CLAUSOLA CLAIMS MADE E CONFORMAZIONE GIUDIZIALE DEL CONTRATTO: CHIARIMENTI IN APPLICAZIONE DELLE SEZIONI UNITE

Nella clausola “claims made pura”, la maggiore alea per l’assicurato di vedersi non indennizzati i sinistri che vengono a verificarsi in prossimità della scadenza della polizza (qualora entro tale termine non venga altresì formulata la richiesta risarcitoria), viene ad essere compensata dalla maggiore alea che grava sull’assicuratore per eventuali richieste risarcitorie presentate dopo l’inizio della efficacia del contratto, per sinistri occorsi anteriormente ad essa: non risultando in tal modo alterato il sinallagma delle prestazioni a carico dei contraenti. Il modello della clausola in questione, comunemente utilizzato nella prassi assicurativa, può venire ad articolarsi secondo lo schema, tanto della “retroattività” (fatti dannosi già accaduti prima della stipula del contratto), quanto della “ultrattività” (fatti dannosi che si verificheranno dopo la scadenza del termine di durata del contratto).
La previsione del fatto-sinistro e del suo riferimento cronologico non esaurisce, tuttavia, la fattispecie cui è collegata la insorgenza del diritto ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli della responsabilità civile, venendo ad essere richiesto anche l’ulteriore elemento (esterno alla sfera di controllo dei contraenti, come tale incerto e per ciò idoneo a rendere compatibile la clausola “claims made” con lo schema causale del contratto assicurativo delineato nell’art. 1895 c.c.) della manifestazione del diritto al risarcimento del danno esercitato dal terzo danneggiato. Ma è proprio l’elemento aleatorio costituito dalla incertezza della richiesta risarcitoria che viene ad essere temporalmente circoscritto in tali clausole, così da consentire all’assicuratore di meglio calibrare il proprio impegno nel tempo (in relazione all’accantonamento delle riserve necessarie a fare fronte a richieste pervenute, per fatti verificatisi nel periodo di vigenza della polizza, anche a notevole distanza di tempo dalla cessazione del rapporto di garanzia: art. 2952 c.c., comma 3) e, correlativamente, di definire con maggiore precisione il premio assicurativo (in relazione alla limitazione temporale della possibile verificazione del rischio), con beneficio anche per l’assicurato.
E tale migliore definizione delle prestazioni dei contraenti (volta a garantire una misura del premio quanto più corrispondente alla entità del rischio assunto), viene a costituire – nel giudizio demandato al Giudice di merito, non più sulla compatibilità della clausola “claims made”, in sé considerata, con la struttura del “tipo” negoziale della assicurazione della responsabilità civile, ma sulla “tenuta” di tale clausola rispetto al complessivo programma che le parti hanno inteso concordemente attuare al fine della regolazione dei rispettivi interessi – indizio sintomatico della esclusione di un abusivo squilibrio delle posizioni contrattuali delle parti, che potrebbe, invece, ravvisarsi nel caso in cui la predetta clausola, inserita nel complesso delle altre disposizioni contrattuali (accanto ad una clausola di recesso unilaterale posta a favore dell’assicuratore, nonchè ad altre clausole che stabiliscono termini di decadenza o particolari oneri a carico dell’assicurato), venga a realizzare “un sistema di restrizioni” delle condizioni di adempimento della obbligazione indennitaria talmente intenso da eludere sostanzialmente la stessa funzione causale del contratto, che, pertanto, verrebbe ad esaurirsi nella mera onerosità del premio anticipatamente corrisposto dall’assicurato e nella riduzione o addirittura nell’assenza dell’alea di rischio per l’assicuratore.
Il sistema assicurativo della responsabilità civile persegua “anche” un fondamentale interesse pubblico, attraverso “una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito” ed ancor più assolvendo alla funzione di garantire la reintegrazione dei pregiudizi subiti dai danneggiati, funzione che appare evidente nelle “assicurazioni sociali”, ma che trova attuazione anche nelle polizze RC private, atteso che la assunzione da parte delle imprese assicuratrici degli oneri economici gravanti sull’assicurato, in dipendenza della sua responsabilità civile, ridonda evidentemente nel generale affidamento dei terzi ingiustamente danneggiati sulla possibilità di ottenere il ristoro degli interessi lesi. Pur non potendo disconoscersi l’interesse superindividuale che è sotteso al sistema assicurativo della responsabilità civile, va, tuttavia, osservato che una valutazione in termini di validità della clausola “claims made” da effettuare in relazione ad i suoi riflessi sulla “causa concreta” del contratto assicurativo, non possa estendersi fino a riconsiderare tale funzione sociale, che costituisce il risultato terminale del funzionamento complessivo del sistema assicurativo della responsabilità civile, come criterio privilegiato ai fini della verifica di corrispondenza della compatibilità di efficienza della clausola in relazione al singolo programma negoziale voluto dalle parti od alla conservazione dell’equilibrio delle rispettive posizioni assunte dai contraenti; né pare consentito condurre la predetta verifica di validità della clausola in relazione alla causa concreta del negozio, attraverso una mera valutazione della convenienza economica dell’importo del premio rispetto al rischio assicurato, atteso che in tal modo verrebbe a compiersi una indebita invasione dell’ambito di autonomia negoziale dei privati.
Il giudizio di “tenuta” della clausola “claims made”, dovrà piuttosto estendersi al controllo delle complessive clausole del contratto assicurativo ed al risultato operativo finale che, dalla interpretazione sistematica delle stesse e dalla esecuzione in concreto attuata dai contraenti, viene ad emersione, risultato che dovrà essere, pertanto, valutato alla stregua del parametro fornito dalla effettiva funzionalità del modello – così in concreto individuato – a regolare gli interessi per la cura dei quali le parti hanno inteso definire il programma negoziale, venendo a tal fine in rilievo, come elemento unificante della verifica, la applicazione della clausola generale di buona fede (artt. 1366,1375 c.c.).

 

FATTI DI CAUSA
Con sentenza in data 19.10.2018 n. 6620, la Corte d’appello di Roma ha rigettato l’appello principale proposto da Generali Italia s.p.a. ed accolto l’appello incidentale proposto da Ospedale (OMISSIS), confermando la decisione del Tribunale di Civitavecchia n. 946/2014, che aveva condannato, in solido, la struttura sanitaria e la società assicurativa a risarcire il danno biologico, liquidato in Euro 112.737,00 oltre accessori, subito da M.A.M., in data (OMISSIS), in conseguenza della errata esecuzione di un intervento di endoscopia (esplorazione del colon e successiva biopsia), avendo il medico ospedaliero, per imperizia, determinato una perforazione intestinale che aveva costretto la paziente a sottoporsi, presso altro nosocomio, ad intervento chirurgico nel quale veniva asportata la milza e parte dell’intestino crasso, e quindi ad un successivo intervento di ileorettostomia, da cui erano derivati postumi invalidanti permanenti.
Il Giudice di appello ha confermato, con diversa motivazione, la decisione di prime cure, in punto di accertamento della nullità della clausola “claims made” apposta nella polizza assicurativa della responsabilità civile stipulata dall’Ospedale, discostandosi dalla qualificazione di vessatorietà della clausola compiuta dal primo Giudice, ritenendo invece di individuare gli elementi invalidanti della stessa nel “difetto di causa” e nella “contrarietà a norme imperative”.
La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata per cassazione da Generali Italia s.p.a. con ricorso affidato a cinque motivi.
Resistono con controricorso M.A.M. e l’Ospedale (OMISSIS).
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte.
La società ricorrente e l’Ospedale resistente hanno depositato memorie illustrative ex art. 380 bis.1. c.p.c..

 

RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società ricorrente deduce la violazione dell’art. 183 c.p.c., comma 5 e dell’art. 81 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte territoriale ammesso, oltre i termini perentori fissati nella fase di trattazione, la estensione della domanda risarcitoria, proposta dalla danneggiata, alla società assicurativa che era stata chiamata in garanzia impropria dall’ente ospedaliero convenuto, avendo la M. effettuato detta estensione soltanto con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5, anzichè immediatamente, durate la stessa prima udienza di trattazione, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 4 (con riferimento alla norma processuale nel testo applicabile ratione temporis, previgente alle modifiche introdotte, da ultimo, dal D.L. n. 273 del 2005, conv. in L. n. 51 del 2006).
Con il secondo motivo, si censura la sentenza di appello per vizio di omessa pronuncia su specifico motivo di gravame ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo dedotto la società assicurativa, con specifico motivo di appello principale, anche la eccezione di “difetto di legittimazione attiva” della danneggiata in ordine alla estensione della azione risarcitoria diretta svolta nei confronti dell’assicuratore, eccezione pregiudiziale che era stata già formulata, in primo grado, nella memoria di replica depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5 (nel testo applicabile ratione temporis, previgente alle modifiche introdotte, da ultimo, dal D.L. n. 273 del 2005, conv. in L. n. 51 del 2006). Il Giudice di appello ha limitato l’esame al solo aspetto della ritualità e tempestività della estensione della domanda al terzo chiamato, pretermettendo del tutto di esaminare l’altra eccezione pregiudiziale relativa alla carenza assoluta di legittimazione attiva.
Con il terzo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c. e degli artt. 1917, 1321, 1372 e 1411 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, formulando la medesima censura svolta con il precedente motivo, per il caso in cui si dovesse ritenere “implicitamente” decisa dalla Corte territoriale, e dunque rigettata, anche la questione del difetto di legittimazione attiva della danneggiata. La ricorrente evidenzia l’errore in diritto in cui è incorso il Giudice di merito, in quanto nella materia relativa alla responsabilità professionale sanitaria – anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dalla L. 8 marzo 2017, n. 24 – non vi era alcuna norma di legge che attribuisse alla parte danneggiata una “azione diretta” nei confronti dell’assicuratore della responsabilità civile professionale del soggetto autore della condotta dannosa, non ricorrendo, peraltro, alcun’altra ipotesi, prevista dal codice civile, che consenta al creditore di agire in giudizio sostituendosi al debitore-assicurato nelle azioni a questo spettanti nei confronti del proprio assicuratore della responsabilità civile (artt. 1272,1965 e 2900 c.c.).
I motivi possono essere esaminati congiuntamente.
Il secondo motivo è fondato e deve essere accolto, con conseguente assorbimento del primo e del terzo motivo.
Osserva il Collegio che l’omessa pronuncia avverso specifiche eccezioni fatte valere dalla parte, integrando una violazione dell’art. 112 c.p.c., costituisce una violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e non come violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nè tanto meno come vizio della motivazione (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 9159 del 24/06/2002; id. Sez. 2, Sentenza n. 12475 del 07/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 1755 del 27/01/2006; id. Sez. L, Sentenza n. 13482 del 13/06/2014). La violazione per omessa pronuncia non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione su un argomento che totalmente prescinda dalla censura o necessariamente ne presupponga l’accoglimento o il rigetto: infatti nel primo caso l’esame della censura è inutile, mentre nel secondo essa è stata implicitamente considerata (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 748 del 17/03/1971; id. Sez. 3, Sentenza n. 11756 del 19/05/2006).
Il principio tralatizio (Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1209 del 14/06/1965, massimata come capostipite dal CED della Corte di cassazione) secondo cui non è configurabile il vizio di omessa pronuncia o di omesso esame di un punto decisivo della controversia quando la soluzione negativa di una richiesta sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, con la quale venga accolta una tesi incompatibile con la richiesta stessa, non viene tuttavia in rilievo nella fattispecie in esame.
La questione della titolarità del diritto di azione nei confronti della società assicurativa chiamata in garanza impropria dall’assicurato-convenuto nel giudizio di responsabilità per danni, viene infatti a risolversi in una questione di merito (sottraendosi quindi al nesso di implicazione necessaria tra questioni pregiudiziali prospettato dalle parti resistenti e dal PG), richiedendo l’accertamento di quali siano i soggetti del rapporto di diritto sostanziale dedotto in giudizio, ossia della titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico avente ad oggetto la obbligazione risarcitoria e la correlativa pretesa esercitata con azione di condanna, dovendo ritenersi affermazione ormai acquisita che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva vantata in giudizio, è un elemento costitutivo della domanda, ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione della stessa, da parte del convenuto, con l’ulteriore corollario per cui, in quanto attinente alla fattispecie costitutiva del diritto, la carenza di titolarità attiva o passiva del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal Giudice, se risultante dagli atti di causa (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016).
Non essendo stata sottoposta al Giudice di appello – indipendentemente dal nomen juris attribuito dalle parti – la differente questione della verifica della “legitimatio ad causam”, questione pregiudiziale che, come è noto, deve essere esaminata alla stregua della mera prospettazione del diritto, come vantato in relazione ai fatti allegati, rilevabile dallo stesso contenuto dell’atto introduttivo, ne segue che, la risoluzione della “questione in rito” concernente la estensibilità della domanda introduttiva al terzo chiamato in causa soltanto con il deposito delle memorie di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5 (nel testo applicabile ratione temporis, previgente alle modifiche introdotte, da ultimo, dal D.L. n. 273 del 2005, conv. in L. n. 51 del 2006), viene a costituire, avuto riguardo all’ordine delle questioni da trattare indicato dall’art. 276 c.p.c., comma 2 (e richiamato dall’art. 281 bis c.p.c.), un “prius” nella relazione logica di pregiudizialità rispetto alla decisione della “questione di merito” afferente la titolarità del diritto al ristoro del danno nei confronti del terzo chiamato, che non può, allora, configurare un presupposto logico implicito della pronuncia di rigetto della eccezione di inammissibilità della estensione della domanda attorea.
Tanto premesso, osserva il Collegio che sulla specifica eccezione di merito, formulata dalla società assicurativa in primo grado, e quindi reiterata con il “primo motivo” di gravame (che viene riportato puntualmente nella sentenza di appello, in motivazione, alla pag. 7), il Giudice del gravame ha omesso del tutto di pronunciare, essendosi limitato ad esaminare soltanto la diversa questione concernente la tempestività della “estensione” nei confronti della terza chiamata della domanda originaria di condanna al risarcimento dei danni, proposta dalla parte attrice.
Il rilevato vizio di omessa pronuncia, tuttavia, secondo un consolidato principio di diritto, non determina per ciò stesso la cassazione della sentenza impugnata e la conseguente rimessione della causa al giudice di rinvio affinchè pronunci sulla questione pretermessa, allorquando la Corte, non occorrendo procedere a verifiche in fatto – essendo stata dedotta con il motivo di gravame una questione di mero diritto -, è posta in condizione di esaminare direttamente la questione pretermessa e di pronunciare su di essa nel merito, trovando fondamento tale conclusione nell’esercizio dei poteri conferiti alla Corte in funzione nomofilattica secondo una interpretazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, costituzionalmente orientata ai principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. (cfr. Corte Cass. II sez. 1.2.2010 n. 2313; id. I sez. 22.11.2010 n. 23581; id. sez. lav. 3.3.2011 n. 5139; id. Sez. 3, Sentenza n. 15112 del 17/06/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 28663 del 27/12/2013; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21257 del 08/10/2014; id. Sez. L, Sentenza n. 23989 del 11/11/2014 che estende l’intervento correttivo ex art. 384 c.p.c., u.c., finanche al vizio di nullità della sentenza impugnata per motivazione apparente).
Tanto premesso, la eccezione di merito è fondata.
La danneggiata ha svolto azione di responsabilità “ex contractu” nei confronti della struttura ospedaliera instando per il risarcimento dei danni derivati da inadempimento colposo della prestazione professionale di cura. A tale contratto di assistenza sanitaria (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 8826 del 13/04/2007: l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un “contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità”) rimane del tutto estraneo l’assicuratore della responsabilità civile, che ha assunto, esclusivamente nei confronti del proprio contraente assicurato (nella specie l’Ospedale), il vincolo contrattuale di rivalere quest’ultimo delle conseguenze patrimoniali pregiudizievoli derivanti dall’esercizio della propria attività.
Del tutto autonomi e distinti sono, infatti, i rapporti contrattuali instaurati, rispettivamente, dal paziente-danneggiato con la struttura ospedaliera, e da quest’ultima con il proprio assicuratore della responsabilità civile: ne segue che l’esperimento delle azioni derivanti da ciascun contratto non possono che dirigersi nei confronti della sola parte contraente destinataria delle obbligazioni scaturenti da quel medesimo contratto, e dunque non possono essere dirette nei confronti di soggetti terzi rispetto ai quali quel contratto non ha forza di legge ex art. 1372 c.c.. La circostanza che tali soggetti terzi siano a loro volta legati da altri vincoli negoziali alla parte destinataria dell’azione principale ex contractu, non comporta – quando anche si possa giustificare la trattazione simultanea delle cause nel medesimo giudizio, per ragioni di connessione – la “confusione” dei due rapporti obbligatori, che permangono distinti ed autonomi negli elementi costitutivi e quanto alle vicende che attengono ciascuno di essi. Nè è dato ravvisare una autonoma responsabilità di natura extracontrattuale per atto illecito del terzo chiamato, lesivo dei diritti dell’attore-danneggiato, che si affianca, concorrendo ai sensi dell’art. 2055 c.c., con la condotta dell’autore del danno, convenuto in giudizio nel rapporto principale.
La estensione della domanda risarcitoria – formulata dalla M. – nei confronti dell’Ospedale, non può dunque trovare titolo nel mero atto di chiamata in causa, notificato dall’Ospedale al proprio assicuratore della RC, avuto riguardo al differente rapporto giuridico di diritto sostanziale (contratto di spedalità – contratto di assicurazione) in relazione al quale trovano, rispettivamente, fondamento la domanda di condanna al risarcimento del danno e la domanda (condizionata) di condanna all’adempimento
dell’obbligazione indennitaria. Va dunque ribadito il principio secondo cui, in tema di assicurazione della responsabilità civile, il danneggiato non può agire direttamente nei confronti dell’assicuratore del responsabile del danno (salvi i casi eccezionalmente previsti dalla legge), atteso che egli è estraneo al rapporto tra il danneggiante-assicurato e l’assicuratore dello stesso, nè può trarre alcun utile vantaggio da una pronuncia che estenda all’assicuratore gli effetti della sentenza di accertamento della responsabilità, anche quando l’assicurato chieda all’assicuratore di pagare direttamente l’indennizzo al danneggiato, attenendo detta richiesta alla modalità di esecuzione della prestazione indennitaria (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15039 del 15/07/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 5306 del 08/03/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 28834 del 05/12/2008).
Soltanto l’assicurato è legittimato, pertanto, ad agire nei confronti dell’assicuratore, e non anche il terzo-danneggiato, nei confronti del quale l’assicuratore non è tenuto per vincolo contrattuale, nè a titolo di responsabilità aquiliana (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9516 del 20/04/2007). L’accoglimento della eccezione di merito, pretermessa dal Giudice di appello, non richiede la rimessione della causa al Giudice del rinvio, potendo la causa essere decisa nel merito da questa Corte, ex art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda di condanna al risarcimento danni proposta dalla M. nei confronti della società assicurativa.
Con il quarto motivo la società ricorrente deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c., comma 1, artt. 1418,1375, e 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, impugnando la statuizione della sentenza che ha dichiarato la nullità della “clausola claims made” prevista dall’art. 5 CGC della polizza assicurativa, per “difetto di causa” e “contrarietà a norme
imperative”. Sostiene la società ricorrente che il Giudice di merito ha richiamato in modo erroneo i principi enunciati in materia dal Giudice di legittimità, omettendo di considerare che, escluso che debba procedersi ad un giudizio di meritevolezza da compiersi ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2, rispetto a modifiche dello schema assicurativo che non comportano alterazioni degli elementi fondamentali del “tipo” e della causa astratta, la verifica di tenuta delle modifiche apportate con le singole clausole negoziate deve allora essere condotta alla stregua della “causa concreta”, ossia della adeguatezza dei mezzi apprestati dal contratto alla soddisfazione degli interessi perseguiti dai contraenti, nonchè del rispetto dei limiti imposti dalla legge (art. 1322 c.c., comma 1).
Con il quinto motivo la ricorrente censura la sentenza di appello nella parte in cui, espunta dalla polizza la clausola “claims made” ritenuta affetta da nullità, ha poi applicato al contratto assicurativo il principio della “loss occurence” ex art. 1917 c.c..
Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale, dopo aver dichiarato nulla la clausola “claims made” ex art. 1419 c.c., ha poi del tutto illegittimamente abdicato all’onere che le incombeva di rideterminare l’assetto negoziale, eliminando lo squilibrio tra le posizioni delle parti contraenti, ed ha immotivatamente ed illogicamente applicato al contratto assicurativo il regime della “loss occurence” di cui all’art. 1917 c.c., comma 1, che le parti avevano invece, fino dall’origine, concordemente inteso escludere.
Il quarto motivo è inammissibile, mentre deve ritenersi fondato il quinto motivo.
Dopo alcuni contrasti emersi nella giurisprudenza di legittimità la questione concernente la validità della clausola “claims made” apposta nelle polizze assicurative della responsabilità civile, è stata definitivamente risolta dalle Sezioni Unite che hanno statuito il principio – massimato dal CED della Corte secondo cui “nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola “claims made” mista o impura), non è vessatoria, ma, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero – ove applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 206 del 2005 – per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 9140 del 06/05/2016), ulteriormente specificato nella enunciazione del principio per cui “il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917 c.c., comma 1, consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 1, della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 22437 del 24/09/2018).
Gli arresti indicati hanno preso atto della evoluzione della prassi di settore, che aveva ricevuto, peraltro, il crisma normativo in plurimi e recenti interventi legislativi i quali, come è stato rilevato dalle Sezioni Unite, avevano semplicemente “recuperato nel substrato della realtà materiale socioeconomica una regolamentazione giuridica pattizia già diffusa nel settore assicurativo”, che aveva preso atto della inadeguatezza, in particolare nelle ipotesi di sinistri produttivi di danni cd. “Iungolatenti”, del principio della “boss occurrence” contemplato dall’art. 1917 c.c., comma 1, apportandovi le deroghe consentite dall’art. 1932 c.c. (cfr. Corte cass. SSUU n. 22437/18 cit., in motiv. pag. 21), e venendo in tal modo a ridefinire “i modi ed i limiti” stabiliti dal contratto assicurativo, attraverso una delimitazione dell’oggetto del contratto, piuttosto che attraverso la introduzione di limiti alla responsabilità dell’assicuratore (cfr. Corte Cass. SSUU n. 9140/16 cit. in motiv. pag. 12).
La clausola “claims made” (sia nella forma cd. “pura” – estesa ai fatti commessi anteriormente all’inizio di efficacia della polizza -; sia nella forma cd. “impura” o “mista” – che subordina la copertura assicurativa alla contestuale occorrenza, nel periodo di vigenza della polizza, tanto del sinistro, quanto della richiesta di risarcimento del danno -) ha trovato, infatti, fondamento normativo: nel D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5, lett. e), convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 (come modificato dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 26), recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” (la norma, imponendo l’obbligo assicurativo agli esercenti le professioni liberali, dispone che le proposte delle società assicurative debbono contenere “l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura.”); nel D.M. Giustizia 22 settembre 2016, recante il regolamento, autorizzato dalla L. 31 dicembre 2012, n. 241, art. 12, comma 5 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), che, all’art. 2, comma 1, prescrive: “l’assicurazione deve prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata ed una ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l’attività nel periodo di vigenza della polizza”; ed ancora nella L. 8 marzo 2017, n. 24, “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” che, all’art. 11 dispone: “La garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purchè denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza. In caso di cessazione definitiva dell’attività professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura. L’ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta”.
Vengono a cadere, dunque, tutte le obiezioni pregiudiziali di vessatorietà-invalidità mosse alla ridetta clausola che ha trovato ormai un assetto normativo tipizzato ritenuto dal Legislatore conforme allo schema del contratto assicurativo.
Nella clausola “claims made pura”, infatti, la maggiore alea per l’assicurato di vedersi non indennizzati i sinistri che vengono a verificarsi in prossimità della scadenza della polizza (qualora entro tale termine non venga altresì formulata la richiesta risarcitoria), viene ad essere compensata dalla maggiore alea che grava sull’assicuratore per eventuali richieste risarcitorie presentate dopo l’inizio della efficacia del contratto, per sinistri occorsi anteriormente ad essa: non risultando in tal modo alterato il sinallagma delle prestazioni a carico dei contraenti. Al riguardo osserva il Collegio che il modello della clausola in questione, comunemente utilizzato nella prassi assicurativa, può venire ad articolarsi secondo lo schema, tanto della “retroattività” (fatti dannosi già accaduti prima della stipula del contratto), quanto della “ultrattività” (fatti dannosi che si verificheranno dopo la scadenza del termine di durata del contratto).
La previsione del fatto-sinistro e del suo riferimento cronologico non esaurisce, tuttavia, la fattispecie cui è collegata la insorgenza del diritto ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli della responsabilità civile, venendo ad essere richiesto anche l’ulteriore elemento (esterno alla sfera di controllo dei contraenti, come tale incerto e per ciò idoneo a rendere compatibile la clausola “claims made” con lo schema causale del contratto assicurativo delineato nell’art. 1895 c.c.) della manifestazione del diritto al risarcimento del danno esercitato dal terzo danneggiato. Ma è proprio l’elemento aleatorio costituito dalla incertezza della richiesta risarcitoria che viene ad essere temporalmente circoscritto in tali clausole, così da consentire all’assicuratore di meglio calibrare il proprio impegno nel tempo (in relazione all’accantonamento delle riserve necessarie a fare fronte a richieste pervenute,
– per fatti verificatisi nel periodo di vigenza della polizza, anche a notevole distanza di tempo dalla cessazione del rapporto di garanzia: art. 2952 c.c., comma 3) e, correlativamente, di definire con maggiore precisione il premio assicurativo (in relazione alla limitazione temporale della possibile verificazione del rischio), con beneficio anche per l’assicurato.
E tale migliore definizione delle prestazioni dei contraenti (volta a garantire una misura del premio quanto più corrispondente alla entità del rischio assunto), viene a costituire – nel giudizio demandato al Giudice di merito, non più sulla compatibilità della clausola “claims made”, in sè considerata, con la struttura del “tipo” negoziale della assicurazione della responsabilità civile, ma sulla “tenuta” di tale clausola rispetto al complessivo programma che le parti hanno inteso concordemente attuare al fine della regolazione dei rispettivi interessi – indizio sintomatico della esclusione di un abusivo squilibrio delle posizioni contrattuali delle parti, che potrebbe, invece, ravvisarsi nel caso in cui la predetta clausola, inserita nel complesso delle altre disposizioni contrattuali (accanto ad una clausola di recesso unilaterale posta a favore dell’assicuratore, nonchè ad altre clausole che stabiliscono termini di decadenza o particolari oneri a carico dell’assicurato), venga a realizzare “un sistema di restrizioni” delle condizioni di adempimento della obbligazione indennitaria talmente intenso da eludere sostanzialmente la stessa funzione causale del contratto, che, pertanto, verrebbe ad esaurirsi nella mera onerosità del premio anticipatamente corrisposto dall’assicurato e nella riduzione o addirittura nell’assenza dell’alea di rischio per l’assicuratore.
Non vi è dubbio che – come evidenziato da Corte Cass. SSUU n. 22437/18 cit. – il sistema assicurativo della responsabilità civile persegua “anche” un fondamentale interesse pubblico, attraverso “una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito” ed ancor più assolvendo alla funzione di garantire la reintegrazione dei pregiudizi subiti dai danneggiati, funzione che appare evidente nelle “assicurazioni sociali”, ma che trova attuazione anche nelle polizze RC private, atteso che la assunzione da parte delle imprese assicuratrici degli oneri economici gravanti sull’assicurato, in dipendenza della sua responsabilità civile, ridonda evidentemente nel generale affidamento dei terzi ingiustamente danneggiati sulla possibilità di ottenere il ristoro degli interessi lesi.
Tuttavia, pur non potendo disconoscersi l’interesse superindividuale che è sotteso al sistema assicurativo della responsabilità civile, osserva il Collegio che una valutazione in termini di validità della clausola “claims made” da effettuare in relazione ad i suoi riflessi sulla “causa concreta” del contratto assicurativo, non possa estendersi fino a riconsiderare tale funzione sociale, che costituisce il risultato terminale del funzionamento complessivo del sistema assicurativo della responsabilità civile, come criterio privilegiato ai fini della verifica di corrispondenza della compatibilità di efficienza della clausola in relazione al singolo programma negoziale voluto dalle parti od alla conservazione dell’equilibrio delle rispettive posizioni assunte dai contraenti; né pare consentito condurre la predetta verifica di validità della clausola in relazione alla causa concreta del negozio, attraverso una mera valutazione della convenienza economica dell’importo del premio rispetto al rischio assicurato, atteso che in tal modo verrebbe a compiersi una indebita invasione dell’ambito di autonomia negoziale dei privati.
Il giudizio di “tenuta” della clausola “claims made”, dovrà piuttosto estendersi al controllo delle complessive clausole del contratto assicurativo ed al risultato operativo finale che, dalla interpretazione sistematica delle stesse e dalla esecuzione in concreto attuata dai contraenti, viene ad emersione, risultato che dovrà essere, pertanto, valutato alla stregua del parametro fornito dalla effettiva funzionalità del modello – così in concreto individuato – a regolare gli interessi per la cura dei quali le parti hanno inteso definire il programma negoziale, venendo a tal fine in rilievo, come elemento unificante della verifica, la applicazione della clausola generale di buona fede (artt. 1366,1375 c.c.).
Pertanto, correttamente la Corte d’appello è andata in diverso avviso del primo Giudice escludendo la natura vessatoria della clausola “claims made”, non integrando tale disposizione negoziale una limitazione di responsabilità (non venendo in questione la misura della prestazione reintegratoria del danno cui è tenuto il contraente inadempiente per colpa alla obbligazione dedotta in contratto), dovendo riconoscersi all’ulteriore elemento della presentazione della richiesta del danneggiato nel corso del periodo di durata della garanzia, previsto per l’attivazione della copertura assicurativa, piuttosto la funzione di una delimitazione del rischio incidente sull’oggetto del contratto.
La Corte territoriale ha, invece, ravvisato il difetto causale (mentre nella motivazione della sentenza non vi sono elementi argomentativi a supporto della pur affermata nullità della clausola per “contrarietà a norma imperativa”) nella oggettiva e concreta difficoltà impeditiva dell’accesso dell’assicurato alla prestazione indennitaria, determinata dalla struttura della specifica clausola (trascritta nella sentenza di appello a pag. 8-9 della motivazione: la garanzia è concessa “per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta nel corso del periodo di efficacia della assicurazione stessa a condizione che tali richieste siano conseguenti a fatti colposi posti in essere durante il periodo di validità della garanzia e quindi non in data antecedente l’effetto della presente polizza. L’assicurazione vale, altresì, per i danni derivanti da comportamento colposo posti in essere durante il periodo di validità del contratto, denunciati alla società entro dodici mesi dalla cessazione del contratto stesso”), avendo ritenuto che l’inserimento dell’ulteriore onere, per l’assicurato, di denunciare il sinistro entro l’anno successivo alla scadenza della polizza, in aggiunta alle altre condizioni concorrenti della verifica del sinistro e della presentazione della richiesta da parte del danneggiato entro il periodo di durata del contratto, vanificassero a tal punto l’alea riconducibile alle modalità esecutive del contratto, da azzerare sostanzialmente il rischio di insorgenza della obbligazione indennitaria a carico dell’assicuratore, venendo meno la stessa causa di scambio del negozio.
La Corte d’appello ha quindi compiuto una verifica della tenuta strutturale della clausola rispetto alla tipologia dei rischi assicurati (dipendenti dai danni cagionati da responsabilità professionale dei medici ospedalieri), affidandola ai seguenti rilievi critici:
– la durata annuale del contratto non consentirebbe, in presenza anche della indicata condizione di presentazione della richiesta risarcitoria nel corso del medesimo anno, adeguata copertura dei danni lungolatenti, peculiari alle specifiche condotte professionali che si intendevano assicurare, in quanto per dato di esperienza acquisito tali danni possono venire ad emersione anche a notevole distanza di tempo;
– la “denuncia” della quale è onerato l’assicurato nel periodo di ultrattività, integrerebbe una condizione aggiuntiva concorrente alle altre, e dunque sarebbe volta esclusivamente a porre un ulteriore limite al pagamento dell’indennizzo;
– la clausola di recesso “ad nutum”, a favore dell’assicuratore, esercitabile già in seguito alla prima denuncia di sinistro, costituirebbe ulteriore delusione della funzione economico-sociale del contratto, squilibrando nettamente a favore dell’assicuratore i vantaggi del contratto;
– tutti gli elementi sopra considerati ridurrebbero a tal punto il rischio assicurato, e la effettiva possibilità del contraente-assicurato di ottenere l’indennizzo, da consentire alla società assicurativa di lucrare il premio senza assunzione di un rischio effettivo.
– A tale accertamento in fatto, la ricorrente oppone che:
– la durata del contratto, e l’ambito oggettivo del rischio assicurato, sono tutte scelte rimesse alla discrezionalità delle parti contraenti o;
– il Giudice di appello non aveva considerato che il premio era irrisorio pari ad Euro 10.000,00;
– l’Ospedale aveva negoziato la polizza tramite un suo Broker e quindi non poteva allegare di essere stato indotto in errore quale soggetto sprovveduto;
– la scelta delle condizioni di polizza era stata dettata anche: 1- dalla “natura e volume delle prestazioni svolte e dalla ingente sinistrosità pregressa” e 2- dalla continuità ininterrotta con le pregresse garanzie assicurative.
La censura così svolta è inammissibile, in quanto esula del tutto dal paradigma del vizio di legittimità denunciato (error juris) per travalicare nella contestazione della valutazione delle risultanze istruttorie, sindacabile soltanto nei limiti consentiti dal vizio di “error facti” come delineato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo riformato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis), difettando, inoltre, di qualsiasi supporto argomentativo la critica secondo cui il Giudice territoriale avrebbe operato un giudizio di meritevolezza anzichè una verifica della causa concreta, condotta alla stregua della incidenza concreta della clausola sulla effettiva attuabilità del programma negoziale e su una equilibrata giustificazione delle condizioni di vantaggio-svantaggio riferibili alla posizione di ciascuno dei contraenti. Tanto a prescindere dalla introduzione, nel motivo di ricorso, di allegazioni in fatto peraltro indimostrate e che questa Corte non può comunque accertare autonomamente (criteri di calcolo dell’importo del premio) od irrilevanti rispetto alla “ratio decidendi” investita dalla impugnazione (l’induzione in errore del contraente assicurato non ha costituito oggetto di discussione, nè risulta essere stata posta a fondamento della decisione), od ancora involgenti una critica totalmente diversa da quella individuata dalla rubrica, e che allora avrebbe dovuto essere correttamente svolta sotto il diverso profilo della errata applicazione delle norme di legge che disciplinano i criteri ermeneutici degli atti negoziali (così sembra doversi intendere la differente “lettura” della clausola, effettuata dalla società assicurativa alla pag. 25 del ricorso, là dove assume che erano garantiti anche i sinistri per i quali la “richiesta del danneggiato” fosse pervenuta nell’anno successivo alla scadenza contrattuale, così interpretando il significato del lessema “denuncia” contenuto nella clausola).
Il quinto motivo appare, invece, fondato.
La Corte d’appello, dopo aver dichiarato nulla la clausola “claims made”, ha poi automaticamente applicato al contratto assicurativo il regime della “loss occurence” di cui all’art. 1917 c.c., comma 1, essendosi illegittimamente astenuta dall’integrare, come affermano le Sezioni Unite n. 22437 del 2018, lo statuto negoziale secondo il meccanismo previsto dall’art. 1419 c.c., ossia avendo omesso di riportare ad equilibrio ciò che le parti contraenti avevano effettivamente voluto e che non poteva certo essere ricondotto alla realizzazione di un differente programma, fondato su uno schema negoziale (quello proprio dell’art. 1917 c.c.) che le parti avevano voluto, invece, espressamente emendare e modificare.
Il Giudice territoriale avrebbe, infatti, dovuto indagare tra i differenti modelli di clausola “claims made” rinvenibili nell’ordinamento, ed individuare quello ritenuto maggiormente compatibile alla realizzazione di un equilibrato assetto degli interessi dei contraenti, così riadeguando le condizioni di polizza in funzione della causa concreta, tenendo conto anche di tutti gli altri elementi (ulteriori clausole delle CGC; criterio di calcolo dell’importo del premio; durata di efficacia del contratto; sinistrosità pregressa, ulteriori coperture assicurative, ecc.), a condizioni operative compatibili con gli interessi perseguiti al momento della stipula dai soggetti contraenti, così da salvaguardare una causa del contratto funzionale alla volontà delle parti di concordare una prestazione assicurativa che contemplasse un rischio contraddistinto dal duplice elemento della verificazione del sinistro e della richiesta risarcitoria pervenuta dal danneggiato.
Il Giudice di appello è venuto a “sostituire” ad un contratto assicurativo “claims made” un contratto tipico assicurativo della responsabilità civile, prevaricando la autonomia negoziale e venendo in tal modo a costituire ex novo il regolamento contrattuale che risulta pertanto essere fondato su di un accordo inesistente, venendo quindi illegittimamente ad incidere sulla stessa fonte genetica del rapporto obbligatorio.
La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione al motivo accolto, e la causa va rimessa al Giudice del rinvio affinchè provvedeva a nuovo giudizio in ordine alla ricostruzione della effettiva volontà negoziale delle parti, emendata dalla struttura della clausola “claims made” ritenuta incompatibile con la “causa concreta” del negozio assicurativo.
In conclusione il ricorso deve essere accolto quanto al secondo e quinto motivo; assorbiti i motivi primo e terzo, inammissibile il quarto motivo; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa
relativamente al rapporto tra M.A.M. e Generali Italia s.p.a. può essere decisa nel merito da questa Corte, ex art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda di condanna al risarcimento danni proposta dalla M. nei confronti della società assicurativa.
relativamente al rapporto assicurativo tra Ospedale (OMISSIS) e Generali Italia s.p.a. va, invece, rinviata alla Corte d’appello di Roma, per nuovo giudizio.
Avuto riguardo alla data di introduzione della lite, sussistono giusti motivi per la integrale compensazione delle spese dell’intero giudizio tra M.A.M. e Generali Italia s.p.a..

 

P.Q.M.
accoglie il secondo ed il quinto motivo di ricorso; dichiara inammissibile il quarto motivo di ricorso; dichiara assorbiti il primo ed il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti;
decide nel merito la causa tra M.A.M. e Generali Italia s.p.a., e rigetta la domanda di condanna al risarcimento danni proposta dalla M. nei confronti della società assicurativa, dichiarando integralmente compensate tra le parti le spese dell’intero giudizio;
rinvia la causa, relativa al rapporto assicurativo tra Ospedale (OMISSIS) e Generali Italia s.p.a., alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2021