SULL’USUCAPIONE DELLA SERVITU’ DI MANTENIMENTO DI UNA COSTRUZIONE A DISTANZA ILLEGALE

Cass. civ., sez. II, ord., 5 settembre 2023, n. 25843

 

Deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme codicistiche o urbanistiche regolamentari. Se dalla norma codicistica o da quella integrativa discende il diritto soggettivo del vicino di pretendere che il confinante edifichi a distanza non inferiore a quella prevista, si deve nondimeno, ammettere, ove anche si consideri vietata la deroga convenzionale, che l’avvenuta edificazione (con opere quindi permanenti e visibili), mantenuta con i requisiti di legge per oltre venti anni, dia luogo al verificarsi dell’usucapione, da parte del confinante, del diritto a mantenere l’immobile a distanza inferiore a quella legale: senza che ciò infici, naturalmente, le facoltà della pubblica amministrazione, restando, così, salva la disciplina pubblicistica e l’osservanza degli standard di qualsivoglia natura che il legislatore o l’amministrazione abbiano fissato, anche alla stregua, eventualmente, di normativa di fonte sovranazionale.

Ciò che vien meno è soltanto la facoltà del singolo di far valere il proprio diritto soggettivo, attribuitogli in conseguenza della disposizione rispondente all’interesse generale, ma senza assunzione di un potere privato confondibile con quello dell’amministrazione. Entrambi i soggetti possono concorrere alla tutela dell’interesse fissato dall’ordinamento, ma ferma rimane la distinzione dei caratteri tra potere privato e potere pubblico, ciascuno contraddistinto dai limiti generali della categoria cui appartiene. E ciò giustifica anche il diverso trattamento da riservare da un lato agli accordi di deroga e dall’altro al meccanismo dell’usucapione: ove quest’ultima operi, resta alla sola pubblica amministrazione il potere (pubblico) di agire per conformare la proprietà al modo previsto dal legislatore.

 

 

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. PAPA Patrizia – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Svolgimento del processo

che:

– con atto di citazione notificato il 30.05/01.06.2009 A.A. e B.B., in qualità di proprietari di un compendio immobiliare (sito in (Omissis)), evocavano, dinanzi al Tribunale di Massa, C.C. e A.A., proprietari del fondo confinante, chiedendo che venisse accertata l’illegittimità della costruzione di un fabbricato realizzato da questi ultimi per violazione delle distanze legali, nonchè l’arretramento del muretto di recinzione per invasione del fondo, oltre al risarcimento dei danni. In particolare, gli attori contestavano, nonostante la regolarizzazione in via amministrativa delle opere mediante il rilascio di concessione in sanatoria da parte del Comune, la violazione delle distanze legali di cui al D.M. n. 1444 del 1968 e al Piano Regolatore Generale del Comune di Massa vigente all’epoca della costruzione;

– instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti, che in via principale assumevano la legittimità della loro costruzione e, in via subordinata, eccepivano l’intervenuta usucapione del diritto a conservare l’edificio a distanza inferiore a quella legale, oltre a chiedere dichiararsi la litispendenza in relazione alla domanda di arretramento del muretto di recinzione, già proposta in via riconvenzionale in altro giudizio pendente dinnanzi allo stesso Tribunale di Massa, il Tribunale adito, con sentenza n. 1027/2014, respingeva tutte le domande attoree, dichiarava la litispendenza in relazione alla domanda di arretramento del muretto, per la quale disponeva la cancellazione della causa dal ruolo, e accoglieva l’eccezione dei convenuti di intervenuta usucapione a mantenere il fabbricato a distanza inferiore da quella legale, ritenendo i limiti imposti dai piani regolatori e dagli strumenti urbanistici, richiamati dall’art. 873 c.c., comma 2, derogabili dai privati e, conseguentemente, usucapibile il diritto reale al mantenimento del fabbricato;

– in virtù di impugnazione interposta da A.A. e B.B., la Corte di appello di Genova, nella resistenza degli appellati, con la sentenza n. 1479/2017, in parziale accoglimento del gravame e in parziale riforma della decisione del giudice di prime cure, revocava la pronuncia di litispendenza rispetto alla domanda di arretramento del muretto di recinzione, confermata nel resto la pronuncia.

A sostegno della decisione la Corte territoriale – illustrati i motivi di impugnazione (violazione e falsa applicazione degli artt. 273 e 39 c.p.c., nella parte in cui il Tribunale aveva dichiarato la litispendenza con altro giudizio nonostante le cause pendessero avanti lo stesso giudice; insistenza per l’accoglimento della domanda di accertamento della illegittimità della costruzione dell’edificio per violazione delle distanze legali e delle conseguenti domande di condanna alla demolizione e al risarcimento dei danni, ritenendo i limiti imposti dalla disciplina codicistica e regolamentare inderogabili dalle parti private, con conseguente impugnazione anche del capo della sentenza con cui si dichiarava l’intervenuta usucapione del diritto a mantenere l’edificio a distanza inferiore da quella legale; impugnata la sentenza anche in relazione alla mancata compensazione delle spese del giudizio di primo grado) – revocava la dichiarazione di litispendenza tra la domanda di arretramento del muretto di recinzione proposta nel giudizio de quo e quella proposta in via riconvenzionale in altro giudizio, poichè entrambe pendenti avanti al medesimo giudice, per cui andava disposta la riunione. Nel merito, ritenendo “non più possibile – allo stato – disporre la riunione delle cause”, ha comunque escluso una propria decisione sul punto.

Quanto, al merito delle domande relative alla illegittimità della costruzione realizzata a distanza inferiore a quella legale, nel confermare la decisione del primo giudice, riteneva intervenuta la maturazione dell’usucapione risultando dalla c.t.u. che l’edificio in contestazione era stato realizzato negli anni (Omissis). Infine, in accoglimento della censura relativa alle spese, le compensava nella misura di un terzo;

– per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Genova ricorrono A.A. – B.B., sulla base di quattro motivi, cui resistono C.C. – A.A. che propongono anche ricorso articolato in due motivi;

– in prossimità dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis. 1 c.p.c.

Motivi della decisione

che:

– preliminarmente, in merito alla richiesta di riunione avanzata in memoria dai ricorrenti deve rilevarsi che “Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice, ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c., di evitare ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da concrete garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti. Ne deriva che l’istanza per la trattazione congiunta di una pluralità di giudizi relativi alla medesima vicenda, non espressamente contemplata dagli artt. 115 e 82 disp. att. c.p.c., deve essere sorretta da ragioni idonee ad evidenziare i benefici suscettibili di bilanciare gli inevitabili ritardi conseguenti all’accoglimento della richiesta, bilanciamento che dev’essere effettuato con particolare rigore nel giudizio di cassazione in considerazione dell’impulso d’ufficio che lo caratterizza” (Cass., Sez. Un., 30 marzo 2021 n. 8774).

Nel caso di specie, non sono state evidenziate ragioni che possano giustificare e bilanciare il rinvio ed i ritardi che sarebbero necessari per la richiesta riunione con il giudizio R.G. n. 23579/2021 al fondo della quale è stata dedotta la sola connessione trattando la questione della litispendenza;

– ciò premesso, il ricorso principale si fonda su quattro motivi. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 273 e 39 c.p.c.;

con il secondo mezzo si denunzia l’omessa pronuncia, per non avere la Corte di Appello, nell’accogliere il motivo relativo alla mancata riunione dei giudizi relativi alla domanda di arretramento del muretto di recinzione, deciso nel merito sulla domanda de qua, ritendo non più operabile la riunione. I ricorrenti deducono che al tempo della decisione della Corte di Appello, la medesima domanda proposta in altro giudizio pendeva avanti alla medesima Corte di Appello, sezione II, sicchè, anche in applicazione dei principi espressi dalla stessa in relazione alla sentenza del giudice di primo grado, avrebbe dovuto riunire essa stessa i giudizi e decidere nel merito sulla domanda di arretramento del muretto.

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano omessa pronuncia in ordine alla domanda risarcitoria che ricorrenti affermano essere stata svolta, come emergerebbe anche dalla formulazione delle conclusioni degli appellanti odierni ricorrenti principali, non solo in riferimento alla domanda di arretramento del fabbricato principale, ma anche in relazione all’ulteriore domanda di occupazione illecita di parte del fondo ad opera del muretto di recinzione.

I primi tre mezzi vanno esaminati unitariamente, vertendo sulla medesima questione della omessa pronuncia sulla domanda relativa alla domanda di arretramento del muretto di recinzione.

Essi sono inammissibili.

Dalla memoria dei controricorrenti emerge con evidenza che la questione muretto è stata ormai decisa dalla Corte d’Appello con sentenza 1536/19 (prodotta) che ha confermato il rigetto della relativa domanda di rimozione.

La circostanza che vi sia stata una decisione di merito su detta domanda, seppure in un diverso procedimento, comporta che la sentenza emessa va ritenuta indicativa della sopravvenuta carenza di interesse a conseguire una pronuncia giudiziale nel presente giudizio facendo già parte di una statuizione del giudice investito della specifica questione; le ragioni della parte saranno fatte valere con l’impugnazione di quella pronuncia (e infatti, pende ricorso per cassazione n. 23579/2021, come riconoscono anche i ricorrenti nella loro memoria).

– con il quarto motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 8731061 e 1158 c.c., nonchè del D.M. n. 1444 del 1968art. 9. In primo luogo, si dolgono per essere stata riconosciuta l’usucapibilità della servitù di mantenimento delle costruzioni a distanze inferiori da quelle legali, ciò determinando un illegittimo aggiramento dell’inderogabilità delle norme che impongono il rispetto di distanze minime tra fondi finitimi. In secondo luogo, i ricorrenti censurano la sentenza nella parte in cui, pur ammettendo l’usucapibilità della servitù de qua, ha ritenuto usucapibile la servitù al mantenimento di costruzioni a distanze infiori a quelle legali anche nel caso in cui si tratti di costruzioni abusive, non sussistendo, nel caso di specie, il presupposto dell’inerzia del titolare ai fini dell’utilità del possesso per il maturare dell’usucapione a fronte del concreto esercizio da parte della Pubblica Amministrazione del proprio potere di conformazione dell’attività edilizia alla disciplina urbanistico-edilizia, esplicatosi per mezzo di ordini di demolizione e ordinanze di sospensione dei lavori.

Il motivo è infondato.

Come ricorda Cass. ord. n. 343/2023, seppur non è mancata qualche pronuncia che ha opinato in senso contrario (come Cass. n. 20769 del 2007), ormai da tempo, questa Corte costantemente afferma che, in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali (Cass. n. 4240 del 2010Cass. n. 22824 del 2012, la quale ha significativamente respinto un’istanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite; Cass. n. 3979 del 2013Cass. n. 11052 del 2016Cass. n. 1395 del 2017Cass. n. 8227 del 2018, in motiv.; più di recente, Cass. n. 25863 del 2021, in motiv.; Cass. n. 12865 del 2022, in motiv.). Pertanto, non vi è ormai nessun contrasto di giurisprudenza, come del resto ribadito dal Primo Presidente della Corte con il provvedimento del 13.07.2022 emesso nel giudizio definito con la citata ordinanza n. 343/2023.

L’usucapibilità del diritto a tenere un immobile a distanza inferiore da quella legale non equivale, in effetti, alla stipula pattizia di una deroga in tal senso perchè risponde alla diversa e ulteriore esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo. Se dalla norma codicistica o da quella integrativa discende, come comunemente si afferma, il diritto soggettivo del vicino di pretendere che il confinante edifichi a distanza non inferiore a quella prevista, si deve, nondimeno, ammettere, ove anche si consideri vietata la deroga convenzionale, che l’avvenuta edificazione (con opere quindi permanenti e visibili), mantenuta con i requisiti di legge per oltre venti anni, dia luogo al verificarsi dell’usucapione, da parte del confinante, del diritto a mantenere l’immobile a distanza inferiore a quella legale: senza che ciò infici, naturalmente, le facoltà della pubblica amministrazione, restando, così, salva la disciplina pubblicistica e l’osservanza degli standard di qualsivoglia natura che il legislatore o l’amministrazione abbiano fissato, anche alla stregua, eventualmente, di normativa di fonte sovranazionale (v. in termini e di recente, Cass. n. 343 del 2023 cit., non massimata).

Ciò che vien meno è soltanto la facoltà del singolo di far valere il proprio diritto soggettivo, attribuitogli in conseguenza della disposizione rispondente all’interesse generale, ma senza assunzione di un potere privato confondibile con quello dell’amministrazione. Entrambi i soggetti possono concorrere alla tutela dell’interesse fissato dall’ordinamento, ma ferma rimane la distinzione dei caratteri tra potere privato e potere pubblico, ciascuno contraddistinto dai limiti generali della categoria cui appartiene. E ciò giustifica anche il diverso trattamento da riservare da un lato agli accordi di deroga e dall’altro al meccanismo dell’usucapione: ove quest’ultima operi, resta alla sola pubblica amministrazione il potere (pubblico) di agire per conformare la proprietà al modo previsto dal legislatore.

Non sono neanche di ostacolo a questa concezione le possibili frodi prospettate dalla giurisprudenza: si tratta di un inconveniente (dipendente, comunque, da un congegno macchinoso e precario) che non giustifica un inquadramento incoerente dei principi vigenti sui modi di acquisto dei diritti reali e sulla disciplina dei limiti legali della proprietà. Tantomeno questo inconveniente vale a giustificare la illogica dicotomia tra tutela delle distanze di fonte codicistica e di fonte regolamentare.

Nè sono configurabili le temibili diseconomie esterne, come le conseguenze negative sul piano della salute e dell’ambiente, che gli studiosi di analisi economica del diritto rinvengono nella deroga pattizia alle distanze: una cosa, infatti, è incidere sui poteri pubblici, o consentire una generalizzata derogabilità, il che può cagionare effetti lesivi permanenti dell’interesse generale tutelato; altra cosa è ammettere che operi il fenomeno dell’usucapione, che vale soltanto a riportare il meccanismo di contemperamento dei diritti soggettivi nell’alveo ordinario previsto dal legislatore, escludendo la sussistenza, nel circoscritto ambito della proprietà immobiliare, di diritti soggettivi a tutela rafforzata (così, pressochè testualmente, Cass. n. 4240 del 2010, in motiv.).

Deve, in definitiva, ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici: e ciò vale anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem (Cass. n. 3979 del 2013Cass. n. 1395 del 2017Cass. n. 25863 del 2021);

– venendo all’esame del ricorso incidentale, esso si fonda su due motivi.

Con il primo di essi i ricorrenti incidentali lamentano la violazione dell’art. 42 c.p.c., nella parte in cui la Corte di Appello non ha accolto l’eccezione di inammissibilità del motivo relativo alla dichiarazione di litispendenza della domanda di arretramento del muretto di recinzione, costituendo, questa, pronuncia su domanda autonoma e meramente processuale, impugnabile esclusivamente con regolamento di competenza.

La censura è inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse.

E’ ben vero che l’eccezione di inammissibilità del motivo di appello relativo alla richiesta di dichiarazione di litispendenza era astrattamente configurabile, tuttavia, la peculiarità del caso di specie, stante la pronuncia formulata con riferimento al primo e al secondo motivo del ricorso principale, con la quale si è tenuto conto che il decidente di merito ha statuito sul rapporto processuale tra le medesime parti relativamente alla domanda di arretramento del muro di recinzione (tanto vero che la decisione ha formato oggetto di impugnazione) facendo venire meno l’interesse ad una pronuncia sulla relativa domanda, deve ritenersi venuto meno anche l’interesse della parte ricorrente incidentale ad una pronuncia per essere la statuizione sul predetto rapporto sostanziale (dedotto in giudizio ai fini della litispendenza) preclusiva alla necessità dello stesso regolamento di competenza (cfr. Cass. 10 gennaio 2011 n. 371Cass. 23 aprile 2010 n. 9754);

– con il secondo motivo i ricorrenti incidentali impugnano il capo della sentenza relativo alla compensazione delle spese del giudizio di primo grado, per violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. Il motivo è infondato.

In tema di liquidazione delle spese processuali in caso di riforma totale o parziale della sentenza di primo grado, è costante nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione del principio – dal quale questo collegio non intende discostarsi – secondo cui “il giudice di appello, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poichè la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicchè viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado perchè la sentenza di primo grado è stata riformata e quindi si dovevano liquidare e rideterminare le spese di entrambi i gradi” (così di recente: Cass. 18 marzo 2014 n. 6259; nel medesimo senso si vedano, tra le tante, Cass. 30 ottobre 2013 n. 8718; 14 ottobre 2013 n. 23226; 30 agosto 2010 n. 18337; 22 dicembre 2009 n. 26985; 11 giugno 2008 n. 15483). Ed, infatti, questa Corte ha precisato che (Cass. 22 febbraio 2016 n. 3438) nel regolare le spese di lite in caso di reciproca soccombenza, il giudice di merito deve effettuare una valutazione discrezionale, non arbitraria ma fondata sul principio di causalità, che si specifica nell’imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate, ovvero per aver avanzato pretese infondate, e nell’operare una ideale compensazione tra essi, sempre che non sussistano particolari motivi, da esplicitare in motivazione, per una integrale compensazione o comunque una modifica del carico delle spese in base alle circostanze di cui è possibile tenere conto ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c., nel testo temporalmente vigente.

Pertanto (cfr. Cass. n. 8421 del 2017), il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi.

Orbene, pacifica la ricorrenza di un’ipotesi di soccombenza reciproca, alla luce della lettura del dispositivo della sentenza impugnata, rientra nell’apprezzamento del giudice di merito la valutazione circa l’individuazione della parte prevalentemente soccombente, non risultando quindi sindacabile la scelta di compensare in parte le spese nè la percentuale entro la quale operare la compensazione.

Tirando le fila del discorso sin qui svolto, può affermarsi che laddove sia dispostala compensazione parziale delle spese di lite, è la parte che abbia dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, e alla quale quindi questi siano in maggior misura imputabili, quella che può essere condannata al pagamento di tale corrispondente maggior misura. Al fine di individuare la parte alla quale siano imputabili in misura prevalente gli oneri processuali, il giudice di merito dovrà effettuare una valutazione discrezionale, fondata sul criterio costituito dal principio di causalità, il quale si specifica nell’imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per avere resistito a pretese fondate ovvero per avere avanzato pretese infondate, e nell’operare una ideale compensazione tra essi.

Si tratta di una conclusione che appare esplicitamente ed adeguatamente motivata e pertanto non può trovare censura nella presente sede di legittimità.

La corte di appello ha chiaramente fatto riferimento, nella sua pronunzia, alla circostanza che la domanda originaria degli A.A.-B.B. era stata proposta su una questione di diritto – come quella della usucapibilità della servitù – che aveva visto un mutamento di indirizzo della Corte di cassazione e che l’appello era stato promosso nella convinzione che il termine dell’usucapione decorresse dalla data della regolarizzazione amministrativa della edificazione, tenuto conto, infine, che l’accoglimento parziale dell’appello su una domanda aveva un’importanza marginale nell’economia complessiva del giudizio: la valutazione si è dunque sostanzialmente svolta per accertare che quale parte doveva essere individuata come parte che aveva dato causa in via prevalente agli oneri processuali.

Considerato che la valutazione in ordine a tali questioni costituisce giudizio di fatto che, in quanto adeguatamente motivato dal giudice del merito, non può essere censurato in sede di legittimità.

In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, entrambi i ricorsi devono essere respinti.

In considerazione dell’esito del presente giudizio, si ritengono sussistere i presupposti per la integrale compensazione delle spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte sia dei ricorrenti principali sia di quelli incidentali, di un ulteriore importo ciascuno a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta entrambi i ricorsi;

dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte sia dei ricorrenti principali sia di quelli incidentali, di un ulteriore importo ciascuno a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 15 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2023