 3 del contratto preliminare in oggetto non attribuiva al D. il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento, ma prevedeva, piuttosto, la condizione risolutiva derivante dall’omessa estinzione dei mutui bancari gravanti sull’appartamento entro il termine di sei mesi dalla stipula del preliminare; con la conseguenza che, essendosi verificata la condizione risolutiva, il contratto andava dichiarato risoluto, in conformità delle previsioni contrattuali, e l’appellante, promittente acquirente, non poteva chiedere l’adempimento della prestazione. Il giudice del gravame escludeva anche che la clausola in oggetto integrasse una condizione unilaterale, pattuita nell’interesse esclusivo di uno solo dei contraenti (il promittente acquirente), il quale, conseguentemente, potesse anche rinunciarvi. Rilevava, inoltre, che mancava la prova che il comportamento della società appellata fosse stato dolosamente preordinato all’avveramento della condizione o che detto avveramento fosse stato cagionato da un fatto colposo della promittente venditrice. La Corte di Appello riteneva, invece, fondato il quinto motivo di gravame, volto ad ottenere gli interessi legali sull’importo dovuto in restituzione dalla convenuta, con decorrenza dal momento della domanda.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D.M., sulla base di quattro motivi, corredati dalla formulazione di quesiti, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

La s.a.s. Tomasino Lorenzo e C, in persona del suo liquidatore, ha resistito con controricorso.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss.. Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, la clausola prevista dalle parti non costituiva una condizione risolutiva, bensì una clausola risolutiva espressa ex art. 1356 c.c.; e che, pertanto, presupposto perchè operasse la risoluzione del contratto era che la parte avente diritto (il promittente acquirente), nel caso ipotizzato di mancata liberazione dell’immobile, dichiarasse di volersi avvalere di tale clausola, il che non è mai avvenuto. Deduce che il giudice del gravame, incorrendo altresì nel vizio di carenza di motivazione, non ha preso in considerazione una serie di circostanze, dedotte con i motivi di appello, che valevano a confortare l’interpretazione della clausola pattizia propugnata dal D..

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss.. Deduce che il giudice del gravame ha erroneamente disatteso il secondo motivo di appello, con cui si sosteneva che, anche a voler considerare quella prevista nel contratto come una condizione, si sarebbe dovuto ritenere che si trattasse di una condizione unilaterale, e cioè di una condizione convenuta nell’interesse esclusivo di uno dei contraenti (il n promittente acquirente), il quale, pertanto, poteva anche rinunciarvi e chiedere l’esecuzione del contratto.

Con il terzo motivo il D. si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss.. Sostiene che la Corte di Appello ha errato nel disattendere l’assunto dell’appellante secondo cui, anche a voler interpretare la clausola in questione non come condizione risolutiva espressa, ma come condizione risolutiva, il mancato avveramento di detta condizione era comunque da addebitare alla s.a.s. Tomasino Lorenzo e C., la quale si era comportata in modo contrario a buona fede, nascondendo nella fase delle trattative al D. le gravissime condizioni economiche in cui si trovava (tali da imporle, dopo pochi mesi, di essere ammessa all’amministrazione controllata), e non dando alcuna prova di essersi adoperata per la liberazione dell’immobile dalle ipoteche.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss.. Sostiene che il giudice del gravame ha errato nel ritenere che l’accoglimento del quarto motivo di gravame, con cui si chiedeva la restituzione del doppio della caparra versata e il risarcimento dei danni, fosse subordinato all’accoglimento del terzo motivo. Rileva, infatti, che con il quarto motivo di appello il D. aveva espresso la volontà, in via subordinata, per l’ipotesi in cui non fosse stata accolta la domanda ex art. 2932 c.c., di recedere dal contratto (ex art. 1385 c.c., comma 2) ed ottenere il doppio della somma versata. Non si trattava, pertanto, di una richiesta collegata con il terzo motivo di appello, ma di un’ipotesi del tutto autonoma, formulata in via subordinata.

2) Il primo motivo, con il quale sostanzialmente si denunciano vizi di motivazione, è fondato.

Deve premettersi che, in tema di contratti, si ha condizione risolutiva (art. 1353 c.c.), allorquando le parti subordinino la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un evento futuro e incerto. Qualora si verifichi la condizione risolutiva, gli effetti del negozio si considerano come mai verificati.

La clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), invece, è la clausola con la quale le parti prevedono che il contratto dovrà considerarsi risolto qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o non venga adempiuta secondo le modalità stabilite. In tal caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte non inadempiente (la quale ha diritto di scegliere tra il mantenimento del contratto e la sua risoluzione) dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.

La clausola risolutiva espressa, pertanto, attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza, sicchè la risoluzione del contratto per il verificarsi del fatto considerato non può essere pronunziata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiara di volersene avvalere (Cass. 1-8-2007 n. 16993; Cass. 5-1- 2005 n. 167).

Lo stabilire se nel caso concreto sussista una condizione risolutiva o una clausola risolutiva espressa dipende dalla interpretazione della volontà delle parti, rimessa al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nella misura in cui sia informata ad erronei criteri giuridici o non sorretto da una motivazione logicamente adeguata.

Nella specie, l’art. 3 del contratto preliminare per cui è causa (il cui contenuto, per la parte che qui interessa, è stato riportato dal ricorrente, in omaggio al principio di autosufficienza del ricorso), nel dare atto che l’immobile promesso in vendita era gravato da ipoteca a favore della Cassa Centrale di Risparmio e del Banco di Sicilia, e che erano in corso, da parte della Tomasino Lorenzo s.a.s., contatti per la definizione di tali rapporti, stabiliva che il contratto era condizionato alla “documentata sostanziale liberazione dell’appartamento promesso in vendita con dichiarazione proveniente dai due istituti bancari infra il termine di sei mesi dalla data del presente preliminare”.

Il successivo art. 5 disponeva che “nell’ipotesi in cui con il decorso del termine sopra indicato non si dovesse verificare la condizione sospensiva convenuta al punto 3, il presente preliminare sarà risoluto di diritto con il solo obbligo della promettente venditrice di restituire al promettente acquirente la caparra oggi versata”.

La Corte di Appello, nell’interpretare la volontà contrattuale, ha affermato che la clausola 3 del contratto preliminare in oggetto non attribuiva al D. il diritto potestativo di ottenere la risoluzione dei contratto per inadempimento, ma prevedeva, piuttosto, la condizione risolutiva (erroneamente qualificata dalle parti come “sospensiva”) derivante dall’omessa estinzione dei mutui bancari gravanti sull’appartamento entro il termine di sei mesi dalla stipula del preliminare, facendo quindi dipendere la risoluzione o meno del contratto da un evento futuro e incerto.

Le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata non appaiono sorrette da una motivazione convincente e appagante, non avendo il giudice del gravame sufficientemente spiegato le ragioni del suo convincimento ed avendo il medesimo tralasciato di considerare alcuni aspetti rilevanti ai fini della ricerca della effettiva volontà delle parti.

La Corte territoriale, in particolare, non ha posto in alcun modo l’accento sul fatto che la clausola che prevedeva la risoluzione del contratto era collegata alla “liberazione” dell’appartamento promesso in vendita dalle ipoteche sullo stesso gravanti; liberazione che postulava una corretta attivazione della promittente venditrice al fine di eliminare le proprie pendenze debitorie e ottenere dagli istituti bancari creditori le necessarie dichiarazioni.

L’affermazione secondo cui la clausola pattizia in oggetto faceva dipendere la risoluzione o meno del contratto da un evento futuro e incerto, pertanto, desta delle perplessità sul piano logico, implicando di per sè la nozione di “liberazione” il riferimento all’adempimento di una prestazione, che appare più coerente con la previsione di una clausola risolutiva espressa., piuttosto che con la considerazione di un elemento accidentale rispetto alla vita del contratto.

Non si comprende, d’altro canto, quale interesse potesse avere il promittente acquirente (il quale al momento della stipula del preliminare aveva versato oltre i tre quarti dell’intero corrispettivo pattuito per la vendita) a prevedere una condizione risolutiva, il cui verificarsi, che avrebbe comportato la perdita di efficacia del contratto da lui quasi completamente adempiuto, era sostanzialmente rimesso al comportamento della promittente venditrice (la quale, avendo incassato un importo così elevato, poteva non avere interesse ad attivarsi per ottenere nel tempi pattuiti la dichiarazione di liberazione dell’immobile, di cui manteneva la proprietà).

Appare, al contrario, più plausibile ipotizzare che il D., avendo – come comprovato dall’entità della caparra versata – un concreto interesse alla esecuzione del preliminare, abbia inteso riservarsi la facoltà, nel caso in cui, decorsi sei mesi, la promittente venditrice fosse rimasta inadempiente, di valutare la convenienza o meno di avvalersi della clausola che gli attribuiva il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto.

Si tratta di circostanze che, in quanto astrattamente idonee a portare ad una soluzione diversa riguardo alla qualificazione della clausola in contestazione, avrebbero meritato un maggiore approfondimento da parte del giudice di merito, nell’ambito di una corretta indagine diretta alla individuazione del reale intento perseguito dai contraenti.

Di conseguenza, in accoglimento del motivo in oggetto, s’impone la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Gli altri motivi di ricorso rimangono assorbiti.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2014