STABILITA’ DEL GIUDICATO E OBBLIGO DI CONFORMARSI ALLE SENTENZE CEDU: LA CORTE COSTITUZIONALE SUGLI EFFETTI “INTERNI” DELLA SENTENZA SCOPPOLA

Corte costituzionale, 18 luglio 2013, n. 210 – Pres. Gallo, Red. Lattanzi

1. In linea di principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale. Quest’ultimo conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa. Il legislatore a fronte dell’abolitio criminis non ha ravvisato tale ragione giustificativa e ha previsto la revoca della sentenza (art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della condanna e gli effetti penali (art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito che «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135» (art. 2, terzo comma, cod. pen.).

2. Il procedimento da seguire per conformarsi alla sentenza della Corte EDU non è il procedimento di revisione previsto dall’art. 630 cod. proc. pen.: in tal caso, infatti, non è necessaria una “riapertura del processo” di cognizione ma occorre più semplicemente incidere sul titolo esecutivo, in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e già precisamente determinata nella misura dalla legge. Per una simile attività processuale è sufficiente un intervento del giudice dell’esecuzione, specie se si considera l’ampiezza dei poteri ormai riconosciuti dall’ordinamento processuale a tale giudice, che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.).

3. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è fondata. L’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 costituisce solo formalmente una norma interpretativa: è questa una qualifica non corrispondente alla realtà, che gli è stata data per determinare un effetto retroattivo, altrimenti non consentito. Infatti, come è stato precisato dalla Corte costituzionale, «la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire “situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo”, in ragione di “un dibattito giurisprudenziale irrisolto” (sentenza n. 311 del 2009), o di “ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore” (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini» (sentenze n. 103 del 2013 e n. 78 del 2012). Nessuna di queste ragioni sorregge la norma impugnata, dato che, come ha osservato la sentenza Scoppola, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., cioè l’oggetto della pretesa interpretazione legislativa, era chiaro, non presentava ambiguità e non aveva dato luogo a contrasti sulla disciplina relativa alla pena dell’ergastolo, perché non si dubitava che essa riguardasse sia l’ergastolo “semplice” sia quello con isolamento diurno.

4. In sostanza, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, con il suo effetto retroattivo, ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione. La norma impugnata si pone, pertanto, in contrasto con l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione, che, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte EDU con la sentenza Scoppola, non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa», che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».

 

SENTENZA N. 210

ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO,  Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 7, comma 1, e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, nel procedimento penale a carico di E.S. con ordinanza del 10 settembre 2012, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 aprile 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte il 6 novembre 2012 (r.o. n. 268 del 2012), la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni interne operano retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 2 del regio decreto 7 giugno 1923, n. 1252, recante «Passaggio della Gazzetta Ufficiale del Regno dalla dipendenza del Ministero dell’interno a quella del Ministero della giustizia e degli affari di culto e norme per la compilazione e la pubblicazione di essa»), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicazione del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto.

Il giudice a quo premette di essere investito di un ricorso avverso un provvedimento del Tribunale di Spoleto, in funzione di giudice dell’esecuzione penale, che aveva rigettato la richiesta del condannato, ai sensi degli artt. 666 e 670 del codice di procedura penale, di sostituzione della pena dell’ergastolo con quella temporanea di trenta anni di reclusione, affermando che «nessuna violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU era stata accertata, nel caso specifico, dalla Corte EDU, sicché non era sopravvenuto all’esecutività della condanna alcun fatto nuovo».

La Corte di cassazione rileva che il ricorrente, condannato con sentenza della Corte di assise di Catania, in data 18 luglio 1998, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, perché dichiarato colpevole di due omicidi volontari e della connessa violazione della normativa sulle armi, aveva proposto appello e che nel corso di tale giudizio era entrata in vigore (2 gennaio 2000) la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il seguente periodo: «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta», reintroducendo così la possibilità per la persona imputata di reati punibili con la pena perpetua di accedere al rito abbreviato.

Aggiunge la Corte rimettente che il ricorrente, il 12 giugno 2000, nel corso del giudizio di appello, avvalendosi della riapertura dei termini, disposta dall’art. 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, aveva chiesto procedersi con il rito abbreviato, con l’effetto che, in virtù dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. (nel testo vigente in quel momento), la pena dell’ergastolo, con o senza isolamento diurno, andava sostituita con quella di anni trenta di reclusione.

Prima della conclusione del giudizio d’appello, però, era entrato in vigore il decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare una interpretazione autentica al secondo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 479 del 1999, aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo» ivi contenuta doveva intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e aveva inserito alla fine della stessa disposizione un terzo periodo, secondo il quale «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».

In applicazione del citato art. 7 la Corte di assise di appello di Catania, con sentenza del 10 luglio 2001 (divenuta irrevocabile il 14 novembre 2003), aveva inflitto al ricorrente la pena dell’ergastolo.

La Corte di cassazione ricorda che, avverso il provvedimento del Tribunale di Spoleto, in funzione di giudice dell’esecuzione, è stato proposto ricorso, deducendo una violazione di legge, con riferimento agli artt. 6 e 7 della CEDU e 442 cod. proc. pen., nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.

Il ricorso è stato assegnato alle sezioni unite in considerazione della speciale importanza della questione, relativa alla possibilità per il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: «Corte EDU») con la sentenza della Grande Camera 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, di sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole.

Il rimettente, premesso che le Parti contraenti della CEDU, ai sensi dell’art. 46 della citata Convenzione, si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte di Strasburgo nelle controversie nelle quali sono parti e che lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del Comitato dei ministri, «le misure generali e/o, se del caso, individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare ulteriori violazioni analoghe», rileva che la Corte EDU, la quale ha il compito istituzionale di interpretare e applicare la CEDU, quando accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell’ordinamento giuridico nazionale, pone in essere una cosiddetta “procedura di sentenza pilota”, che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa condizione della persona il cui caso è stato specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà convenzionali, offrendo loro la riparazione più rapida, sì da alleggerire il carico della Corte sovranazionale.

In questa prospettiva, la giurisprudenza della Corte EDU, originariamente finalizzata alla soluzione di specifiche controversie relative a casi concreti, si sarebbe caratterizzata nel tempo «per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione paracostituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo», fornendo sempre più spesso, nel rilevare la contrarietà alla CEDU di situazioni interne di portata generale, indicazioni allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere il contrasto.

Secondo la Corte di cassazione, di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza accertate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione «non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato», da ritenersi certamente recessivo, allorché risulti compromesso un diritto fondamentale della persona, quale è quello che incide sulla libertà personale.

Il giudice a quo ricorda il contenuto della sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, che viene in rilievo nel caso in esame, perché presenta i connotati sostanziali di una “sentenza pilota”, in quanto, pur non fornendo specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, «evidenzia comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».

Ne conseguirebbe che eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, «devono dunque essere rimossi anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in una situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice europeo per il caso Scoppola».

Secondo la sentenza Scoppola, l’art. 7 della CEDU non garantisce soltanto il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive approvate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice debba applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l’effetto che, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, l’applicazione della pena più sfavorevole al reo.

Le sezioni unite della Corte di cassazione aggiungono che per la Corte EDU l’art. 442 cod. proc. pen., nella parte in cui indica la misura della pena da infliggere in caso di condanna all’esito di giudizio abbreviato, è norma di diritto penale sostanziale che soggiace alle regole sulla retroattività di cui all’art. 7 della CEDU, con la conseguenza della violazione di tale ultima norma nel caso in cui non venga inflitta all’imputato la pena più mite tra quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del fatto a quello della sentenza definitiva. La pronuncia della Corte di Strasburgo, negando il carattere di norma interpretativa dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, conclude che Scoppola, essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, così come interpretato, a vedersi infliggere la pena di trenta anni di reclusione, più mite, rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) al momento della commissione del fatto, sia a quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dall’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000.

Secondo la Corte di cassazione «tale precedente sovranazionale», censurando il meccanismo processuale col quale si attribuisce efficacia retroattiva all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, qualificato come norma d’interpretazione autentica dell’art. 442 cod. proc. pen. (nel testo risultante dalla modifica operata dalla legge n. 479 del 1999) enuncia, in linea di principio, una «regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata» e quindi anche al caso dell’attuale ricorrente.

Ne conseguirebbe che l’avere inflitto al ricorrente, la cui posizione è sostanzialmente sovrapponibile a quella di Scoppola, la pena dell’ergastolo, anziché quella di trent’anni di reclusione, avrebbe violato il suo diritto all’applicazione retroattiva (art. 7 della CEDU) della legge penale più favorevole, e la violazione inevitabilmente si rifletterebbe, con effetti perduranti in fase esecutiva, sul diritto fondamentale alla libertà personale.

Questa situazione, anche a costo di porre in crisi il “dogma” del giudicato, non potrebbe essere tollerata, perché legittimerebbe «l’esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al di là della species facti, illegittima dall’interprete autentico della CEDU», determinando una patente violazione del principio di parità di trattamento tra condannati che versano in identica posizione. Il caso sarebbe diverso da quello dell’applicazione illegittima di una pena esclusivamente perché avvenuta in seguito a un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo ai sensi dell’art. 6 della CEDU, in quanto in questo caso «l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo», dovrebbe essere compiuto caso per caso, sì che solo «un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie» potrebbe mettere in discussione il giudicato.

Il caso in esame non sarebbe dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata condanna in forza di una legge penale dichiarata ex post, nella sua parte precettiva o sanzionatoria, illegittima o comunque inapplicabile perché in contrasto con una norma di rango superiore.

Non sarebbe di ostacolo l’irrevocabilità del giudicato, la cui crisi sarebbe «riscontrabile nell’art. 2, comma terzo, cod. pen.», secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna definitiva si converte automaticamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore al giudicato prevede esclusivamente quest’ultima, «regola questa che deroga a quella posta invece dal quarto comma dello stesso art. 2 cod. pen. (primato della lex mitior, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile)».

Alla novità normativa richiesta dall’art. 2 citato sarebbe assimilabile, in via analogica, il novum dettato dalla Corte EDU in tema di legalità della pena. In entrambi i casi l’esigenza imprescindibile di far cessare gli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem dovrebbe prevalere sulla tenuta del giudicato.

Stante la centrale rilevanza assunta dalla decisione della Corte EDU sul caso Scoppola nella valutazione della posizione del ricorrente, s’imporrebbe la verifica della compatibilità degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, con il principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7 della CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte europea, costituente, quale norma interposta, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost.

Il giudice a quo ritiene che non vi siano spazi per un’interpretazione conforme alla CEDU delle disposizioni suddette, dalla cui applicazione è derivata e tuttora deriva la violazione del diritto fondamentale del condannato all’applicazione della norma più favorevole, costituita nel caso specifico dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999. Tale conclusione si imporrebbe alla stregua della espressa qualificazione come “interpretazione autentica”, contenuta nel titolo del Capo III del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, del tenore dell’art. 7 del citato decreto-legge e del contenuto della relativa Relazione governativa, in cui si precisa che la disposizione intende risolvere in via interpretativa i dubbi circa l’applicabilità della disciplina sul giudizio abbreviato nei casi in cui, stante il concorso di reati, alla pena dell’ergastolo debba aggiungersi anche la sanzione dell’isolamento diurno.

La legge interpretativa, in quanto materialmente successiva nel tempo a quella interpretata, con cui si salda dando luogo ad un precetto normativo unitario, avrebbe efficacia retroattiva in deroga al principio di irretroattività della legge in generale, fissato dall’art. 11 delle preleggi.

La disciplina di natura transitoria di cui all’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, come sostituito in sede di conversione, che prevede la facoltà dell’imputato di revocare la richiesta di giudizio abbreviato nei casi in cui è applicabile o è stata applicata la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, confermerebbe l’efficacia retroattiva attribuita dal legislatore all’art. 7 citato.

L’impossibilità di una interpretazione della normativa interna conforme all’art. 7 della CEDU ha indotto la Corte di cassazione a ritenere non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU, degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 4 del 2001, nella parte in cui tali disposizioni interne operano retroattivamente e più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 2 del regio decreto n. 1252 del 1923), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con la conseguente applicabilità del più sfavorevole trattamento sanzionatorio ivi previsto.

Il giudice a quo, premessa la distinzione tra legge autenticamente interpretativa, che si limita a indicare il vero significato del testo della legge preesistente e legge che pur formalmente dichiarata interpretativa si rivela invece innovativa, perché intacca antinomicamente la ratio della legge, osserva che la cosiddetta «interpretazione autentica dell’art. 442 comma 2 del codice di procedura penale», operata dall’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, rientra nella seconda categoria di norme. Ciò in quanto il testo dell’art. 442, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., così come introdotto dalla legge n. 479 del 1999, non presenterebbe alcuna ambiguità interpretativa, perché la pena dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno) doveva essere sostituita, in caso di giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione.

Secondo la Corte di cassazione, il legislatore del 2000 avrebbe inteso porre rimedio a tale insoddisfacente disciplina e, «per incidere immediatamente sui processi in corso aventi ad oggetto gravi fatti omicidiari, ha optato per la legge interpretativa, anche se non v’era alcun effettivo problema ermeneutico da risolvere», ma semplicemente l’esigenza «di diversificare il trattamento sanzionatorio in relazione alla pluralità o unicità di imputazioni importanti l’ergastolo».

Ne conseguirebbe che il giudice ordinario, non potendo disapplicare la legge formalmente interpretativa, potrebbe solo sottoporla all’esame della Corte costituzionale.

Sottolinea, inoltre, la Corte di cassazione che gli aspetti processuali propri del giudizio abbreviato sono strettamente collegati «con aspetti sostanziali, dovendosi tali ritenere quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena, profilo questo che si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore». La richiesta di giudizio abbreviato cristallizzerebbe il trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa, con l’effetto che una norma sopravvenuta di sfavore non potrebbe retroattivamente deludere e vanificare il legittimo affidamento riposto dall’interessato nello svolgimento del giudizio secondo le più favorevoli regole in vigore all’epoca della scelta processuale.

La norma dell’art. 7 e di riflesso quella del successivo art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000 sembrerebbero essere in contrasto in primo luogo con il parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, e quindi alla norma interposta contenuta nell’art. 7 della CEDU, che delineerebbe, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, un nuovo profilo di tutela del principio di legalità convenzionale in materia penale: non solo la irretroattività della legge penale più severa, principio già contenuto nell’art. 25, secondo comma, Cost., ma anche e implicitamente la retroattività o l’ultrattività della lex mitior, in quanto andrebbe ad incidere sulla configurabilità del reato o sulla specie e sull’entità della pena e, quindi, su diritti fondamentali della persona.

In conclusione, secondo la Corte, sarebbe «proprio l’applicazione retroattiva in malam partem della c.d. legge interpretativa a determinare la violazione del diritto del soggetto interessato all’operatività, invece, della legge più mite tra quelle succedutesi nell’arco temporale 2 gennaio-24 novembre 2000, in presenza del presupposto processuale rappresentato dalla richiesta del rito abbreviato effettuata nello stesso periodo, e a legittimare i dubbi di costituzionalità della medesima legge interpretativa».

La citata normativa interna, stante il suo carattere retroattivo, contrasterebbe inoltre con l’art. 3 Cost., violando il canone di ragionevolezza e il principio di uguaglianza. Essa, infatti, interverrebbe sull’art. 442, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen. nel testo risultante dalla legge n. 479 del 1999, in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo di riferimento. Tradirebbe poi il principio dell’affidamento connaturato allo Stato di diritto, legittimamente sorto nel soggetto al momento della scelta del rito alternativo regolato da una norma più favorevole. Determinerebbe, infine, ingiustificate disparità di trattamento, dipendenti dai variabili tempi processuali, tra soggetti che versano in un’identica posizione sostanziale.

In punto di rilevanza, la Corte di cassazione precisa che la decisione della vicenda in esame dovrebbe comportare l’applicazione dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e non potrebbe prescindere dai riflessi che su tale norma spiega anche la disposizione transitoria di cui al successivo art. 8, come sostituito in sede di conversione dalla legge n. 4 del 2001. Sussisterebbe, quindi, un rapporto di strumentalità necessaria tra la risoluzione delle questioni di costituzionalità e la definizione dell’attivato incidente di esecuzione.

Aggiunge la Corte rimettente che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme interne, avendo una forza invalidante ex tunc, la cui portata, già implicita nell’art. 136 Cost., è chiarita dall’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), inciderebbe sull’esecuzione ancora in corso della pena illegittimamente inflitta in applicazione della più severa norma penale sostanziale, sospettata, nella parte relativa alla sua efficacia retroattiva, di essere in contrasto con la Carta costituzionale.

L’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 dispone che, quando in applicazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali, e secondo la Corte di cassazione, da questa disposizione consegue che, «nel caso di dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale sostanziale, la tutela della libertà personale si unisce alla forza espansiva della dichiarazione di incostituzionalità e travolge anche il giudicato, con effetti diretti sull’esecuzione, ancora in atto, della condanna irrevocabile».

Il campo di operatività dell’art. 30, quarto comma, sarebbe più esteso rispetto a quello dell’art. 673 cod. proc. pen., il quale si riferirebbe all’abrogazione o dichiarazione di incostituzionalità di fattispecie incriminatrici nella loro interezza, in quanto impedirebbe anche l’esecuzione della pena o della frazione di pena inflitta in base alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima sul punto, senza coinvolgere il precetto.

Il citato art. 30, quarto comma, si porrebbe come eccezione alla regola di cui al quarto comma dell’art. 2 del codice penale, secondo cui si applica al reo la disposizione più favorevole, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, e legittimerebbe quindi il superamento del giudicato di fronte alle primarie esigenze, insite nell’intero sistema penale, di tutelare il diritto fondamentale della persona alla legalità della pena anche in fase esecutiva e di assicurare parità di trattamento tra i condannati che versano in una identica situazione.

2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.

L’Avvocatura dello Stato osserva che in seguito all’entrata in vigore, in data 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, è stata impressa una diversa configurazione al rapporto tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno. In virtù dell’art. 6 del predetto Trattato, indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU, da parte dell’Unione europea, i diritti elencati dalla Convenzione verrebbero ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione sia in via diretta ed immediata, tramite il loro riconoscimento come «principi generali del diritto dell’Unione», sia in via mediata, come conseguenza del riconoscimento che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Secondo l’Avvocatura, a norma dell’art. 49, primo paragrafo, della Carta da ultimo citata, se successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima. In virtù dell’art. 52 della Carta, inoltre, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino un corrispondente all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi tutelati anche a livello comunitario.

Di conseguenza il giudice comune sarebbe tenuto a disapplicare qualsiasi norma nazionale «in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui “le norme di diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno”».

Questa interpretazione non troverebbe «ostacoli di operatività», in quanto il principio di retroattività o ultrattività della lex mitior in relazione all’esecuzione penale si armonizzerebbe con la disposizione di cui all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, che impedisce l’esecuzione di una pena o di una frazione di pena inflitta in base ad una norma dichiarata illegittima, incidendo su una situazione non ancora esaurita, «senza coinvolgere il precetto penale, assicurando la legalità della pena attraverso un’effettiva parità di trattamento nei confronti di condannati che versano in una identica situazione di diritto».

 

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza depositata il 10 settembre 2012 e pervenuta a questa Corte il 6 novembre 2012, la Corte di cassazione, sezioni unite penali, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 7 e 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, nella parte in cui tali disposizioni operano retroattivamente e, più specificamente, in relazione alla posizione di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della sola legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), sono stati giudicati successivamente, quando cioè, a far data dal pomeriggio del 24 novembre 2000 (pubblicazione della Gazzetta Ufficiale), era entrato in vigore il citato decreto-legge, con conseguente applicabilità del più sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto da tale decreto.

La Corte di cassazione è stata investita con un ricorso contro un provvedimento del Tribunale di Spoleto che, in sede esecutiva, ha rigettato la richiesta di un condannato diretta a vedersi sostituire la pena dell’ergastolo, applicata nel corso di un giudizio abbreviato, con la pena di trenta anni di reclusione, sostituzione che, secondo il ricorso, si sarebbe dovuta disporre perché il condannato si trovava in una situazione analoga a quella che nel caso Scoppola contro Italia aveva formato oggetto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: «Corte EDU»), Grande Camera, 17 settembre 2009.

Con questa sentenza la Corte EDU aveva rilevato la violazione da parte dello Stato italiano dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, cagionata dall’applicazione dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000 e aveva dichiarato che lo Stato italiano era tenuto ad assicurare che la pena dell’ergastolo, inflitta al ricorrente, fosse sostituita con una pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta.

Il Tribunale di Spoleto, al quale il condannato si era rivolto per ottenere la sostituzione della pena, aveva rigettato la richiesta rilevando che nessuna violazione dell’art. 7 della CEDU era stata accertata dalla Corte EDU nel caso del richiedente.

Le sezioni unite della Corte di cassazione, che non condividono le ragioni del rigetto, hanno proposto questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, ritenendo che queste norme siano di ostacolo al doveroso accoglimento della richiesta di sostituzione della pena.

2.– Secondo le sezioni unite, la sentenza della Corte EDU ha rilevato nel nostro ordinamento un problema strutturale e gli eventuali effetti, tuttora perduranti, della violazione devono essere eliminati, perché essa contiene una «regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata».

Il giudice a quo, nell’esercizio dei suoi poteri di apprezzamento e qualificazione della fattispecie sottoposta alla sua cognizione, premette che il ricorrente si trova in una situazione identica a quella che ha connotato il caso Scoppola e perciò ritiene che anche nei suoi confronti la pena dell’ergastolo, applicata in forza della norma convenzionalmente illegittima, dovrebbe essere sostituita con la pena di trenta anni di reclusione. «Di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea – aggiunge il giudice a quo – il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 CEDU (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione non possono essere di ostacolo a un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s’impone, pertanto, in questo caso di emendare “dallo stigma dell’ingiustizia” una tale situazione». Il caso, secondo l’ordinanza di rimessione, non sarebbe dissimile da quello in cui vi è stata una condanna in forza di una legge dichiarata ex post costituzionalmente illegittima nella sua parte precettiva o sanzionatoria.

A parere delle sezioni unite, all’applicazione della regola contenuta nella sentenza Scoppola si oppone però l’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, che, per i motivi indicati nella sentenza della Corte EDU, appare costituzionalmente illegittimo e, in base all’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (il quale dispone che quando in applicazione della norma dichiarata costituzionalmente illegittima è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali), la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 7 consentirebbe l’applicazione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. nel testo anteriore alla modificazione operata con il decreto-legge n. 341 del 2000 e, dunque, la richiesta sostituzione della pena. Infatti, secondo le sezioni unite, l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 dovrebbe operare con un duplice effetto, per superare sia il limite del giudicato sia quello del quarto comma dell’art. 2 del codice penale, il quale esclude l’applicabilità di disposizioni «più favorevoli al reo» sopravvenute, qualora «sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».

3.– Il quadro normativo interno nel cui ambito si pone la questione è caratterizzato da una successione di varie leggi.

La disposizione originaria dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. prevedeva, nel caso di giudizio abbreviato, la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione. Questa norma è stata però dichiarata costituzionalmente illegittima per eccesso di delega (sentenza n. 176 del 1991) e, di conseguenza, tra il 1991 e il 1999, l’accesso al rito abbreviato, sulla base degli artt. 438 e 442 cod. proc. pen., all’epoca vigenti, è stato precluso agli imputati dei delitti puniti con l’ergastolo.

L’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, entrata in vigore il 2 gennaio 2000, ha modificato l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., reintroducendo la possibilità di procedere con il giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, e ha previsto la sostituzione di questa pena con quella di trenta anni di reclusione.

Il decreto-legge n. 341 del 24 novembre 2000, entrato in vigore lo stesso 24 novembre 2000, e convertito dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, all’art. 7, ha modificato nuovamente l’art. 442 cod. proc. pen., stabilendo, in via di interpretazione autentica della precedente modifica, che «nell’art. 442, comma 2, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” è riferita all’ergastolo senza isolamento diurno» (art. 7, comma 1), e aggiungendo alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. la proposizione: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo» (art. 7, comma 2). In via transitoria, l’art. 8 del medesimo decreto-legge ha consentito a chi avesse formulato una richiesta di giudizio abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999 di revocarla entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge con l’effetto che il processo sarebbe proseguito con il rito ordinario.

In seguito a quest’ultima modifica normativa, il giudizio abbreviato, che si conferma applicabile alla generalità dei delitti puniti con l’ergastolo, consente al condannato di beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo senza isolamento diurno con quella di trenta anni di reclusione e della sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con quella dell’ergastolo semplice.

4.– Con la sentenza del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, la Grande Camera della Corte EDU ha preso in considerazione il quadro normativo sopraindicato, e in particolare la vicenda relativa alla successione tra la legge n. 479 del 1999 e il decreto-legge n. 341 del 2000, ravvisando una violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU.

In particolare, la Corte EDU ha ritenuto che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., ancorché contenuto in una legge processuale, è norma di diritto penale sostanziale, in quanto, «se è vero che gli articoli 438 e 441-443 del c.p.p. descrivono il campo di applicazione e le fasi processuali del giudizio abbreviato, rimane comunque il fatto che il paragrafo 2 dell’articolo 442 è interamente dedicato alla severità della pena da infliggere quando il processo si è svolto secondo questa procedura semplificata». Si tratta perciò di una norma che rientra nel campo di applicazione dell’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione, che, secondo una innovativa interpretazione della Corte di Strasburgo, comprende anche il diritto dell’imputato di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza: nel caso di specie la sanzione di trenta anni di reclusione, pure nel caso di reati puniti con l’ergastolo con isolamento diurno, poi sostituita retroattivamente con quella del semplice ergastolo.

5.– Delimitato il quadro normativo in cui si colloca la questione in esame, va considerato che l’Avvocatura generale dello Stato ne ha eccepito l’inammissibilità, sostenendo che, in seguito all’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130, è stata impressa una diversa configurazione al rapporto tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno. In virtù dell’art. 6 del Trattato, indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU da parte dell’Unione europea, i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione, sia in via diretta e immediata, tramite il loro riconoscimento come «principi generali del diritto dell’Unione», sia in via mediata, come conseguenza del riconoscimento che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, a norma dell’art. 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, se successivamente alla commissione del reato sopravviene una legge che prevede una pena più lieve, è questa che deve trovare applicazione. In virtù dell’art. 52 della Carta, inoltre, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino in essa una corrispondenza devono ritenersi tutelati anche a livello comunitario. Di conseguenza il giudice comune dovrebbe disapplicare qualsiasi norma nazionale «in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui le norme di diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno».

L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento.

Come è già stato rilevato, l’adesione dell’Unione europea alla CEDU non è ancora avvenuta, «rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona» (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011).

Inoltre questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che, «in linea di principio, dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come princìpi generali del diritto comunitario non può farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost., né, correlativamente, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione» (sentenze n. 303 del 2011; n. 349 del 2007). È da aggiungere che «i princìpi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile» (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011), e poiché nel caso di specie non siamo di fronte ad una fattispecie riconducibile al diritto comunitario non vi è spazio per un’eventuale disapplicazione da parte del giudice ordinario.

La stessa Corte di giustizia dell’Unione europea ha del resto ritenuto che il rinvio operato dall’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea alla CEDU non regola i rapporti tra ordinamenti nazionali e CEDU né, tantomeno, impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la Convenzione europea, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (sentenza del 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj).

6.– Un profilo di inammissibilità è invece ravvisabile rispetto alla questione avente ad oggetto l’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, che disciplina, in via transitoria, il potere dell’imputato di revocare la richiesta di giudizio abbreviato nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto in questione. Infatti, mentre le censure di costituzionalità riguardano sia l’art. 7 sia l’art. 8 del decreto-legge n. 341 del 2000, nell’ordinanza di rimessione manca la motivazione sulla rilevanza della questione relativa a quest’ultima norma, della quale non è indicato l’ambito di applicabilità nel giudizio principale.

Ne consegue l’inammissibilità della questione relativa all’art. 8.

7.– Dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione emerge che la questione di legittimità costituzionale, pur coinvolgendo formalmente l’intero art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, deve intendersi limitata al solo comma 1 di tale articolo, che, in virtù della sua pretesa natura interpretativa, ne determina l’applicazione retroattiva. L’art. 7, comma 2, dello stesso decreto-legge, modificando l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., si limita a dettare la nuova disciplina del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, da applicarsi “a regime” e dunque nelle fattispecie successive alla sua entrata in vigore, che non riguardano il caso oggetto del giudizio a quo.

7.1.– Una volta limitato il campo delle censure al solo art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 vanno esaminati alcuni altri aspetti problematici, con possibili riflessi sull’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale.

L’ordinanza della Corte di cassazione muove dal presupposto che alla sentenza della Corte EDU emessa nei confronti di Scoppola debba darsi applicazione anche nei casi, come quello in questione, che presentano le medesime caratteristiche, senza che occorra per gli stessi una specifica pronuncia della Corte EDU.

La norma fondamentale in tema di esecuzione delle sentenze della Corte EDU  è costituita dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte». Gli altri paragrafi dell’art. 46 (dal 2 al 5) disciplinano le competenze del Comitato dei ministri e della stessa Corte nell’esercizio dell’attività di controllo sull’esecuzione delle sentenze da parte degli Stati responsabili delle violazioni della CEDU.

L’art. 46 va letto in combinazione con l’art. 41 della CEDU, a norma del quale, «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa» (sentenza n. 113 del 2011).

Nell’applicazione delle norme convenzionali ora ricordate, la Corte EDU ha per lungo tempo mantenuto un atteggiamento di self-restraint, ponendo l’accento sulla natura “essenzialmente dichiarativa” delle proprie sentenze e sulla libertà degli Stati nella scelta dei mezzi da utilizzare per conformarsi ad esse, ma questo atteggiamento è stato decisamente superato dalla giurisprudenza più recente.

A partire dalla sentenza della Corte EDU del 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia, si è affermato il principio – ormai consolidato – in forza del quale, «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione previste dall’articolo 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» (Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia). Ciò in quanto, in base all’art. 41 della CEDU, le somme assegnate a titolo di equo indennizzo mirano unicamente ad accordare un risarcimento per i danni subiti dagli interessati nella misura in cui questi costituiscano una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere cancellata (Corte EDU, Grande Camera, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia).

La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è chiamato ad adottare viene puntualmente individuata dalla Corte di Strasburgo nella restitutio in integrum della situazione della vittima. Queste misure devono porre, cioè, «il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della Convenzione», giacché «una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima» (ex plurimis, Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, 8 febbraio 2007, Kollcaku contro Italia; Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia; Corte EDU, 18 maggio 2004, Somogyi contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia).

In una prospettiva più ampia, lo Stato convenuto è tenuto anche a rimuovere gli impedimenti che, nella legislazione nazionale, si frappongono al conseguimento dell’obiettivo: «ratificando la Convenzione gli Stati contraenti si impegnano», infatti, «a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima», sicché «è lo Stato convenuto a dover eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente» (Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia).

7.2.– Particolari obblighi di conformazione alle pronunce della Corte EDU sono posti dalle cosiddette sentenze pilota, le quali traggono origine dalla circostanza che spesso vengono presentati alla Corte numerosi ricorsi relativi alla stessa situazione giuridica interna all’ordinamento dello Stato convenuto. Normalmente questi ricorsi scaturiscono da un contesto interno di carattere generale (in quanto coinvolgente una pluralità di persone) in contrasto con la CEDU, e mettono in evidenza un problema di carattere strutturale nell’ordinamento dello Stato convenuto. In queste sentenze la Corte non si limita a individuare il problema che il caso presenta, ma si spinge sino a indicare le misure più idonee per risolverlo. Se lo Stato responsabile della violazione strutturale accertata dalla sentenza pilota adotta le misure generali necessarie, la Corte procede alla cancellazione dal ruolo degli altri ricorsi relativi alla medesima questione; in caso contrario, essa ne riprende l’esame. Come esempi di sentenze pilota si ricordano la sentenza Broniowski contro Polonia, del 22 giugno 2004, quella Hutten Czapska contro Polonia, del 19 giugno 2006, e più recentemente quella Torreggiani ed altri contro Italia, dell’8 gennaio 2013. La prassi è stata disciplinata nel nuovo art. 61 del regolamento della Corte, in vigore dal 31 marzo 2010.

Secondo le sezioni unite della Corte di cassazione, la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, «che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di una “sentenza pilota”, in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità rispetto alla CEDU dell’art. 7 del decreto-legge n. 341 del 2000, nella interpretazione datane dalla giurisprudenza interna».

Il riferimento alle “sentenze pilota” però nel caso in esame non è puntuale, dato che sono le stesse parole della sentenza Scoppola a segnare un distacco da tale modello là dove essa precisa che, «nella presente causa, la Corte non ritiene necessario indicare delle misure generali che si impongano a livello nazionale nell’ambito dell’esecuzione della presente sentenza». La sentenza prosegue concentrandosi sulle misure individuali, che devono essere «volte a porre il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della Convenzione», e aggiunge, più in generale, che «una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest’ultima».

Ciò premesso, deve rilevarsi che le modalità attraverso le quali lo Stato membro si adegua con misure strutturali alle sentenze della Corte di Strasburgo non sempre sono puntualmente determinate nel loro contenuto da tali pronunce, ma ben possono essere individuate con un ragionevole margine di apprezzamento. Perciò non è necessario che le sentenze della Corte EDU specifichino le “misure generali” da adottare per ritenere che esse, pur discrezionalmente configurabili, costituiscono comunque una necessaria conseguenza della violazione strutturale della CEDU da parte della legge nazionale.

Quando ciò accade è fatto obbligo ai poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della CEDU cessino. Deve quindi ritenersi che il cosiddetto contenuto rilevante della sentenza Scoppola, vale a dire la parte di essa rispetto alla quale si forma l’obbligo posto dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, e, più in generale, si individuano quegli aspetti dei quali lo Stato responsabile della violazione deve tenere conto per determinare le misure da adottare per conformarsi ad esse, ha una portata più ampia di quella che, per quanto concerne specificamente la violazione riscontrata, emerge dal dispositivo, nel quale la Corte EDU si limita a dichiarare che è «lo Stato convenuto a dover assicurare che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente sia sostituita con una pena conforme ai principi enunciati nella presente sentenza», cioè con la pena di trenta anni di reclusione.

Al riguardo si deve ricordare che, all’indomani della sentenza Scoppola, lo Stato italiano ha comunicato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, l’organo preposto al controllo sull’esecuzione delle pronunce della Corte EDU, di avere, quanto alle misure individuali, attivato, nella forma dell’incidente di esecuzione, la procedura rivolta alla sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione. In particolare nel foglio annesso alla Risoluzione del Comitato dei ministri CM/ResDH(2011)66 si dà atto che la Procura generale presso la Corte di cassazione ha trasmesso la sentenza in oggetto alla Procura generale presso la Corte di appello di Roma, autorità giudiziaria competente ad eseguire la sentenza di condanna emessa nei confronti di Scoppola, e che la Procura generale presso la Corte di appello di Roma, a sua volta, ha investito la Corte d’appello in sede, quale giudice dell’esecuzione.

Nel foglio annesso si precisa ulteriormente che l’11 febbraio 2010 la Corte di cassazione ha accolto la richiesta del Procuratore generale e che dunque la pena dell’ergastolo è stata sostituita con quella di trenta anni di reclusione. Inoltre, con riferimento alle misure generali, lo Stato italiano ha comunicato che alla luce dell’«effetto diretto» accordato dai giudici italiani alle sentenze della Corte europea, e in vista delle possibilità offerte dalla procedura dell’incidente di esecuzione alle persone che possono trovarsi in una situazione simile a quella del ricorrente nel presente caso, le autorità italiane considerano che la pubblicazione e la diffusione della sentenza della Corte europea ai tribunali competenti costituiscono misure sufficienti per prevenire violazioni simili.

Il Comitato, nella risoluzione citata, adottata l’8 giugno 2011, dopo avere esaminato le misure individuali e generali, prese dallo Stato italiano (indicate appunto nel foglio annesso), ha dichiarato che questo aveva adempiuto agli obblighi previsti dall’art. 46, paragrafo 2, della Convenzione e ha deciso di chiudere il caso.

Tutte le ragioni considerate inducono a concludere che fondatamente la Corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza Scoppola non consenta all’Italia di limitarsi a sostituire la pena dell’ergastolo applicata in quel caso, ma la obblighi a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovano nelle medesime condizioni di Scoppola.

7.3.– Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti; se però il legislatore non interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli effetti già definitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili. Esiste infatti una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale.

Il valore del giudicato, attraverso il quale si esprimono preminenti ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici, del resto, non è estraneo alla Convenzione, al punto che la stessa sentenza Scoppola vi ha ravvisato un limite all’espansione della legge penale più favorevole, come questa Corte ha già avuto occasione di porre in evidenza (sentenza n. 236 del 2011). Perciò è da ritenere che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale.

Quest’ultimo, difatti, conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato.

Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo: «per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa» (sentenza n. 236 del 2011).

Il legislatore a fronte dell’abolitio criminis non ha ravvisato tale ragione giustificativa e ha previsto la revoca della sentenza (art. 673 cod. proc. pen.), disponendo che devono cessare l’esecuzione della condanna e gli effetti penali (art. 2, secondo comma, cod. pen.); analogamente ha stabilito che «Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135» (art. 2, terzo comma, cod. pen.).

A questa Corte compete perciò di rilevare che, nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato.

Al giudice comune, e in particolar modo al giudice rimettente, quale massimo organo di nomofilachia compete, invece, di determinare l’esatto campo di applicazione in sede esecutiva di tali sopravvenienze, ovvero della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice (art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87), e, nell’ipotesi in cui tale determinazione rilevi ai fini della proposizione di una questione di legittimità costituzionale, spiegarne le ragioni in termini non implausibili.

Nel caso in esame le sezioni unite  rimettenti, con motivazione che soddisfa tale ultimo requisito, hanno argomentato che, in base all’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Nell’ambito dell’odierno incidente di legittimità costituzionale, tale rilievo è sufficiente per concludere che, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato dalla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola, il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che, come invece accade di regola, limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice.

Nella prospettiva adottata dalle sezioni unite rimettenti, non vi sono perciò ostacoli che si frappongano alla estensione degli effetti della Convenzione in fattispecie uguali a quella relativa a Scoppola, sulle quali si sia già formato il giudicato.

8.– Bisogna ora chiedersi quale sia il procedimento da seguire per conformarsi alla sentenza della Corte EDU e, in particolare, se il giudice dell’esecuzione abbia “competenza” al riguardo. In proposito va rilevato che il procedimento di revisione previsto dall’art. 630 cod. proc. pen., quale risulta per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 113 del 2011 di questa Corte, non è adeguato al caso di specie, nel quale non è necessaria una “riapertura del processo” di cognizione ma occorre più semplicemente incidere sul titolo esecutivo, in modo da sostituire la pena irrogata con quella conforme alla CEDU e già precisamente determinata nella misura dalla legge.

Per una simile attività processuale è sufficiente un intervento del giudice dell’esecuzione (che infatti è stato attivato nel caso oggetto del giudizio principale), specie se si considera l’ampiezza dei poteri ormai riconosciuti dall’ordinamento processuale a tale giudice, che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.).

Del resto non è senza significato che, come è già stato ricordato, dopo la sentenza Scoppola l’Italia abbia fatto riferimento proprio al procedimento esecutivo, quando, tra l’altro, ha comunicato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che, in vista delle possibilità offerte dalla procedura dell’incidente di esecuzione alle persone che possono trovarsi in una situazione simile a quella del ricorrente nel presente caso, le autorità italiane considerano che la pubblicazione e la diffusione della sentenza della Corte europea ai tribunali competenti costituiscono misure sufficienti per prevenire violazioni simili.

Se la sentenza della Corte EDU cui occorre conformarsi implica l’illegittimità costituzionale di una norma nazionale ci si deve anche chiedere se la sua esecuzione da parte del giudice nazionale debba passare o meno attraverso la pronuncia di tale illegittimità.

Nei confronti di Scoppola si è data, da parte della Corte di cassazione, direttamente esecuzione alla sentenza della Corte europea con la procedura del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., ma nel caso in esame, in cui rispetto al ricorrente manca una pronuncia specifica della Corte EDU, è da ritenere che occorra sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma convenzionalmente illegittima, come appunto hanno fatto le sezioni unite della Corte di cassazione.

Una volta considerato anche questo profilo, è chiara la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite della Corte di cassazione rispetto all’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, che impedisce di definire la vicenda processuale in osservanza dell’obbligo costituzionale di adeguamento alla sentenza della Corte EDU, che di quella norma ha rilevato il contrasto con l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU.

Si tratta, com’è chiaro, di una conclusione che riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva. Le stesse sezioni unite hanno avvertito che «diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima, esclusivamente perché inflitta all’esito di un giudizio ritenuto dalla Corte EDU non equo, ai sensi dell’art. 6 della CEDU: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte ad un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie».

Di conseguenza si deve concludere che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è rilevante.

La questione di legittimità costituzionale proposta con riferimento all’art. 3 Cost. invece è inammissibile, perché non attiene alla necessità di conformarsi a una sentenza della Corte EDU, cioè al solo caso che, come si è visto, può giustificare un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione.

9.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, è fondata.

La norma impugnata si colloca al termine di una successione di tre distinte discipline. La prima è quella dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come risultava in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza di questa Corte n. 176 del 1991, che precludeva la possibilità del giudizio abbreviato (e dunque della relativa diminuzione di pena) per i procedimenti concernenti reati punibili con l’ergastolo. La seconda è quella introdotta dalla legge n. 479 del 1999, il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva reso nuovamente possibile il giudizio abbreviato per i reati puniti con la pena dell’ergastolo, perché aveva aggiunto alla fine del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. il seguente periodo: «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta». La terza è quella del decreto-legge n. 341 del 2000, il cui art. 7, nel dichiarato intento di dare l’interpretazione autentica dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., aveva stabilito che l’espressione «pena dell’ergastolo», ivi contenuta, dovesse «intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno», e alla fine del comma 2 aveva aggiunto un terzo periodo, così formulato: «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».

La sentenza della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia ha affermato che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. costituisce «una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato» e che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la formulazione, non è in realtà una norma interpretativa, perché «l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. non presentava alcuna ambiguità particolare; esso indicava chiaramente che la pena dell’ergastolo era sostituita da quella della reclusione di anni trenta, e non faceva distinzioni tra la condanna all’ergastolo con o senza isolamento diurno». Inoltre, aggiunge la sentenza Scoppola, «il Governo non ha prodotto esempi di conflitti giurisprudenziali ai quali l’art. 442 sopra citato avrebbe presumibilmente dato luogo».

Si tratta di valutazioni ineccepibili anche in base all’ordinamento interno.

La natura sostanziale della disposizione dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. era stata già chiaramente affermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 6 marzo 1992, n. 2977. Allora era venuta in questione una situazione opposta a quella attuale. La Corte costituzionale con la sentenza n. 176 del 1991 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, del secondo periodo dell’art. 442 cod. proc. pen., uguale a quello attualmente vigente, e occorreva decidere come trattare le condanne già intervenute in applicazione della norma di cui era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale. Le sezioni unite hanno ritenuto che non importasse «stabilire la natura della diminuzione o della sostituzione della pena», ma importasse «piuttosto rilevare che essa si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore», e hanno affermato che la pronuncia della Corte costituzionale «non può determinare effetti svantaggiosi per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo che hanno richiesto il giudizio abbreviato prima della dichiarazione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. Per questi imputati deve rimanere fermo il trattamento penale di favore di cui hanno goduto in collegamento con il procedimento speciale», i cui atti di conseguenza non possono essere annullati.

È vero inoltre che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000 costituisce solo formalmente una norma interpretativa: è questa una qualifica non corrispondente alla realtà, che gli è stata data per determinare un effetto retroattivo, altrimenti non consentito. Infatti, come è stato precisato da questa Corte, «la legge interpretativa ha lo scopo  di chiarire “situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo”, in ragione di “un dibattito giurisprudenziale irrisolto” (sentenza n. 311 del 2009), o di “ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore” (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini» (sentenze n. 103 del 2013 e n. 78 del 2012).

Nessuna di queste ragioni sorregge la norma impugnata, dato che, come ha osservato la sentenza Scoppola, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., cioè l’oggetto della pretesa interpretazione legislativa, era chiaro, non presentava ambiguità e non aveva dato luogo a contrasti sulla disciplina relativa alla pena dell’ergastolo, perché non si dubitava che essa riguardasse sia l’ergastolo “semplice” sia quello con isolamento diurno.

In sostanza, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, con il suo effetto retroattivo, ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione.

La Corte EDU, con la sentenza Scoppola del 17 settembre 2009, ha ritenuto, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, che «l’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa», che si traduce «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».

Si tratta, nell’ambito dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, di un principio analogo a quello contenuto nel quarto comma dell’art. 2 cod. pen., che dalla Corte di Strasburgo è stato elevato al rango di principio della Convenzione.

Posto questo principio la Corte ha rilevato che «l’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 si traduce in una disposizione penale posteriore che prevede una pena meno severa» e che «l’articolo 7 della Convenzione imponeva dunque di farne beneficiare il ricorrente». Di conseguenza, secondo la Corte, «nella fattispecie vi è stata violazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione».

Com’è noto, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che «le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 236, n. 113, n. 80 – che conferma la validità di tale ricostruzione dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 – e n. 1 del 2011; n. 196 del 2010; n. 311 del 2009), e deve perciò concludersi che, costituendo l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., una norma interposta, la sua violazione, riscontrata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione, sezioni unite penali, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.

 

F.to:

Franco GALLO, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2013.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI