DICHIARATA INAMMISSIBILE LA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITÀ SULL’ART. 3 DELLA C.D. LEGGE BALDUZZI

La Corte costituzionale – nel dichiarare inammissibile la questione sul rilievo che l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta impedisce la necessaria verifica della rilevanza della questione, affermata dal rimettente in termini meramente astratti e apodittici – ricorda come la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente.
Ritenuto che, con ordinanza del 21 marzo 2013, il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, secondo comma, 27, 28, 32, 33 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189;
che il rimettente premette di essere investito del processo nei confronti di alcuni operatori sanitari di un istituto ortopedico, imputati del reato di lesioni personali gravi, cagionate ad una paziente «con colpa generica e per violazione dell’arte medica»;
che, esaurita l’istruzione dibattimentale, nelle more della discussione finale era entrato in vigore l’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 189 del 2012, il cui comma 1 stabilisce che «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve», fermo restando l’obbligo risarcitorio di cui all’articolo 2043 del codice civile e con l’ulteriore precisazione che «il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo»;
che il citato art. 3 prosegue, nei successivi commi, prevedendo un sistema di agevolazione assicurativa per gli esercenti le professioni sanitarie e una tabella per le somme dovute a titolo di risarcimento del danno biologico;
che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con plurimi parametri costituzionali;
che rimarrebbe assolutamente incerto, anzitutto, se, con la formula «non risponde penalmente per colpa lieve», la norma escluda che versi in colpa lieve il sanitario attenutosi alle linee guida e alle buone pratiche, o preveda invece una causa di non punibilità in senso stretto a favore del sanitario cui pure sia addebitabile una colpa lieve;
che l’equivocità della locuzione in questione, non superabile tramite «una mera attività ermeneutica», renderebbe il dato normativo impreciso, ponendolo in contrasto con i principi di ragionevolezza e di tassatività della fattispecie penale (artt. 3 e 25, secondo comma, Cost.), nonché con la funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.);
che la norma censurata violerebbe il principio di tassatività, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., anche in ragione dell’omessa definizione del concetto di «colpa lieve», che segna il limite di operatività dell’«esimente» da essa delineata: concetto venuto sinora in rilievo, nell’ordinamento penale – secondo il giudice a quo – solo nell’ambito della valutazione del grado della colpa, richiesta dall’art. 133 del codice penale ai fini della quantificazione della pena, e senza, peraltro, che sul punto si siano formati orientamenti giurisprudenziali univoci;
che la disposizione sottoposta a scrutinio determinerebbe, inoltre, una irragionevole compressione della libertà della scienza, in violazione degli artt. 3 e 33 Cost.;
che la ratio della non punibilità dell’operatore sanitario, da essa sancita, risiederebbe, infatti, nell’intento di contrastare la cosiddetta «medicina difensiva»: vale a dire, la tendenza della classe medica ad adottare scelte diagnostiche e terapeutiche che valgano a porla al riparo da conseguenze penali e da richieste risarcitorie, ma che non necessariamente rispondono all’interesse del paziente;
che la soluzione concretamente adottata dal legislatore tradirebbe, tuttavia, tale finalità, rischiando «di burocratizzare le scelte del medico e quindi di avvilire il progresso scientifico»: essa “premierebbe”, infatti, coloro che prestano una «acritica e rassicurante adesione» alle linee guida e alle buone pratiche già codificate, penalizzando invece chi, con una pari dignità scientifica, se ne discosta, con l’effetto di bloccare l’evoluzione del pensiero scientifico e la sperimentazione clinica;
che la norma denunciata violerebbe l’art. 3 Cost. anche per l’irragionevole ampiezza assunta dalla sua sfera applicativa, in contrasto con l’evidenziata ratio;
che, a fronte della genericità delle espressioni usate, la previsione di non punibilità sarebbe infatti riferibile, sul piano soggettivo, anche ad operatori sanitari non chiamati ad adottare scelte diagnostiche o terapeutiche, o le cui scelte non attengono alla salute umana (quali veterinari, farmacisti, biologi o psicologi, tutti compresi nel genus degli esercenti le professioni sanitarie), e, sul piano oggettivo, a qualunque reato colposo, anche diverso dai reati contro la persona;
che, in ulteriore violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, la norma censurata renderebbe gli operatori sanitari non punibili anche per i reati colposi in materia di sicurezza del lavoro, quando pure si tratti di soggetti investiti di specifiche posizioni di garanzia a tale riguardo, in quanto aventi la qualifica di datore di lavoro, dirigente, preposto o lavoratore;
che l’art. 3 Cost. sarebbe violato, ancora, sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento tra gli operatori sanitari e i soggetti con diversa qualifica che cooperino colposamente alla realizzazione del medesimo evento lesivo, posto che, a parità di grado di colpa, solo i primi beneficerebbero dell’esonero da responsabilità penale per i fatti commessi con colpa lieve;
che, in contrasto con gli artt. 3, 24, 32 e 111 Cost., la disposizione denunciata comprometterebbe, inoltre, la tutela giudiziaria della persona offesa, la quale, nei casi previsti dalla disposizione stessa, potrebbe agire solo in sede civile, vedendosi così privata dei più ampi strumenti di tutela offerti dal processo penale, diversamente da quanto avviene in rapporto ai reati commessi con colpa lieve da soggetti non esercenti la professione sanitaria;
che nell’ipotesi, poi, in cui i sanitari fossero dipendenti pubblici, essi fruirebbero, in violazione degli artt. 3 e 28 Cost., di un trattamento privilegiato rispetto a quello riservato a tutti gli altri dipendenti pubblici, i quali, a parità di condotta lievemente colposa lesiva dei medesimi beni giuridici, continuano invece a rispondere penalmente;
che assolutamente impreciso e foriero, dunque, di un ulteriore vulnus del principio di tassatività sarebbe, infine, il riferimento alle «linee guida» e alle «buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica», delle quali non vengono precisate le fonti, le modalità di produzione e le procedure di diffusione, con il risultato di rendere indeterminabile l’area della non punibilità;
che la questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo, giacché, trattandosi di norma più favorevole al reo, essa «potrebbe essere di diretta e immediata applicazione al caso sub iudice, salva ogni valutazione sul merito della vicenda processuale»;
che l’accoglimento della questione, d’altra parte, comporterebbe il semplice ripristino della normativa generale precedente, senza ledere la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle fattispecie penali;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per omessa descrizione della fattispecie concreta o, comunque, infondata nel merito.
Considerato che il Tribunale di Milano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, nella parte in cui, al comma 1, dispone che «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve»: previsione che il rimettente reputa lesiva di un’ampia platea di parametri costituzionali (artt. 3, 24, 25, secondo comma, 27, 28, 32, 33 e 111 della Costituzione);
che – conformemente a quanto eccepito dall’Avvocatura dello Stato – il giudice a quo ha omesso di descrivere compiutamente la fattispecie concreta sottoposta al suo giudizio e, conseguentemente, di fornire una adeguata motivazione in ordine alla rilevanza della questione;
che il rimettente si limita, in effetti, a riferire di essere investito del processo penale nei confronti di alcuni operatori sanitari, imputati del reato di lesioni personali colpose gravi, cagionate ad una paziente «con colpa generica e per violazione dell’arte medica»;
che il rimettente non specifica la natura dell’evento lesivo, le modalità con le quali esso sarebbe stato causato e il grado della colpa ascrivibile agli imputati; ma, soprattutto, non precisa se, nell’occasione, i medici si siano attenuti – o, quantomeno, se sia sorta questione in ordine al fatto che essi si siano attenuti – a «linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica» proprie del contesto di riferimento, così che possa venire effettivamente in discussione l’applicabilità della norma censurata;
che, al riguardo, occorre anche considerare come, nelle prime pronunce emesse in argomento, la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente;
che l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta impedisce alla Corte la necessaria verifica della rilevanza della questione, affermata dal rimettente in termini meramente astratti e apodittici;
che le rilevate manchevolezze dell’ordinanza di rimessione comportano, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 99 del 2013, n. 314 e n. 268 del 2012), la manifesta inammissibilità della questione.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi 
LA CORTE COSTITUZIONALE 
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, secondo comma, 27, 28, 32, 33 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 2013.