IL DANNO DA LESIONE DEL CONSENSO INFORMATO IN AMBITO SANITARIO

Cass. civile, Sez. III, 30 ottobre 2023, n. 30032

 

La violazione da parte del medico del dovere di informare il paziente può causare due diversi tipi di danni:

  • un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti;
  • un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando a causa del deficit informativo il paziente abbia subito un pregiudizio patrimoniale oppure non patrimoniale e, in quest’ultimo caso, di apprezzabile gravità, diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Se ricorrono il consenso presunto e il danno alla salute, ma non la condotta inadempiente oppure colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria, il danno da lesione del diritto costituzionalmente tutelato all’autodeterminazione sarà comunque risarcibile, qualora il paziente alleghi e provi che dalla inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente.

 

 

Svolgimento del processo

1. A.A. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Lecce, i dottori I.I. e H.H., chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni da lei subiti a causa della negligenza e imperizia nella cura della patologia dermatologica dalla quale era stata colpita.

A sostegno della domanda espose, tra l’altro, di essersi sottoposta, in data (Omissis), ad un intervento chirurgico ambulatoriale, eseguito dal Dott. I.I., per l’asportazione di una cisti sebacea del cuoio capelluto, senza che in quella circostanza il medico la avvisasse della necessità di compiere un esame istologico dei tessuti. Verificatasi, alcuni mesi dopo, una recidiva, l’attrice si era rivolta al Dott. H.H., il quale nel novembre 1999 l’aveva sottoposta ad una nuova analoga asportazione, anche questa volta senza indicazione della necessità di un esame istologico dei tessuti, nonostante in tale occasione vi fosse stato un abbondante sanguinamento. Ricomparse poi, nel 2002, ulteriori cisti nel medesimo punto, l’attrice aveva deciso di rivolgersi all'(Omissis) – dove le era stata diagnosticata una neoplasia (istocitoma recidivante di Darrier-Ferraud) – e all’Istituto tumori di Milano, dove era stata compiuta la diagnosi di dermatofibrosarcoma protuberans. La A.A. fece presente, quindi, di essersi dovuta sottoporre ad ulteriori cure, con demolizione di ampia sezione del cuoio capelluto e relativa ricostruzione.

Sulla base di tale svolgimento dei fatti, l’attrice chiese la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni conseguenti all’omesso espletamento di un esame istologico dei tessuti, con evidente ritardo nella diagnosi della malattia tumorale dalla quale era stata colpita.

Si costituì in giudizio il Dott. I.I. il quale, nel chiedere il rigetto della domanda, sollecitò la chiamata in causa della Aviva Italia Spa sua assicuratrice, per essere manlevato in caso di condanna.

Si costituì in giudizio anche il Dott. H.H., il quale chiese pure il rigetto della domanda, specificando di aver consigliato alla paziente, in occasione del secondo intervento di rimozione, di far eseguire un esame istologico ed una TAC del cranio.

Si costituì la società di assicurazioni, eccependo la non operatività della polizza, l’esclusione della garanzia e la prescrizione del diritto, chiedendo comunque il rigetto della domanda.

Il Tribunale, dopo aver disposto l’espletamento di due c.t.u. affidate a due diversi professionisti, accolse parzialmente la domanda nei confronti del Dott. H.H., che condannò al pagamento della somma di Euro 16.571,80, con il carico delle spese di lite; rigettò le ulteriori domande; condannò l’attrice al pagamento delle spese in favore del Dott. I.I. e condannò quest’ultimo alle spese in favore della società di assicurazioni Aviva Italia.

2. La pronuncia è stata impugnata in via principale da B.B., C.C., F.F. e G.G., tutti in qualità di eredi del defunto Dott. H.H. e in via incidentale da A.A. e la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 3 marzo 2020, accogliendo in parte entrambe le impugnazioni, ha accolto la domanda della danneggiata solo in relazione alla violazione del principio del consenso informato, condannando tanto il Dott. I.I. quanto gli eredi del Dott. H.H. al pagamento, in favore della danneggiata, della somma di Euro 2.000 ciascuno; ha confermato, nel resto, la sentenza di primo grado e ha regolato le spese.

2.1. La Corte territoriale ha esaminato prima l’appello principale e ha richiamato, a questo fine, le due c.t.u. svolte in primo grado. In particolare, ha ricordato che il c.t.u. Dott. L.L. aveva osservato di non essere in possesso di elementi tali da conoscere con certezza quale fosse il quadro clinico che si era trovato ad affrontare il Dott. I.I.; tuttavia, in considerazione della stretta connessione cronologica e dell’evoluzione successiva della malattia, doveva ritenersi che la patologia tumorale fosse esistente già in occasione del primo intervento, ritenendo perciò inadempiente il primo medico operante. Quanto al Dott. H.H., la citata c.t.u. aveva ribadito l’esistenza di una responsabilità anche a suo carico, posto che l’abbondante sanguinamento e il ripetersi della patologia, avente un aspetto macroscopico, avrebbe dovuto far insorgere il dubbio diagnostico, con conseguente indicazione della necessità di un esame istologico. Il c.t.u., in definitiva, aveva concluso nel senso che una diagnosi tempestiva avrebbe probabilmente evitato un intervento più complesso e demolitorio, con esiti cicatriziali di minori dimensioni.

Ciò premesso, la Corte salentina ha tuttavia ritenuto di non poter condividere le conclusioni raggiunte nell’indicata consulenza.

La Corte è partita dall’affermazione secondo cui una cisti sebacea è ben differente rispetto al dermatofibrosarcoma, il quale interessa i tessuti in profondità e impone una completa escissione con margini indenni di almeno tre centimetri. Non appariva pertanto verosimile che una tale “evidentissima” diversità potesse essere sfuggita a due medici, uno dei quali (il Dott. I.I.) specialista in dermatologia. Era quindi da ritenere “altamente probabile” che il primo medico, avendo rilevato la presenza di una cisti sebacea, avesse ritenuto superfluo far eseguire un esame istologico, non necessario in presenza di quest’ultima patologia.

Quanto al Dott. H.H., intervenuto successivamente, la Corte d’appello ha affermato che egli, trovandosi in presenza di una recidiva della cisti sebacea, “già precedentemente diagnosticata da uno specialista dermatologo”, doveva aver ritenuto non necessario procedere ad un ulteriore approfondimento bioptico, benchè egli stesso avesse affermato, ma non provato, di averne consigliato l’esecuzione alla paziente.

In definitiva, cioè, il decorso post-operatorio di entrambi gli interventi non forniva elementi sufficienti per affermare che la grave patologia successivamente accertata fosse già presente o concomitante nel momento dell’escissione di quelle che apparivano come due cisti sebacee. In considerazione, inoltre, del “notevole lasso di tempo” intercorso tra i due interventi in questione e l’individuazione della patologia tumorale, la Corte di merito ha concluso nel senso che, “con elevato grado di probabilità”, il dermatofibrosarcoma fosse sopravvenuto. Per cui, non essendo stata raggiunta la prova dell’esistenza del nesso di causalità tra le condotte asseritamente negligenti dei medici e i successivi interventi risultati necessari, non poteva essere imputato a loro carico alcun ritardo diagnostico, con conseguente rigetto della domanda risarcitoria proposta dalla A.A..

2.2. Respinta, in questi termini, la domanda di risarcimento dei danni per colpa professionale, la Corte leccese ha ritenuto di dover accogliere, invece, l’ulteriore e diversa domanda proposta dalla paziente in relazione alla lesione del diritto all’autodeterminazione.

Dopo aver ricapitolato le principali affermazioni della giurisprudenza di legittimità in argomento, la sentenza d’appello ha stabilito che nel caso in esame la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario, lamentata dalla A.A. “e non contestata”, aveva certamente leso il diritto della paziente “a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alla natura recidivante della formazione asportata, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative”.

Di qui l’accoglimento della domanda nei limiti di cui si è detto.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Lecce propone ricorso principale A.A. con atto affidato a cinque motivi.

Resistono con due separati controricorsi il Dott. I.I. e gli eredi del Dott. H.H., cioè B.B., C.C. (in proprio e in qualità di procuratrice generale di D.D. ed E.E.), F.F. e G.G..

Il Dott. I.I. propone anche ricorso incidentale affidato a due motivi.

Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

Ricorso principale.

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), la violazione degli artt. 40 e 41 c.p., degli artt. 1223 e 2697 c.c., e la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., n. 4), in conseguenza dell’omesso esame del fatto decisivo del giudizio, oggetto di discussione, attinente al collegamento consequenziale tra il primo intervento chirurgico, la successiva e immediata recidiva, il successivo intervento chirurgico e l’ulteriore recidiva nella stessa zona del cuoio capelluto.

La ricorrente, dopo aver richiamato i principi in tema di causalità e le argomentazioni della Corte d’appello per escludere l’esistenza del nesso di causalità, si riporta alla c.t.u. del Dott. L.L., sostenendo che la Corte d’appello non ne avrebbe adeguatamente valutato le conclusioni. La sentenza avrebbe violato le norme sull’onere della prova, perchè era il Dott. I.I. tenuto a dimostrare che la cisti sebacea si presentava con un aspetto tale da escludere ogni dubbio sulla sua natura. Ancora più grave sarebbe, poi, la posizione del Dott. H.H.; questi aveva sostanzialmente ammesso di aver consigliato alla paziente di far svolgere l’esame istologico, scelta ancora più obbligata in considerazione del breve tempo della recidiva e del vistoso sanguinamento che si era presentato in occasione del secondo intervento. Ove la Corte d’appello avesse avuto qualche dubbio sulle conclusioni del c.t.u, avrebbe potuto e dovuto riconvocarlo, per cui la decisione impugnata sarebbe carente anche dal punto di vista dell’attività istruttoria.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), la violazione della Convenzione di Oviedo (recepita con la L. 28 marzo 2011, n. 145) e omesso esame di un fatto decisivo costituito dall’affermazione del c.t.u. Dott. L.L. secondo cui la cisti sebacea è ben differente rispetto al dermatofibrosarcoma.

Secondo la ricorrente, la Corte di merito, pur accogliendo l’appello incidentale in ordine al consenso informato, non ne avrebbe tratto le logiche conseguenze. Il consenso informato, infatti, non costituisce una mera formalità, ma deve tradursi nell’informazione, verso il paziente, sulle cure e sulle indagini da compiere per accertare la natura della malattia. Nonostante tale violazione, la sentenza impugnata non ha tratto ragioni per una presunzione idonea ad invertire l’onere della prova. La ricorrente ritiene, invece, che la presunzione di qualificazione professionale dei due medici contrasti con l’effettivo svolgimento dei fatti. La sentenza, quindi, viene ritenuta censurabile per una serie di ragioni, tra le quali: aver trascurato la natura confessoria delle dichiarazioni del Dott. H.H., il quale aveva sostenuto di aver consigliato alla paziente di far svolgere l’esame istologico; l’aver escluso la responsabilità dei due medici sulla base di presunzioni semplici, ben lontane dal costituire prove, anche perchè la cisti sebacea può recidivare, ma non riprodursi in un maggior numero; e comunque, se non fosse stato possibile distinguere subito la cisti sebacea dal dermatofibrosarcoma, ciò avrebbe costituito un motivo in più per accompagnare all’intervento l’esecuzione di un esame istologico sui tessuti asportati.

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4) e art. 116 c.p.c., in relazione all’omesso esame su fatti decisivi per il giudizio, attinenti all’identità tra la patologia diagnosticata nel febbraio 1998 dal Dott. I.I. con quella riscontrata nel 1999 dal Dott. H.H. e quelle poi verificate dagli istituti di cura di Roma e Milano.

Ad avviso della ricorrente, la motivazione contrasta con la successione e la consequenzialità degli eventi, perchè dopo i due interventi in questione, già nel febbraio 2000 alla paziente era stata riscontrata una recidiva (si richiama la visita del Dott. M.M.) e i successivi eventi dimostrano come vi fosse un evidente collegamento. Ne consegue che la Corte d’appello avrebbe formulato erroneamente una serie di presunzioni inesistenti.

4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., con riguardo al danno da violazione del principio del consenso informato.

La sentenza impugnata, secondo la ricorrente, sarebbe carente nella decisione sui danni da violazione delle regole sul consenso informato. Pur avendo riconosciuto, correttamente, l’esistenza della violazione, la Corte di merito non ne avrebbe tratto le dovute conseguenze. L’aver accertato la violazione delle regole sul consenso avrebbe dovuto condurre come conseguenza alla necessità dello svolgimento dell’esame istologico, con tempestiva informazione della paziente. Da tale omissione è derivato un gravissimo danno alla salute.

5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), violazione dell’art. 102 c.p.c. e dell’art. 2043 c.c., con omessa pronuncia.

Pur in presenza di un’accertata violazione del diritto ad un’adeguata informazione ai fini del consenso, la sentenza impugnata avrebbe riconosciuto solo il danno da omesso consenso, ma non quello per violazione del diritto alla salute.

6. Ragioni di logica e di economia processuale consigliano di esaminare il ricorso cominciando dal secondo motivo, che è fondato.

6.1. Come si è già detto in precedenza, la Corte territoriale, dopo aver riportato le conclusioni alle quali erano pervenuti i due consulenti tecnici nominati nel giudizio di primo grado, ha ritenuto di non poterle condividere, modificando la decisione del Tribunale nel senso del completo rigetto della domanda risarcitoria avanzata nei confronti dei due medici convenuti, quantomeno in relazione alla professionalità del loro operato; salvo poi riconoscere, invece, che essi erano venuti meno all’obbligo di una corretta informazione nei confronti della paziente.

La Corte salentina ha costruito la propria decisione sulla base di due passaggi fondamentali. Ha preso le mosse dall’affermazione, mutuata dalla relazione del c.t.u. Dott. L.L., secondo la quale la cisti sebacea è un qualcosa di profondamento diverso rispetto al dermatofibrosarcoma. L’una, infatti, “si presenta come una formazione tondeggiante di varie dimensioni, provvista di capsula e a contenuto di materiale biancastro, denso e maleodorante”, il cui trattamento chirurgico consiste “in una semplice incisione cutanea ed enucleazione della stessa”; l’altro, invece, “è una neoplasia dei tessuti molli, ad accrescimento profondo, con invasione della fascia del muscolo e dell’osso”, che ha bisogno di una “completa escissione della cute con margini indenni ampi (almeno tre centimetri)”.

Ciò premesso da un punto vista tecnico, la Corte d’appello ha escluso che “una tale, evidentissima, differenziazione” potesse essere sfuggita ad ambedue i medici chiamati ad intervenire, il primo dei quali, per di più, specialista in dermatologia. E da questa deduzione è giunta alla conclusione che la patologia tumorale non poteva che essere sopravvenuta rispetto a entrambi gli interventi chirurgici; per cui non era da “ritenersi raggiunta la prova della sussistenza di un nesso eziologico tra le condotte omissive, asseritamente negligenti, dei professionisti appellati e i successivi interventi, resisi necessari per le cure della A.A.”.

6.2. Questa conclusione, tuttavia, si basa su di un’errata applicazione dei principi in tema di prova presuntiva, perchè è fondata su un ragionamento viziato.

Ad avviso di questa Corte, infatti, dalla (corretta) premessa dell’evidente diversità tra le due patologie la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione secondo cui, in sostanza, un professionista di medie capacità non avrebbe mai potuto confonderle. Ma è palese che si tratta di un sillogismo viziato, perchè dà per dimostrato esattamente ciò che, al contrario, doveva essere dimostrato. La domanda risarcitoria della A.A., infatti, si fondava proprio sulla presunta inadeguatezza del comportamento tenuto dai due medici in relazione al ripetersi della patologia a breve distanza di tempo. Poichè lo svolgersi cronologico degli eventi non è in discussione, la Corte d’appello avrebbe dovuto chiedersi se, a fronte di una simile evoluzione, potesse o meno ritenersi corretto l’operato dei due medici; ma tale esame non poteva essere condotto partendo da una presunzione, appunto, errata, perchè l’errore professionale ipotizzato dalla paziente consisteva esattamente in questo, e cioè nel non aver correttamente individuato la patologia.

Simile motivazione, pur in apparenza sussistente, è errata e irrimediabilmente viziata da illogicità manifesta, e finisce col rendere altrettanto irrimediabilmente non motivato anche il dissenso rispetto alle conclusioni alle quali, con ben più fondate argomentazioni logico-scientifiche, erano giunti i consulenti tecnici. Se è indiscutibile, infatti, che il giudice di merito, quale peritus peritorum, ben può dissentire dalle conclusioni del c.t.u. e giungere ad una decisione di segno contrario, magari anche condividendo le conclusioni del c.t. di parte, è altrettanto indiscutibile che a tale risultato può pervenire solo fornendo un’adeguata motivazione. E tale non è quella resa nel caso in esame, nella quale, in fin dei conti, il dissenso rispetto ai due consulenti d’ufficio risulta fondato su di un uso errato di una (in realtà inesistente) prova presuntiva, di talchè la conclusione si risolve in una immotivata petizione di principio.

Il giudice di rinvio, pertanto, dovrà provvedere al riesame del merito della vicenda, alla luce delle risultanze delle c.t.u. esistenti in atti (ferma la facoltà di riconvocare ad eventuali ed ulteriori chiarimenti i c.t.u. a suo tempo nominati), partendo dal presupposto che era ragionevolmente più difficile sospettare una patologia tumorale per il Dott. I.I. – che per primo eseguì l’escissione chirurgica – piuttosto che per il Dott. H.H., che fu chiamato ad intervenire in un secondo tempo, in presenza di una recidiva. Fermo restando, ovviamente, che la decisione della Corte d’appello non patisce vincoli, posto che il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti del Dott. I.I. pronunciato dal Tribunale era stato impugnato dalla A.A. in appello, per cui il giudicato sul punto non si è formato.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso determina l’assorbimento degli altri.

Ricorso incidentale.

7. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4), artt. 115116 e 345 c.p.c., degli artt. 26972727 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 40 e 41 c.p., in relazione alla mancanza di prova e all’assenza di motivazione a proposito della dichiarata responsabilità del medico per violazione delle regole sul consenso informato.

Il ricorrente incidentale osserva che la sentenza conterrebbe un inaccettabile salto logico tra le premesse – che richiamano i principi generali in tema di consenso informato – e le conclusioni circa la condotta omissiva del medico, con conseguente sua condanna. La motivazione della sentenza non fornirebbe alcuna indicazione delle ragioni per le quali è stata ritenuta sussistente la responsabilità del medico. In presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito secondo le regole dell’arte, dal quale siano derivate conseguenze dannose per il paziente, questi può chiedere il risarcimento del danno alla salute solo dimostrando, anche tramite presunzioni, che, se adeguatamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporsi all’intervento. La risarcibilità del danno alla salute (rectius, da omessa informazione) dipende dalla prova, che il paziente è tenuto a fornire, che, ove avesse ricevuto maggiori informazioni, avrebbe deciso di non sottoporsi all’intervento. Nel caso specifico, osserva il ricorrente, la paziente non avrebbe in alcun modo fornito simile prova. L’attrice, infatti, in primo grado non si era lamentata del fatto che il ricorrente avesse omesso di consigliare l’esame istologico; solo in appello vi sarebbe stato un mutamento della domanda, che riguarda una carenza informativa per il periodo successivo all’intervento. In altri termini, la Corte d’appello avrebbe accertato la responsabilità del ricorrente sulla base delle sole presunzioni, mentre l’unico fatto oggettivamente accertato sarebbe che l’intervento fu compiuto del tutto correttamente. Il c.d. giudizio controfattuale, dunque, dimostrerebbe l’erroneità dell’impugnata sentenza.

8. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e n. 5), la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 2697 e 2727 c.c., oltre all’omesso esame di un fatto decisivo.

Il ricorrente censura la sentenza – nel tentativo di trovarne una ragionevole interpretazione – per aver dedotto argomenti di prova sulla base di una presunta e non accertata non contestazione da parte del medico ricorrente. Il Dott. I.I. sostiene, invece, che la presunta mancata informazione da parte sua era stata sempre da lui contestata fin dal giudizio di primo grado, per cui la domanda risarcitoria in questione avrebbe dovuto essere respinta.

9. I motivi del ricorso incidentale sono fondati.

9.1. Com’è noto, il problema del diritto al consenso informato e delle conseguenze giuridiche della sua violazione, come anche quello della sua diversità rispetto al diritto ad ottenere un trattamento terapeutico corretto, ha formato oggetto di numerose pronunce.

La giurisprudenza di questa Corte ha già da tempo affermato che in tema di responsabilità professionale del medico, l’inadempimento dell’obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori, anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all’informazione, tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi (sentenza 9 febbraio 2010, n. 2847, ribadita dalla più recente ordinanza 22 agosto 2018, n. 20885).

E’ stato parimenti affermato che le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva; d’altra parte, la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli (sentenza 11 novembre 2019, n. 28985). La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonchè un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute (così la sentenza in ultimo citata).

Ancor più di recente, poi, l’ordinanza 12 giugno 2023, n. 16633, ha ricapitolato in modo organico i principi che regolano la complessa materia e ha ribadito – ai fini che specificamente interessano in questa sede – che, se ricorre il consenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso) e non vi è alcun danno derivante dall’intervento, non è dovuto alcun risarcimento; se, invece, ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell’esecuzione della prestazione sanitaria (cioè, l’intervento è stato correttamente eseguito), il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente.

9.2. Questa giurisprudenza, peraltro in larga misura già formatasi quando la Corte d’appello ha pronunciato la sentenza qui impugnata, non è stata correttamente applicata nel caso specifico.

Ed invero dal contenuto del ricorso, che ricostruisce la vicenda giudiziaria esponendo come prese avvio la domanda nel giudizio di primo grado, non risulta che la A.A. abbia lamentato una vera e propria lesione del diritto all’autodeterminazione. Per quanto risulta dal ricorso, infatti, la stessa ricorrente principale osserva che nessuno dei due medici curanti aveva chiesto alla paziente, prima del trattamento chirurgico, il di lei consenso informato; anzi, nessuno l’aveva avvertita dell’opportunità di un previo esame istologico di un frammento della neoformazione.

In altri termini, dalla sentenza in esame e dal ricorso emerge come la domanda risarcitoria non fosse rivolta a censurare l’operato tecnico dei due professionisti; il che significa che la A.A. non risulta aver mai sostenuto che l’escissione delle formazioni cutanee sia stata eseguita in maniera scorretta. La doglianza si colloca, per così dire, in un momento successivo, perchè la paziente contesta che alla duplice escissione chirurgica non siano state fatte seguire le dovute indagini istologiche e le conseguenti indicazioni terapeutiche. Non viene neppure prospettato, però, che, in presenza di un’adeguata informazione, ella avrebbe rifiutato di sottoporsi ai due interventi; in considerazione della situazione, anzi, il consenso della paziente all’intervento è da ritenere presunto, anche perchè non è dato sapere quale altra strada si sarebbe potuta intraprendere che non fosse l’asportazione.

Da tali considerazioni si trae la conclusione che non è corretta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui “la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario” avrebbe leso il diritto della A.A. “a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alla natura recidivante della formazione asportata, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative”. Nel senso che l’errore in questione, qualora fosse riconosciuto, costituirebbe non una lesione del diritto all’autodeterminazione, quanto piuttosto una forma di non corretta esecuzione della prestazione terapeutica.

Toccherà dunque al giudice di rinvio, alla luce del riesame dell’intera vicenda e degli orientamenti di questa Corte, stabilire se vi sia stata o meno una lesione del diritto del paziente all’autodeterminazione, nei termini fissati dalla suindicata giurisprudenza.

10. In conclusione, sono accolti il secondo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri, e il ricorso incidentale.

La sentenza impugnata è cassata (in relazione) e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione personale, la quale deciderà attenendosi alle indicazioni e ai principi di diritto di cui sopra.

Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso principale, con assorbimento degli altri, e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata (in relazione) e rinvia alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di cassazione.