GLI EFFETTI DEL MUTUO DISSENSO SULLE PRESTAZIONI GIÀ ESEGUITE

Il “negozio solutorio” (art. 1372 c.c., comma 1), considerando esaurita la causa funzionale del precedente contratto, paralizza l’ulteriore svolgimento del rapporto obbligatorio, senza incidere sulle prestazioni già eseguite, diversamente -quindi- sia dalla risoluzione del contratto, in cui l’originario programma negoziale è divenuto inattuabile per fatti oggettivi privando di interesse una attuazione solo parziale; sia dall’altra figura del “contrarius actus” con il quale la parte intende revocare, invece, la precedente manifestazione di volontà, e che, incidendo “ab origine” sulla stessa fattispecie genetica del negozio ne impedisce il perfezionamento; quanto ancora dalle ipotesi dei vizi di invalidità assoluta e relativa del negozio che, inficiando direttamente i suoi elementi costitutivi, determinano la caducazione del titolo con effetto retroattivo (“ex tunc”).

Consegue che, in difetto di allegazione e prova di differenti accordi intervenuti tra le parti in ordine alla disciplina delle prestazioni già eseguite, il “negozio solutorio” concluso dai contraenti, operando con effetto “ex nunc” la liberazione dal precedente vincolo obbligatorio, esclude comunque la ripetibilità delle prestazioni già eseguite, non potendo trovare applicazione a tale fattispecie le norme degli artt. 1458 e 1526 c.c. disciplinanti gli effetti restitutori della risoluzione del contratto per inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza in data 16.6.2017 n. 2682, ha rigettato l’appello principale proposto da M.L. , titolare della ditta individuale MDA Stampi ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale proposto da Mediocredito Italiano s.p.a., confermando la pronuncia di prime cure che aveva dichiarato infondata la domanda principale del M. volta ad ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento della locatrice e la condanna alla restituzione di tutti i canoni nonché al risarcimento del danno, ed aveva invece accolto la domanda subordinata di svincolo del pegno costituito dal M. a favore della concedente.

La Corte distrettuale ha rilevato che:

a seguito del mancato pagamento dei canoni di leasing immobiliare da parte della ditta individuale utilizzatrice, le parti avevano sottoscritto, in data 14.4.2009, un accordo inteso a disciplinare la prosecuzione del rapporto, con svincolo parziale del pegno costituito a favore della concedente a copertura dei canoni insoluti maturati fino al 31.3.2009 il contratto era stato risolto consensualmente a maggio 2010, avendo l’utilizzatrice, con l’assenso della concedente, restituito il bene immobile e cessato il pagamento dei canoni

non poteva trovare applicazione al contratto di risoluzione per mutuo consenso l’art. 1526 c.c. difettando il presupposto di un “indebito vantaggio” conseguito dalla società locatrice la quale oltre alla restituzione del bene aveva trattenuto i canoni versati a titolo di “indennizzo” per il godimento del bene esercitato “medio tempore” dalla ditta individuale, corrispondendo tale importo al valore locativo dell’immobile, come emerso dalla c.t.u. svolta in primo grado la prevalente soccombenza del M. sulla domanda principale legittimava la compensazione delle spese di lite, nella diversa misura del 50%, in riforma del relativo capo della sentenza di prime cure, con conseguente condanna del M. al rimborso dell’ulteriore metà a favore della società di leasing.

La sentenza di appello, non notificata, è stata ritualmente impugnata da M.L. n.q. di titolare della ditta individuale MDA Stampi, con ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrato da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Resiste con controricorso la intimata Mediocredito Italiano s.p.a., e con lo stesso atto ha spiegato intervento volontario INTESA San Paolo PROVIS s.p.a., assistita dai medesimi difensori, allegando che nelle more risulta trasferito all’interveniente il rapporto oggetto di controversia, in virtù di atto di scissione parziale in data 22.9.2015.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Questioni pregiudiziali.

1.1 La eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione notificato in via telematica, per mancanza di firma digitale del difensore, è palesemente infondata.

Come emerge chiaramente dalla “firma autografa” apposta in calce al ricorso e dalla estensione del formato digitale (.pdf) con il quale l’atto è stato trasmesso, risulta evidente che nella specie trattasi non di un atto nativo digitale, ma di un atto, originariamente redatto in formato analogico e regolarmente sottoscritto dal difensore, che è stato, successivamente, riprodotto in formato digitale e quindi trasmesso per la notifica in via telematica ex lege n. 53/1994 all’indirizzo PEC del difensore della parte intimata, in allegato al messaggio di posta elettronica, unitamente alla procura ed alla relata di notifica (contenente l’attestazione di conformità all’originale degli atti trasmessi), atti questi ultimi che recano la firma digitale del notificante, in quanto redatti “ab origine” in formato digitale.

Risulta, dunque, pienamente rispettato il requisito di ammissibilità del ricorso per cassazione prescritto dall’art. 365 c.p.c., dovendo ribadirsi il principio secondo cui “ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3, e art. 6, comma 1, come modificata dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, per la regolarità della notifica del ricorso per cassazione costituito dalla copia informatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico, non è necessaria la sottoscrizione dell’atto con firma digitale, essendo sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all’originale, secondo le disposizioni vigenti “ratione temporis” (nella specie, D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 22, comma 2).” (cfr. Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 26102 del 19/12/2016; id. Sez. 3, Ordinanza n. 7904 del 30/03/2018, entrambe richiamate nella memoria illustrativa dal ricorrente).

1.2 Preliminarmente deve essere dichiarato, inoltre, inammissibile l’intervento volontario spiegato da INTESA San Paolo PROVIS s.p.a. in qualità di successore a titolo particolare, essendo stato proposto il controricorso dal soggetto dante causa, da ritenersi quale parte esclusivamente legittimata a partecipare al giudizio di legittimità avente ad oggetto la verifica della conformità a diritto della sentenza impugnata e non l’accertamento del rapporto di diritto sostanziale. Va ribadito al proposito il principio di diritto secondo cui il successore a titolo particolare nel diritto controverso può tempestivamente impugnare per cassazione la sentenza di merito, ma non anche intervenire nel giudizio di legittimità, mancando una espressa previsione normativa, riguardante la disciplina di quell’autonoma fase processuale, che consenta al terzo la partecipazione a quel giudizio con facoltà di esplicare difese, assumendo una veste atipica rispetto alle parti necessarie, che sono quelle che hanno partecipato al giudizio di merito (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 5759 del 23/03/2016; id. Sez. 1, Sentenza n. 11638 del 07/06/2016; id. Sez. 5 -, Ordinanza n. 33444 del 27/12/2018).

2. Esame dei motivi del ricorso proposto da M.L. .

2.1 Primo motivo: violazione dell’art. 1526 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene il ricorrente che ha errato la Corte d’appello ritenendo inapplicabile alla fattispecie la norma di cui all’art. 1526 c.c., sul presupposto che la “ratio legis” fosse quella di evitare che il concedente possa conseguire dalla risoluzione del contratto un “indebito vantaggio”, realizzando con il trattenimento dell’intero importo dei canoni dovuti ed il mantenimento della proprietà del bene (tenuto conto altresì degli altri oneri e spese fatte gravare sul concedente -non come erroneamente indicato in sentenza sull’utilizzatore-per consentire l’acquisto del bene, nonché del valore commerciale residuo del bene al tempo della risoluzione) un risultato ancora più favorevole di quello altrimenti atteso dalla regolare attuazione del contratto, ipotesi non verificatasi nel caso in esame, non essendo pertanto necessario correggere “una situazione di squilibrio tra le parti”: afferma il ricorrente che, in tal modo, la Corte territoriale non avrebbe fatto corretta amministrazione dei principi di diritto enunciati dalla Corte di legittimità che, a suo dire, indicavano come la applicazione analogica di tale norma al contratto di leasing traslativo fosse del tutto indipendente dalla verifica in concreto di “illegittime sperequazioni tra le parti”, non dovendo quindi il Giudice di merito procedere ad alcun accertamento dell’effettivo assetto delle posizioni delle parti risultanti dalla esecuzione del contratto.

2.2 Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1458 c.c., sostenendo che in ogni caso -anche a prescindere dalla applicazione dell’art. 1526 c.c.- la Corte d’appello avrebbe dovuto fare ricorso alla disciplina ordinaria dettata dall’art. 1458 c.c. per il caso della risoluzione per inadempimento, estendibile analogicamente anche alla risoluzione del contratto per mutuo consenso, con conseguente obbligo per il concedente di restituzione di tutti i canoni versati.

2.3 Con il terzo motivo la sentenza di appello viene impugnata per vizio di omessa valutazione di “fatto decisivo” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per non aver considerato la Corte territoriale che sussisteva la prova del versamento alla società concedente, per tutto il periodo di durata del leasing e fino al mese di marzo 2009, dei canoni per l’importo complessivo di Euro 569.901,12 (importo non contestato da Mediocredito Italiano s.p.a.) e che pertanto, ove tale circostanza di fatto fosse stata debitamente rilevata, si sarebbe con certezza pervenuti ad un diverso risultato nella ponderazione degli “indebiti vantaggi” acquisiti dalla concedente a seguito del mutuo scioglimento del contratto, risultando il pagamento del predetto importo del tutto sproporzionato rispetto al “normale” risultato utile che la stessa concedente si era prefissa dalla attuazione del programma negoziale.

2.4 Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in quanto, una volta fornita da parte dell’utilizzatore la prova dello scioglimento consensuale del contratto e dell’importo corrisposto fino a tale momento a titolo di canoni comprensivi anche delle rate del prezzo di acquisto dell’immobile, spettava alla società concedente fornire la prova dell’ammontare del compenso per l’uso del bene per il periodo di durata del contratto, da detrarre dall’importo globale dei canoni che, per la residua parte andavano restituiti in ogni caso all’utilizzatore.

3. Occorre premettere che nonostante le lacunose esplicazioni fornite dalle parti e la carente descrizione dei fatti ricavabili dalla sentenza impugnata in ordine alla fattispecie concreta, dal ricorso possono, comunque, desumersi incontestati i seguenti elementi fattuali:

il contratto di leasing aveva ad oggetto la locazione finanziaria di un immobile, il cui valore di acquisto era pari ad Euro 1.482.000,00 oltre Iva, con un canone di “entrata” pari ad Euro 285.600,00 e n. 179 rate mensili di Euro 8.280,17 ciascuna. L’opzione finale di acquisto della proprietà prevedeva una “rata finale” di Euro 258.600,00 su un residuo valore commerciale del bene non inferiore ad Euro 1.200.000,00: tali circostanze, dedotte con l’atto introduttivo, non risultano essere state oggetto di contestazione, non essendo venute in questione nell’accertamento svolto dai Giudici di merito:

– il contratto stipulato in data 1.6.2007 ed assistito da garanzie personali e reali (pegno di titoli) si è sciolto per mutuo consenso nel maggio 2010, con la restituzione dell’immobile: fino al marzo 2009 la ditta MDA Stampi aveva corrisposto canoni per l’importo di Euro 569.901,12;

– il giudizio è stato intrapreso dall’utilizzatore che ha formulato, in via principale, domanda di risoluzione del contratto per pregresso inadempimento imputabile a colpa della concedente con condanna al risarcimento del danno ed alla restituzione di tutti i canoni versati, nonché in via subordinata, in caso di ritenuto scioglimento consensuale del contratto, domanda di condanna alla restituzione di tutti i canoni versati oltre la revoca del pegno; la società concedente, a sua volta, ha proposto domanda riconvenzionale volta a dichiarare la risoluzione del contratto per inadempimento colpevole dell’utilizzatore, con condanna al rilascio dell’immobile.

3.1 Tanto premesso dalla lettura del ricorso emerge che il Tribunale aveva accertato lo scioglimento del contratto per mutuo consenso ed aveva rigettato la domanda di condanna alla restituzione di tutti i canoni, ritenendo applicabile l’art. 1526 c.c. soltanto alla ipotesi di risoluzione per inadempimento.

La Corte d’appello ha, invece, dato per scontata la applicazione della norma anche alla ipotesi di risoluzione consensuale, tuttavia escludendo che ricorressero nella fattispecie concreta i presupposti applicativi della stessa, difettando la prova di un indebito vantaggio della società concedente nel trattenere i canoni già versati ed ottenere la restituzione dell’immobile.

3.2 Orbene, fermo il consolidato orientamento giurisprudenziale -che non ha subito rimeditazioni neppure dopo l’introduzione nell’ordinamento -tramite il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 59 – della L. Fall., art. 72 quater (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 8687 del 29/04/2015), per cui il contratto di leasing finanziario può atteggiarsi diversamente secondo che si venga a configurare in base agli accordi delle parti come leasing di puro godimento (in tal senso l’impiego temporaneo da parte dell’utilizzatore esaurisce la funzione economica del bene: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 13418 del 23/05/2008) o invece come leasing cd. traslativo (in tal, caso la durata del contratto è predeterminata solo in funzione dell’ulteriore differito trasferimento del bene e della rateizzazione del prezzo d’acquisto, caratterizzandosi l’operazione negoziale per il fatto di avere ad oggetto beni atti a conservare, alla scadenza del rapporto, un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, cosicché i canoni hanno la funzione di scontare anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto: cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4969 del 02/03/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 13418 del 23/05/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 73 del 08/01/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 19287 del 10/09/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 19732 del 27/09/2011) e ribadito il principio di diritto secondo cui soltanto alla seconda figura negoziale trova applicazione (in via analogica, in assenza di diversa pattuizione dei contraenti: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 73 del 08/01/2010; id. Sez. 1, Sentenza n. 2538 del 09/02/2016; id. Sez. 5 -, Sentenza n. 8110 del 29/03/2017) lo statuto della vendita con riserva della proprietà e, dunque, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore anche le disposizioni dell’art. 1526 c.c., da ritenersi inderogabili “in pejus” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 19732 del 27/09/2011), osserva il Collegio che, alla stregua delle indicate premesse in fatto, la tesi difensiva prospettata dal ricorrente con i primi quattro motivi di ricorso -che per la stretta connessione possono essere esaminati congiuntamente- è da ritenersi palesemente destituita di fondamento.

3.3 Contraria a diritto è l’affermazione secondo cui il Giudice, nell’applicazione della norma di cui all’art. 1526 c.c., deve prescindere dal concreto assetto negoziale degli interessi risultante dal contratto e dalla sua esecuzione. È appena il caso di evidenziare, al proposito, come lo stesso art. 1526 c.c., al comma 2, richiamato espressamente dal comma 3, riservi alle parti contraenti ampi margini di discrezionalità nella definizione degli accordi restitutori in caso di risoluzione del contratto per inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore, anche in deroga alla disciplina del comma 1, riconducendoli -secondo la interpretazione che ne ha fornito questa Corte-nella facoltà di stipula di una clausola penale, in relazione alla quale al Giudice è conferito il potere di “reductio ad aequitatem” della indennità convenuta. Lo stesso comma 1 dell’art. 1526 c.c. individua un criterio di contemperamento fondato sulla valutazione del risultato negoziale programmato dalle parti, andato deluso dalla anticipata risoluzione del contratto, dovendo bilanciarsi l’obbligo di restituzione delle rate versate con l’”equo compenso” che l’utilizzatore è tenuto a corrispondere al concedente per il godimento del bene.

Rimane quindi destituita di fondamento, alla stregua della stessa lettura delle disposizioni dell’art. 1526 c.c., la tesi principale del ricorrente secondo cui la risoluzione del contratto di leasing traslativo imporrebbe sempre e comunque la integrale restituzione di tutti i canoni corrisposti dall’utilizzatore.

3.4 Il dedotto vizio di errore nell’attività di giudizio deve ritenersi infondato anche in relazione alla censura svolta in grado subordinato con la quale si contesta al Giudice di merito di aver confuso la funzione riconosciuta da questa Corte di legittimità alla norma di cui all’art. 1526 c.c., comma 2, intesa al controllo mediante la “reductio ad aequitatem” della “indennità” pattuita in forma di clausola penale con la definitiva acquisizione -in deroga al comma 1-di tutte le rate dei canoni già versate al locatore (lessor), con la diversa funzione, che prescinde del tutto da quella risarcitoria, da riconoscere, invece, alla norma di cui all’art. 1458 c.c., comma 1, -applicabile secondo il ricorrente anche al contratto di leasing traslativo- volta a riequilibrare la originaria posizione delle parti contraenti, tenendo conto delle prestazioni “medio tempore” eseguite.

3.5 Orbene non è dubitabile che il controllo del Giudice, rivolto ad impedire illegittime locupletazioni e sperequazioni del concedente in danno dell’utilizzatore, trova giustificazione laddove le parti contraenti abbiano pattuito, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, condizioni che determinino un risultato sproporzionato a favore del contraente-concedente adempiente rispetto al vantaggio consistente nel margine di guadagno che lo stesso si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18326 del 12/07/2018, richiamata nella motivazione della sentenza di appello).

Nel caso di specie, tuttavia, una volta rigettate entrambe le domande di risoluzione del contratto di leasing per inadempimento colpevole, reciprocamente formulate dalle parti, ed accertato che il contratto si era invece sciolto per mutuo consenso, non vi era alcuna necessità di procedere al controllo di eventuali sperequazioni determinate a seguito di clausole di risarcimento forfetario del danno, risultando negata alla radice la stessa responsabilità per colpa dell’utilizzatore per danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 1218 c.c., presupposto indefettibile per dare corso alla applicazione dell’art. 1526 c.c., nè peraltro veniva in questione la necessità di procedere al predetto controllo giudiziale di un eventuale “indebito vantaggio” in relazione alla entità dell’”equo compenso” dovuto per il godimento dell’immobile, atteso che le parti nel definire consensualmente lo scioglimento del rapporto non avevano convenuto in proposito alcuna clausola intesa a scindere, nell’ambito delle rate versate, la componente relativa al prezzo di acquisto da quella concernente il godimento del bene, prevedendo un obbligo restitutorio della prima (fatto incontroverso).

3.6 Del tutto inconferente è, pertanto, anche la invocazione delle Condizioni generali di contratto da parte della società resistente per sostenere la irripetibilità dei canoni riscossi: indipendentemente dalla mancata indicazione del luogo processuale in cui è dato rinvenire tale documento contrattuale (non essendo consentito verificare se e quando lo stesso sia stato ritualmente prodotto nel giudizio), ed indipendentemente dal rilievo che, da quanto emerge dalla parziale trascrizione delle C.G. nel controricorso (pag. 16), il documento in questione riguarderebbe tale società “CALIT” estranea al presente giudizio, è appena il caso di osservare come la clausola che pone l’obbligazione a carico dell’utilizzatore di corrispondere i “canoni periodici non ancora maturati ed il prezzo pattuito per l’esercizio della opzione di acquisto finale” (con la misura riequilibratrice dell’attribuzione all’utilizzatore del netto ricavato dalla vendita o dalla ricollocazione sul mercato del bene) è prevista in funzione del “risarcimento dell’ulteriore danno patrimoniale”, e dunque presuppone la risoluzione del contratto per inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore, risultando quindi inapplicabile alla fattispecie di scioglimento del contratto per mutuo consenso. In tema di risoluzione consensuale del contratto, infatti, il mutuo dissenso, realizzando per concorde volontà delle parti la ritrattazione bilaterale del negozio, dà vita a un nuovo contratto, di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a quello del contratto originario: pertanto, dopo lo scioglimento, le parti non possono invocare cause di risoluzione per inadempimento relative al contratto risolto giacché ogni pretesa od eccezione può essere fondata esclusivamente sul contratto solutorio e non su quello estinto (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 17503 del 30/08/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 18859 del 10/07/2008).

3.7 Inconferente risulta, parimenti, il riferimento contenuto nella sentenza di appello – per sostenere l’assenza di un indebito vantaggio conseguito dal “lessor” – al precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18326 del 12/07/2018, nel quale veniva in questione, per l’appunto, la diversa ipotesi in cui, a fronte della risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore, i contraenti avevano stipulato apposita clausola con la quale la parte inadempiente era tenuta, oltre che alla immediata restituzione del bene anche a corrispondere “a titolo di risarcimento dei danni, un importo pari alla somma dei canoni che sarebbero maturati dalla data di risoluzione fino alla data della scadenza della locazione finanziaria e del prezzo di acquisto dovuto dall’utilizzatore alla fine della locazione finanziaria, con attualizzazione dei canoni secondo i criteri contrattuali” (Corte cass. 18326/2018, in motivazione).

La Corte territoriale, estendendo il proprio accertamento alla questione della inesistenza di un “indebito vantaggio” della concedente, ha operato una verifica del tutto superflua ed inutile, in quanto non richiesta nel caso di risoluzione del contratto per mutuo consenso, trattandosi di verifica da compiere esclusivamente in relazione agli effetti dell’inadempimento colpevole dell’utilizzatore, come espressamente indicato nell’art. 1526 c.c.: soltanto in presenza di quest’ultima fattispecie risolutoria trova infatti applicazione la norma volta a ripristinare le originarie posizioni delle parti contraenti attraverso la restituzione all’utilizzatore delle rate versate ed il riconoscimento al concedente del diritto all’equo compenso per l’uso del bene, comprensivo della remunerazione del godimento del bene, del deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e del logoramento per l’uso, (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 73 del 08/01/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 19287 del 10/09/2010; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 29020 del 13/11/2018).

3.8 Errata è, pertanto, la conclusione cui perviene la Corte d’appello in ordine alla applicabilità dell’art. 1526 c.c. anche nella ipotesi di “risoluzione consensuale” del contratto di leasing, errore mutuato dall’impreciso aggettivo “consensuale”, riferito alla risoluzione del contratto di leasing traslativo, estratto da un passaggio motivazionale del precedente di questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 8687 del 29/04/2015 (erroneamente riportato nella sentenza impugnata con il n. 8697/2015), che aveva ad oggetto la diversa questione risolta, con il principio di diritto compendiato nella seguente massima elaborata dal CED della Corte Suprema: “L’introduzione nell’ordinamento, tramite la D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 59, della L. Fall., art. 72 quater non consente di ritenere superata la tradizionale distinzione tra leasing finanziario e traslativo, e le differenti conseguenze (nella specie, l’applicazione in via analogica dell’art. 1526 c.c. al leasing traslativo) che da essa derivano nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore”. Una attenta lettura della predetta sentenza, unitamente alla disamina della consolidata giurisprudenza di legittimità in materia di leasing finanziario di godimento e traslativo, avrebbe infatti consentito di sgombrare ogni equivoco sul punto, posto che l’oggetto della controversia esaminato nella predetta decisione, così come l’oggetto di tutti i precedenti di legittimità (Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 65 del 07/01/1993; id. Sez. 3, Sentenza n. 73 del 08/01/2010; id Sez. 3, Sentenza n. 19287 del 10/09/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 19732 del 27/09/2011) da quella richiamati a supporto della affermazione per cui la disposizione dell’art. 1526 c.c. -pur dopo la novella della legge fallimentare – continuava a trovare applicazione analogica esclusivamente con riferimento al contratto di leasing traslativo, concerneva sempre e soltanto la medesima ipotesi di risoluzione del contratto di leasing “per inadempimento” dell’utilizzatore, non avendo alcun precedente affermato, neppure “per obiter dicta”, la applicabilità dell’art. 1526 c.c. con riferimento alla distinta fattispecie dello scioglimento del contratto di leasing traslativo per “mutuo consenso”.

3.9 La decisione della Corte territoriale va dunque confermata nel dispositivo, anche se deve essere corretta la motivazione, alla stregua del seguente principio di diritto:

“In tema di scioglimento per mutuo consenso, ai sensi dell’art. 1372 c.c., comma 1, del contratto di leasing traslativo, non trova applicazione -neppure analogica- la disposizione dell’art. 1526 c.c. che prevede il ripristino delle originarie posizioni delle parti contraenti attraverso la restituzione all’utilizzatore delle rate versate ed il riconoscimento al concedente del diritto all’equo compenso per l’uso del bene, difettando nel caso di accordo solutorio l’indefettibile presupposto legale dell’inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore che determina la risoluzione del contratto, atteso che i contraenti -nell’esercizio della loro autonomia negoziale- hanno valutato confacente ai propri interessi non dare ulteriore seguito alla esecuzione del rapporto obbligatorio, ritenendosi soddisfatti dalla parziale attuazione del contratto. In tal caso il contratto solutorio puro -che non contenga ulteriori disposizioni concernenti il rapporto estinto- produce quale unico effetto quello della liberazione delle parti contraenti dall’obbligo di eseguire le ulteriori prestazioni ancora dovute in virtù del precedente contratto”.

4. Rimane, conseguentemente, priva di fondamento anche la censura di violazione dell’art. 1458 c.c. per omessa applicazione degli effetti restitutori, in quanto tale norma è volta a regolare esclusivamente la fattispecie della risoluzione per inadempimento colpevole del contratto a prestazioni corrispettive, trovando peraltro limite -quanto ai predetti effetti- nelle prestazioni, già eseguite, dei “contratti di durata” (comma 1): dovendo ulteriormente precisarsi, a quest’ultimo proposito, come tale limitazione operi laddove il connotato della durata realizzi una effettiva sinallagmaticità tra le prestazioni, ipotesi che ricorre soltanto nel caso del leasing finanziario di godimento e non anche nel leasing traslativo, in tal caso trovando regola, la disciplina della risoluzione per inadempimento, esclusivamente nell’art. 1526 c.c. concernente la vendita con riserva di proprietà ed applicabile in via analogica. Costante è infatti la giurisprudenza di questa Corte che nega al leasing traslativo “la natura di contratto ad esecuzione continuata o periodica” ritenendo “inapplicabile il regime dell’art. 1458 c.c., comma 1, seconda ipotesi, non essendo in esso ravvisabile quella perfetta corrispettività a coppie delle prestazioni reciproche e periodiche che caratterizzano invece il leasing tradizionale, poiché tali prestazioni non solo non sono separabili giuridicamente ed economicamente dalle precedenti e dalle successive, ma non realizzano costantemente, durante la vita del rapporto, l’equilibrio sinallagmatico tra prestazione e controprestazione, costituendo ciascun canone il corrispettivo sia della concessione in godimento, per la parte già eseguita fino al momento della risoluzione, sia del previsto trasferimento della proprietà del bene, sicché non sussiste equivalenza delle posizioni delle parti al momento dell’anticipata risoluzione del rapporto e difetta quindi il presupposto essenziale per l’applicazione della disciplina dell’art. 1458 citato” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 65 del 07/01/1993, che richiama il precedente di Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 5572 del 13/12/1989).

4.1 In tema di contratti, lo scioglimento per mutuo dissenso, infatti, in difetto di diversa specifica pattuizione negoziale, non opera retroattivamente a differenza di quanto previsto dalla legge nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento – ed alla cessazione del rapporto non consegue il ripristino dello “status quo ante” che, anzi, deve ritenersi implicitamente escluso per effetto della globale valutazione compiuta dalle parti all’atto della caducazione dell’accordo (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 5065 del 29/04/1993; id. Sez. 5, Sentenza n. 20445 del 06/10/2011; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 4827 del 19/02/2019).

4.2 Lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso (che può realizzarsi anche per “facta concludentia”: Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 15959 del 16/08/2004) si sostanzia in un nuovo contratto alla stregua del quale soltanto vanno regolati i “nuovi” effetti che vengono a determinarsi tra gli originari contraenti: sicché se il “contratto solutorio” non contiene ulteriori accordi di natura transattiva e nulla dispone in ordine alla eventuale regolamentazione delle prestazioni già eseguite nella vigenza del contratto risolto, allo stesso non può ricondursi altro effetto che quello della cessazione dei vincoli obbligatori che ancora permangono- del precedente rapporto, dovendo ritenersi che le parti contraenti abbiano ritenuta satisfattiva -secondo la rispettiva valutazione dei propri interessi- la parziale attuazione, fino a quel momento, del rapporto obbligatorio attraverso le prestazioni corrispettive già eseguite, rapporto che viene quindi ad estinguersi consensualmente con efficacia “ex nunc ” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 683 del 10/03/1966; id. Sez. 3, Sentenza n. 12476 del 11/12/1998), non operando -in assenza di una diversa esplicita volontà delle parti- la disciplina legale degli artt. 1458 e 1526 c.c. che, con disposizioni speciali volte a regolare gli effetti della risoluzione per inadempimento, è diretta a privare il titolo negoziale della efficacia obbligatoria, con effetto “ex tunc” richiedendo il ripristino (con eccezione dei rapporti di durata) dei valori patrimoniali dei contraenti nello “statu quo ante” (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 5065 del 29/04/1993).

4.3 Il “negozio solutorio” (art. 1372 c.c., comma 1), considerando esaurita la causa funzionale del precedente contratto, paralizza, infatti, l’ulteriore svolgimento del rapporto obbligatorio, senza incidere sulle prestazioni già eseguite, diversamente -quindi- sia dalla risoluzione del contratto, in cui l’originario programma negoziale è divenuto inattuabile per fatti oggettivi privando di interesse una attuazione solo parziale; sia dall’altra figura del “contrarius actus” con il quale la parte intende revocare, invece, la precedente manifestazione di volontà, e che, incidendo “ab origine” sulla stessa fattispecie genetica del negozio ne impedisce il perfezionamento; quanto ancora dalle ipotesi dei vizi di invalidità assoluta e relativa del negozio che, inficiando direttamente i suoi elementi costitutivi, determinano la caducazione del titolo con effetto retroattivo (“ex tunc”).

5. Nella specie, entrambi i Giudici di merito hanno accertato che alcun accordo modificativo del contratto di leasing traslativo, volto a disporre la prosecuzione del rapporto, era intervenuto tra le parti, e che il rapporto originario doveva invece ritenersi risolto consensualmente “stante l’inequivoca valenza della cessazione del pagamento dei canoni seguita dalla restituzione dell’immobile, nel maggio 2010, con accettazione da parte della locatrice….” (vedi sentenza appello, in motivazione, pag. 6).

Consegue che, in difetto di allegazione e prova di differenti accordi intervenuti tra le parti in ordine alla disciplina delle prestazioni già eseguite, il “negozio solutorio” concluso dai contraenti, operando con effetto “ex nunc” la liberazione dal precedente vincolo obbligatorio, escludeva comunque la ripetibilità delle prestazioni già eseguite, non potendo trovare applicazione a tale fattispecie le norme degli artt. 1458 e 1526 c.c. disciplinanti gli effetti restitutori della risoluzione del contratto per inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore.

6. I primi quattro motivi del ricorso debbono, dunque, ritenersi tutti infondati, il terzo ed il quarto motivo investendo aspetti meramente conseguenziali rispetto al primo e secondo motivo.

7. Con il quinto motivo la parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censurando la statuizione della Corte d’appello che: a) in accoglimento dell’appello incidentale della società concedente aveva riformato la decisione di primo grado sul capo delle spese di lite, dichiarate integralmente compensate dal Tribunale ed invece compensate solo nella misura del 50% dal Giudice territoriale, con condanna del M. alla rifusione del residuo importo; b) aveva applicato lo stesso criterio nella regolamentazione delle spese del secondo grado.

Ritiene il ricorrente errata la motivazione di “prevalente soccombenza” ravvisata dal Giudice di seconde cure in capo all’attore in primo grado ed all’appellante principale, in quanto, il Tribunale, pur rigettando le domande principali aveva accolto la domanda subordinata di svincolo della garanzia pignoratizia rilasciata alla società concedente.

7.2 Il motivo è inammissibile venendo a coinvolgere un apprezzamento di merito in ordine al quale è precluso il sindacato di legittimità.

7.3 Occorre premettere che al procedimento, introdotto in data antecedente la riforma normativa del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, trova applicazione l’art. 92 c.p.c., comma 1, (come modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11) che dispone “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

Orbene posto che la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorché quest’ultima sia stata articolata in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 3438 del 22/02/2016), occorre rilevare che il principio di causalità ex art. 91 c.p.c., secondo cui le spese di lite debbono essere poste a carico della parte (anche virtualmente) soccombente è stato interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso che il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte “totalmente” vittoriosa, al di fuori di tale ipotesi rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (ex plurimis: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 8889 del 03/07/2000; id. Sez. 5 -, Ordinanza n. 8421 del 31/03/2017; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 24502 del 17/10/2017), fermo restando che il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 406 del 11/01/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 19880 del 29/09/2011). Ed al riguardo occorre precisare che, in tema di liquidazione delle spese giudiziali, nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l’oggetto della lite nel suo complesso (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1703 del 24/01/2013), mentre la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 2149 del 31/01/2014; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 30592 del 20/12/2017).

7.4 Tanto premesso, la Corte d’appello ha effettuato una complessiva valutazione delle posizioni delle parti ritenendo di individuare l’oggetto assolutamente prevalente della causa nelle contrapposte domande concernenti il colpevole inadempimento del contratto di leasing e nella domanda del M. di condanna alla restituzione dei canoni versati, domande tutte rigettate, ritenendo quindi recessivi, rispetto al giudizio di reciproca soccombenza, tanto il parziale accoglimento della domanda subordinata di svincolo del pegno proposta dal M. – quanto il parziale accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla società concedente, venendo a considerare in tal modo prevalente la soccombenza subita dalla parte che aveva introdotto il giudizio rispetto a quella della parte che aveva resistito.

Ne segue che risulta osservato il disposto dell’art. 92 c.p.c., rimanendo relegata nell’ambito discrezionale -sottratta al sindacato di legittimità- la scelta operata dalla Corte territoriale in ordine alla ripartizione della quota percentuale delle spese compensate e di quelle poste a carico della parte ritenuta “maggiormente” soccombente, mentre alcuna violazione dell’art. 91 c.p.c. è data riscontrare nella condanna alla rifusione delle spese per la quota non compensata, trattandosi di mero effetto conseguenziale della valutata prevalente soccombenza reciproca.

8. In conclusione il ricorso, infondati i primi quattro motivi ed inammissibile il quinto, deve essere rigettato, e la parte ricorrente va condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.