ALLE SEZIONI UNITE LA QUESTIONE DELLA NULLITA’ DELLA DONAZIONE DI BENI ALTRUI

Va rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa alla validità di un ben comune indiviso (e parzialmente atrui) trattandosi di stabilire se a tale negozio si estende la comminatoria di nullità prevista dall’art. 771 c.c. per la donazione di beni futuri.

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve essere dapprima esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla M. nel controricorso e fondata sulle modalità di redazione dell’atto, che non rispetterebbe il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero della sommaria esposizione dei fatti di causa.

L’eccezione non è fondata, in quanto, in linea con l’orientamento espresso da questa Corte, il ricorso in esame contiene una esposizione chiara ed esauriente, potrebbe dirsi persino analitica e particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale risultano le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alle posizioni avversarie, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamente erronea, compiuta dal giudice di merito (v. Cass. n. 7825 del 2006; Cass. n. 12688 del 2007; conformi a tale orientamento appaiono anche le sentenze nn. 16315 del 2007 e 15808 del 2008).

L’atto dunque soddisfa il requisito di cui al citato art. 366 c.p.c..

n. 3, che va letto alla luce del principio di autosufficienza del ricorso, il quale impone che esso contenga tutti gli elementi necessari per porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (ex multis, Cass. 4 aprile 2006 n. 7825; Cass. 23 gennaio 2009 n. 1707).

Quanto all’ulteriore profilo di inammissibilità del ricorso, posto dalle S. in controricorso, per pretesa acquiescenza prestata dai ricorrenti alla sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria per avere svolto attività incompatibili con la volontà di contrastare gli effetti giuridici della pronunzia (partecipazione attiva alla valutazione dei beni ereditari ed alla formulazione della proposta di divisione dei medesimi beni), questa Corte ha in più occasioni enunciato il principio – condiviso dal Collegio – secondo cui l’acquiescenza contemplata dall’art. 329 c.p.c., opera come preclusione rispetto ad una impugnazione non ancora proposta, mentre nell’ipotesi in cui la sentenza sia già stata impugnata è possibile avvalersi soltanto di una espressa rinunzia all’impugnazione stessa, da compiersi nelle forme e con le modalità prescritte dalla legge (Cass. 14 giugno 1990 n. 5802; Cass. 14 giugno 1995 n. 6698; Cass. 27 gennaio 1998 n. 801; Cass. SS.UU. 12 gennaio 1999 n. 763).

Orbene dalle stesse ammissioni delle controricorrenti, emerge che i C. nel verbale di udienza del 24.9.2007 hanno precisato di avere fatto riserva quanto ai diritti di cui alla pronuncia parziale della medesima Corte. In questo quadro, ove i ricorrenti si sono meramente adeguati alle statuizioni di detta sentenza (Cass. n. 11803 del 1998 e SS.UU. n. 10112 del 1993), per prendere parte fattivamente alla prosecuzione delle operazioni di divisione, lasciando impregiudicato ogni loro diritto (non potendo certo definirsi di stile la riserva, come vorrebbero le S.), appare inconsistente la formulata ipotesi dell’acquiescenza che resta correlata indefettibilmente all’emergere di univoca volontà abdicativa, nella specie, e per le esposte premesse, da escludere recisamente.

Possono quindi essere esaminati i motivi del ricorso, in quanto della richiesta dei C. ex art. 376 c.p.c., comma 2, si dirà di seguito.

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 168 c.p.c. e art. 347 c.p.c., comma 3, artt. 36 e 123 bis disp. att. c.p.c., oltre ad insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata acquisizione del fascicolo di ufficio della prima fase di merito, nonchè insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione ed omessa motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio quale conseguenza del mancato esame dell’atto di donazione dichiarato nullo, seppure inserito nel fascicolo di ufficio e nei fascicoli di parte del giudizio di primo grado, stante la mancata acquisizione dei fascicoli del giudizio di primo grado da parte della stessa corte di merito, costituendo una facoltà del giudice di secondo grado il richiederli a norma dell’art. 347 c.p.c.. A corollario del motivo è posto il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se effettivamente la mancata acquisizione d’ufficio e dei fascicoli di parte, ancorchè rappresentante un error in procedendo per violazione delle norme processuali sopra citate, rilevante in sè ai fini della decisione dell’appello, implichi anche la menomabilità del diritto di difesa e, quindi, comporti un vizio di motivazione della sentenza, secondo l’indirizzo consolidato della Suprema Corte di Cassazione”.

La censura è, per certi aspetti inammissibile, per altri infondata.

Mette conto evidenziare che il giudice di appello, occupandosi della mancata acquisizione del fascicolo di primo grado, ha osservato che essa non appariva di ostacolo alla possibilità di decidere la controversia, posto che il contenuto dell’atto di liberalità era puntualmente e testualmente riportato nella sentenza impugnata e negli scritti difensivi, e non essendovi contestazione sul punto fra le parti, rilevando solo la sua efficacia nell’ambito della richiesta divisione. A fronte di tale impianto motivazionale, le critiche dei ricorrenti appaiono anzitutto eccentriche rispetto alle argomentazioni svolte, in parte qua, nella sentenza impugnata. Esse attengono, infatti, alla mancata acquisizione del fascicolo di ufficio del primo grado tout court, che è problematica superata dal dibattito processuale, per come riportato nella sentenza impugnata.

Nessun rilievo viene invece avanzato nei confronti della vera ratio decidendi della statuizione impugnata, e cioè l’inutilità dell’acquisizione del fascicolo d’ufficio, e quindi l’insussistenza della necessità di insistere perchè ne venisse disposta la trasmissione, essendo controverso tra le parti non già il contenuto dell’atto, del resto ampiamente riportato nella sentenza impugnata, ma la sola valutazione dello stesso. A ciò aggiungasi che il convincimento espresso dalla Corte territoriale costituisce coerente e corretta applicazione del principio per cui l’acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., è affidata all’apprezzamento discrezionale del giudice dell’impugnazione, con la conseguenza che l’omessa acquisizione, cui non consegua un vizio del procedimento di secondo grado nè della relativa sentenza, può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione solo ove si adduca che il giudice di appello avrebbe potuto o dovuto trarre dal fascicolo stesso elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non rilevabili aliunde, e specificamente indicati dalla parte interessata (Cass. 23 novembre 2007 n. 24437).

Si prestano a essere esaminati congiuntamente, per la loro evidente connessione (giacchè sotto prospettive diverse censurano l’estensione del divieto di cui all’art. 771 c.c.), i successivi tre motivi di ricorso.

Con il secondo motivo è dedotto il vizio di motivazione per essere stati riportati nella sentenza del giudice di primo grado solo alcuni stralci dell’atto di donazione, per cui il convincimento del giudice di appello sarebbe il frutto di una presunzione che sarebbe non vera essendo il tenore della donazione molto più esteso rispetto ai brani esaminati in sede di gravame. Prosegue parte ricorrente che la lettura integrale dell’atto di liberalità consentirebbe di rilevare che oggetto della donazione sarebbe rappresentato in parte diritto propriò, ossia 1/3 della comproprietà degli immobili di cui C. F. era titolare in modo esclusivo, per avere ciascuno dei fratelli C.F., C.P. e C.G., la piena disponibilità di una quota pari ad 1/3 degli immobili di cui al rogito; “in parte per essere a lui pervenuta dalla eredità del fratello C.P.”, circostanza di cui non vi è alcun cenno nella sentenza impugnata ed anzi sarebbero stati inspiegabilmente accomunati entrambi i diritti in una indistinta “quota ereditaria”.

Con il terzo motivo è denunciata la violazione degli artt. 769 e 771 c.c. in combinato disposto con l’art. 1103 c.c., oltre ad illegittimità per difetto di motivazione ed errata valutazione dei presupposti di fatto per non avere i giudici di merito riconosciuto che C.F. poteva validamente donare al nipote la quota di proprietà di cui era esclusivo titolare con riferimento all’immobile di via (OMISSIS), essendo tale bene nella sua piena disponibilità, potendo essere le argomentazioni del Tribunale riferite semmai alla residua quota di 1/12 pervenuta al donante per successione ereditaria dal fratello C.P.. A conclusione del mezzo viene posto il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se il divieto di cui all’art. 771 c.c. può essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il donante è titolare in comunione ordinaria con i propri fratelli”.

Con il quarto motivo è lamentata la violazione ed erronea applicazione degli artt. 771 e 769 c.c. in combinato disposto con gli artt. 1103 e 757 c.c., nonchè carenza assoluta di motivazione, per avere ritenuto i giudici di merito “beni altrui”, fino al momento della divisione, anche i beni in comproprietà ordinaria, ciò in aperto contrasto con i principi che regolano l’istituto della comproprietà e dell’art. 1103 c.c. che sancisce il principio della piena disponibilità dei beni in comproprietà nei limiti della quota di titolarità del disponente. Ad avviso dei ricorrenti eguali considerazioni varrebbero anche per la ed. quota ereditaria. Viene, infine, criticata la conclusione del giudice di merito circa l’irrilevanza della qualificazione della fattispecie quale condizione sospensiva, ritenendo che la divisione dei beni ereditari, seppure avvenga dopo il decesso di uno dei coeredi, non cancella i diritti nascenti sui beni ereditari. Il motivo culmina nel seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se l’art. 771 c.c. può essere legittimamente interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei “beni futuri” con quella dei “beni altrui”.

La questione risolta dalla Corte di appello attiene alla proprietà della quota del fabbricato comune (sito in (OMISSIS)) appartenente a C.F., di cui egli era titolare, in parte, in proprio, per averlo costruito in comune con i fratelli C.P. e C.G., ed in parte per eredità pervenutagli dal fratello C.P., premorto, e da questi donata – a titolo di nuda proprietà, riservando a sè l’usufrutto – al nipote C.N., individuando nell’atto pubblico la quota del bene rimasto sempre in comunione con riferimento ai due appartamenti posti al secondo piano dell’edificio, da sempre occupati dal donante (come del resto dagli altri due originari comproprietari per le rispettive quote).

A fronte di siffatta situazione – nell’ambito del giudizio di scioglimento dei compendi ereditari – i giudici di merito hanno accertato la nullità dell’atto di donazione con riferimento agli artt. 769 e 771 c.c., sull’assunto che la donazione può avere ad oggetto esclusivamente beni facenti parte del patrimonio del donante al momento del compimento dell’atto di liberalità, tali non potendosi ritenere quelli di cui egli era comproprietario prò indiviso.

Invero l’art. 769 c.c. definisce la donazione come il “contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto” ed il nostro codice -segnando il mutamento rispetto al regime precedente – ha assoggettato la donazione al principio consensualistico (salvo il caso di donazione manuale: art. 783 c.c.), il quale comporta che tutti i contratti diretti a promuovere uno spostamento patrimoniale sono contratti con efficacia reale, cioè idonei a produrre il trasferimento, o immediatamente o in quanto integrati da un fatto o atto successivo.

Ciò nonostante, svalutando il mutamento degli indici normativi del codice del 1942, si è ritenuta di attualità la regola dello spoglio, tratto caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, il quale implica il requisito dell’appartenenza del diritto al patrimonio del donante al momento del contratto, ossia, come precisa l’inciso della citata disposizione, l’arricchimento realizzato mediante disposizione di un “suo diritto” (così Cass. 5 maggio 2009 n. 10356; più di recente Cass. 23 maggio 2013 n. 12782).

Nella medesima direzione si è mossa la – peraltro scarsa – giurisprudenza in materia, nel dichiarare la nullità di ogni donazione di bene altrui. Così Cass. 20 dicembre 1985 n. 6544, che ha affermato l’invalidità di un bene altrui facendo leva sull’accezione soggettiva della futurista di cui all’art. 771 c.c..

La interpretazione analogica dell’art. 771 c.c. ricorre anche in Cass. 18 dicembre 1996 n. 11311, che ha dichiarato la nullità della donazione da parte della pubblica amministrazione di un’area che la stessa si impegnava ad espropriare. Al predetto indirizzo si sono contrapposte le opinioni espresse da molta parte della dottrina, valorizzando una lettura dell’art. 769 c.c. che tenga conto della sua seconda parte, laddove consente l’arricchimento della parte donataria “assumendo verso la stessa un’obbligazione”. In tale solco logico sembra collocarsi Cass. 5 febbraio 2001 n. 1596, che ha considerato separatamente la disposizione di beni futuri da quella di beni altrui, statuendo che la donazione di cosa altrui non deve reputarsi nulla, bensì semplicemente inefficace – data la lettura e la natura eccezionale dell’art. 771 c.c. – da cui si è fatto discendere la sua idoneità a valere quale titolo per l’usucapione immobiliare abbreviata. In sintesi, con la citata sentenza questa Corte ebbe modo di precisare che anche la donazione di cosa altrui – inefficace, ma valida – vantava l’idoneità traslativa pretesa dalla norma, anche se a rigore sembra opportuna una lettura restrittiva del precedente, emergendo non la validità di qualsiasi donazione di cosa altrui, ma soltanto di quella concepita dalle parti come donazione di cosa propria del donante, l’unica suscettibile di concorrere all’usucapione.

Il problema di non poco conto che si intreccia con i diversi argomenti posti a fondamento delle differenti soluzioni attiene alla più generale questione della ratio della disposizione di cui all’art. 771 c.c.: se intende propriamente evitare un eccessivo depauperamento del donante, come parrebbe delinearsi nelle ultime pronunce, ovvero non consentire di derivare ex lege l’obbligazione di procurare l’acquisto del bene dal terzo al donatario quanto l’acquisto della proprietà non sia effetto immediato del consenso legittimamente manifestato dalle parti, che alluderebbe ad un difetto (eventualmente temporaneo) di legittimazione a disporre, come sembra valutato dalla pronuncia del 2001.

E’ evidente l’interesse alla soluzione della problematica, trattandosi di affermazione di principio per la definizione dei confini del divieto di donazione, giacchè in fattispecie come quella in esame, in cui in origine vi sia una comunione ordinaria dell’intero stabile, del quale sia stato concordato il godimento da parte di ciascuno dei comunisti – in via esclusiva – di singoli appartamenti, pur vero che poteva formare oggetto di donazione solo la quota della comunione e non il singolo bene, non essendo il donante titolare esclusivo del bene in suo (esclusivo) possesso, tuttavia non può non essere significativa la considerazione che la legittimazione a disporre è da ritenere un elemento esterno alla struttura della fattispecie contrattuale, che determina l’inefficacia traslativa che la legge imputa al consenso legittimamente manifestato tra le parti. Di qui la rilevanza anche nel microcosmo delle donazioni laddove il bene può essere ritenuto solo eventualmente altrui, circostanza che dunque può assumere un’incidenza sul negozio dispositivo o in termini di inefficacia (tesi parimenti censurata dai ricorrenti in quanto ricompresa nella più complessiva doglianza della ritenuta nullità) ovvero di nullità per quanto sopra esposto.

Il carattere di questione di particolare importanza fa ravvisare al collegio l’opportunità della trasmissione degli atti al Primo Presidente affinchè valuti l’eventualità di rimettere la causa alle Sezioni Unite ove condivida l’esigenza di una risposta nomofilattica al più alto livello sulla questione.

 

P.Q.M.

La Corte, rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2° Sezione Civile, il 13 febbraio 2014.