DIFFERENZA TRA DANNO TANATOLOGICO, DANNO DA PERDITA ANTICIPATA DELLA VITA E DANNO DA PERDITA DELLA CHANCE DI UNA PIÙ LUNGA SOPRAVVIVENZA

Cass., sez. III, 19 settembre 2023, n. 26851 – Pres. Travaglino, Rel. Porreca

 

Il danno da premorienza o da perdita anticipata della vita (ossia il danno per non aver avuto una vita che si sarebbe protratta più a lungo e per un tempo determinato) va distinto dal danno da perdita della chance di sopravvivere ancora più a lungo, posto che, se la morte è intervenuta, , l’incertezza eventistica, che costituisce il fondamento logico prima ancora che giuridico della chance, è stata, di regola, smentita da quell’evento.  In questo senso, costituisce, di regola, un’inammissibile duplicazione risarcitoria tra voci di danno, non risultando logicamente compatibili, in via generale, la congiunta attribuzione di un risarcimento da perdita anticipata della vita e da perdita di chance di sopravvivenza, salva l’ipotesi eccezionale in cui l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza tanto di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente alla condotta colpevole dell’agente.

Se è accertato, secondo i comuni criteri eziologici, che l’errore medico ha anticipato la morte del paziente, sarà risarcibile il danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita) e il danno morale da futura morte anticipata, predicabile  a far data dalla acquisizione della relativa consapevolezza.

Va infatti chiarito che:

  1. a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno biologico (differenziale);
  2. b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della capacità di battersi ancora contro il male.

Il risarcimento sarà riconosciuto con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico.

Se è incerto che l’errore medico abbia causato la morte del paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”. il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum né predicabile quale certezza nell’an. La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo

 

 

Cass. civ., sez. III, sent., 19 settembre 2023, n. 26851

 

IN FATTO

L’Azienda (omissis) ricorre, sulla base di otto motivi, corredati da memoria, per la cassazione della sentenza n. 707 del 2020 della Corte di appello di Firenze, esponendo che:

– con ricorso ex art. 696-bis c.p.c., C.S. aveva chiesto l’esperimento di una consulenza tecnica preventiva per l’accertamento del danno patito a seguito di errore diagnostico di patologia tumorale, con conseguente omissione terapeutica, correlati ad un intervento di quadrectomia con biopsia del linfonodo sentinella e successivo svuotamento ascellare per carcinoma duttale infiltrante G3, con determinazione recettoriale inizialmente refertata come negativa;

– l’intervento non era stato risolutivo e, negli anni seguenti, la malattia era recidivata, con ripetizioni metastatiche a livello polmonare e osseo che avevano consentito alla vittima di deambulare solo con l’ausilio due antibrachiali;

– l’errore diagnostico, addebitato ai sanitari dell’ASL, era stato allegato come commesso nell’esame di determinazione dell’assetto recettoriale sul pezzo operatorio effettuato presso l’Unità di Anatomia Patologica del presidio ospedaliero di […] nel 2006;

– l’errore era stato svelato nel 2010, quando era stata eseguita una revisione dei vetrini per la verifica dell’assetto recettoriale dello stesso pezzo operatorio presso l'(omissis), dove fu constatato che il tessuto tumorale era fortemente ricettivo per entrambi i recettori;

– secondo l’assunto della ricorrente, quell’errore iniziale aveva determinato la mancata prescrizione della terapia ormonale, che avrebbe dovuto essere intrapresa nel 2007, al termine della chemioterapia, e che invece era stata iniziata soltanto nel 2010, quando ormai la malattia era evoluta al 4 stadio, con metastasi ossea e polmonare, dall’iniziale stadio 2B in cui la paziente si trovava al momento della originaria diagnosi;

– l’errore diagnostico, secondo l’istante, aveva determinato la riduzione delle probabilità di sopravvivenza, in particolare a 10 anni;

– secondo il consulente nominato nel giudizio di primo grado, la terapia ormonale sarebbe stata in grado di ritardare la comparsa di recidive della malattia che, comunque, sarebbero dipese dalla storia naturale della stessa, sicché la sua mancata instaurazione avrebbe anticipato, più che determinato, la recidiva stessa;

– al contempo, il perito aveva affermato che, al momento della prima diagnosi, errata, si sarebbe dovuto compiere un approfondimento citogenetico, instaurando una terapia a base di Trastuzumab (farmaco Hereceptin), dimostratasi efficace nel migliorare considerevolmente il tasso di sopravvivenza e l’intervallo libero dalla malattia nelle pazienti C-erb-2, riducendo, su base statistica, il rischio di recidiva, e, in minor misura, il rischio di decesso, indipendentemente dalla instaurazione di una terapia ormonale;

– il consulente, avvalendosi dell’analisi di un ausiliario oncologo, aveva concluso che, più probabilmente che non, la combinata instaurazione della terapia ormonale con quella di Trastuzumab avrebbe potuto prevenire la recidiva e la progressione della patologia tumorale, ritenendo di dover stimare i postumi permanenti riconducibili a tale aggravamento nella misura del 50% rispetto allo stato anteriore;

– C.S. aveva quindi convenuto, nel giudizio di pieno merito, la ASL, imputandole sia il danno differenziale che il rischio di sovramortalità;

– l’Asl si era costituita controdeducendo, in particolare: che la relazione peritale aveva indicato una condotta omissiva, causalmente colposa e rilevante, diversa da quella della mancata terapia ormonale, individuata nella mancata somministrazione del farmaco Trastuzumab; che il consulente d’ufficio aveva frainteso, con errori metodologici, i dati epidemiologici analizzati dall’ausiliario oncologo, non tenendo in debita considerazione, ai fini delle probabilità di recidiva, lo stadio iniziale della malattia della parte attrice, e sommando valori di riduzione del rischio riferiti sia all’uso del suddetto farmaco sia alla terapia ormonale, in assenza di studi specifici sul punto;

– la stessa azienda aveva sottolineato, quindi, che si era trattato non tanto di danno da perdita di “chance” quanto piuttosto della possibilità di prolungare l’intervallo libero da malattia, beneficiando di una migliore qualità della vita;

– la convenuta aveva allegato, infine, di aver già liquidato a C.S. una somma di 23 mila Euro circa per i correlati danni sofferti in conseguenza della mancata diagnosi presso l’Unità di Radiologia del presidio ospedaliero di […] nel 2009;

– il Tribunale di Livorno aveva accolto la domanda, osservando, in particolare: che l’errore diagnostico era stato dimostrato ed era del resto pacifico; che la mancata somministrazione della ormonoterapia e del Trastuzumab aveva condizionato negativamente l’evoluzione della malattia neoplastica, posto che, secondo la letteratura scientifica, la percentuale dei soggetti con malattia nello stesso stadio che si erano avvalsi della terapia omessa era superiore alla percentuale di pazienti che avrebbero presentato comunque una recidiva nonostante la somministrazione del trattamento; che il danno differenziale era da quantificare, secondo le condivise analisi peritali, in misura pari, in specie, al 50% quanto all’invalidità permanente, tenuto pure conto di quanto già risarcito transattivamente; che andava parimenti riconosciuto il danno da perdita di “chance”, liquidato equitativamente;

– la Corte di appello, davanti alla quale avevano resistito gli eredi dopo l’intervenuto decesso dell’originaria attrice, aveva respinto il gravame della ASL osservando, in specie, che: gli oneri di allegazione non potevano ritenersi cristallizzati con riferimento a quanto già argomentato in sede di accertamento tecnico preventivo; l’incidenza della mancata somministrazione farmacologica e della mancata terapia ormonale era stata correttamente valutata sia in termini di peggioramento della qualità della vita (posto che si sarebbe potuta evitare una chemioterapia altamente invalidante) sia in termini di perdita di “chance” (p. 9), ovvero di danno da minore durata della vita (p. 11), oltre che da sua peggiore qualità;

– ad avviso del Collegio di seconde cure, andava quindi confermata la statuizione di accoglimento della domanda e altresì quella, pure intervenuta, di personalizzazione del danno biologico, atteso quanto emerso in termini di sconvolgimento della propria esistenza, già compromessa dalla scoperta malattia, con perdita di fiducia circa la possibilità di recuperare nel tempo le condizioni pregresse con mutamento definitivo integrale delle proprie condizioni di vita;

nessuno si è costituito per gli intimati;

il processo è stato rinviato alla pubblica udienza con ordinanza n. 6244 del 2 marzo 2023;

il Pubblico Ministero ha formulato conclusioni scritte.

IN DIRITTO

Con il primo motivo, si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,1218,1223, c.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato nell’applicare i criteri legali del riparto dell’onere probatorio sia quanto alla causalità materiale che quanto alla causalità giuridica – ovvero sia quanto al rapporto eziologico da riferire agli esiti invalidanti della malattia oncologica comunque insorta secondo il parametro civilistico del più probabile che non, sia quanto al medesimo rapporto da riferire alle singole conseguenze dannose ritenute da risarcire;

con il secondo motivo, si prospetta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, poiché la Corte di appello avrebbe errato avallando senza esame, nonostante le specifiche deduzioni svolte in seconde cure dalla ASL, le conclusioni del consulente medico legale d’ufficio che, a sua volta, fraintendendo l’elaborazione dei dati dell’ausiliario oncologo, aveva: scambiato il numero assoluto dei pazienti che si riammalavano nonostante l’uso del farmaco Hereceptin (85) con quello dei pazienti che comunque si ammalavano (170), concludendo che l’incremento delle “chance” di sopravvivenza era del 52%, laddove, invece, la percentuale complessiva di maggiori possibilità era del 5% rispetto ai pazienti osservati (1700); concluso per una riduzione del rischio di recidiva del 64,3% – ovvero fino al 71,8% nel caso di associazione della terapia a base di Hereceptin con quella ormonale – laddove l’ausiliario oncologo aveva specificato che non esistevano studi che avessero comparato quest’associazione terapeutica in pazienti con recettori positivi, come C.S. , rispetto ai casi di uso della sola chemioterapia, in quanto ritenuto un “confronto non eticamente proponibile”; indicato che gli studi epidemiologici da lui analizzati erano relativi a carcinoma mammario in fase iniziale, mentre C.S. , quando era stata operata nel 2006, aveva un carcinoma duttale infiltrante, con una probabilità di morte indicata dallo stesso consulente del 44,8%, motivo per cui l’ausiliario oncologo aveva da parte sua concluso che l’impatto dell’errore diagnostico avrebbe dovuto misurarsi maggiormente in termini di intervallo libero da malattia piuttosto che di guarigione ovvero sopravvivenza;

con il terzo motivo si prospetta la violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., poiché la Corte di appello avrebbe motivato in modo solo apparente innanzi tutto la predicabilità del rapporto causale tra errore medico e progressione della malattia in termini di intervallo libero da malattie, non essendo stati raccolti dati che raffrontassero casi di donne con tumore mammario nello stadio di C.S. nel 2006 cui fosse stata somministrata la doppia terapia discussa con quelli di donne trattate con la sola chemioterapia, come la vittima stessa, e non anche casi di donne con carcinoma in fase iniziale che avessero seguito quella terapia e donne che non avessero avuto neppure un trattamento chemioterapico; in secondo luogo, la stessa Corte di merito avrebbe motivato in modo analogamente solo apparente la ritenuta invalidità permanente aggravata del 50%;

con il quarto motivo si prospetta la violazione degli artt. 112 e 132, n. 4, c.p.c., poiché la Corte di appello avrebbe omesso del tutto di pronunciarsi sulla deduzione svolta in ordine alle irresolubili e non spiegate contraddizioni tra il consulente medico legale officioso e l’ausiliario oncologo, avendo il primo, a differenza del secondo, ritenuto non potersi affermarsi “con certezza” che l’incompletezza del trattamento avrebbe solo anticipato l’evoluzione della malattia piuttosto invece che determinarla, per poi concludere che gli studi della letteratura scientifica indicavano un concreto vantaggio in termini di “assenza della malattia sia pure in un dato arco temporale”, che però significava un maggior intervallo libero da malattia e non una guarigione da questa;

con il quinto motivo si prospetta la violazione degli artt. 112 e 132, n. 4, c.p.c., poiché la Corte di appello avrebbe mancato del tutto di pronunciarsi sulle ragioni dell’individuazione del danno biologico, quantificato nella misura del 50%, rispetto a un’invalidità assoluta dell’85% al momento dell’esame, compreso, nella relativa determinazione, il 6-7% che l’ASL deducente aveva già indennizzato transattivamente; e per aver poi liquidato il danno in parola, secondo il punto tabellare milanese, con personalizzazione del 15% invece che equitativamente, laddove le conclusioni peritali, come detto, indicavano solo una causalità riferita a un maggior intervallo libero da malattia in uno al peggioramento delle condizioni di vita;

con il sesto motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1223, c.c., poiché la Corte di appello avrebbe mancato di pronunciarsi ovvero di motivare sulla liquidazione del danno da perdita della “chance”, che non avrebbe potuto essere proporzionale al risultato perduto ma equitativamente commisurato alla possibilità perduta di realizzarlo;

con il settimo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,1223, c.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato accordando una personalizzazione del danno biologico del 15% correlandola a conseguenze ordinariamente proprie dell’invalidità ritenuta sussistente;

con l’ottavo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1223,1226, c.c., poiché la Corte di appello avrebbe errato duplicando le voci risarcitorie, ovvero sovrapponendole nell’accordare sia il danno da perdita di “chance” sia quello da intervenuta premorienza sia, ancora, quello da invalidità biologica in specie permanente, tenuto conto dell’inammissibilità del danno c.d. tanatologico, riferito al bene “vita” distinto da quello “salute”;

  1. I motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per loro strettissima connessione, sono parzialmente fondati.

Va premesso che:

il primo motivo è formulato in modo apodittico ma, al contempo, il tema della differenza tra causalità materiale e giuridica, unitamente a quello dell’individuazione, quanto a quest’ultima, di conseguenze pregiudizievoli non sovrapposte o antitetiche, è ripreso, ed esplicativamente argomentato, nelle censure dalla sesta all’ottava;

il secondo motivo, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile stante la c.d. doppia conforme di merito (art. 348-ter, comma 5, c.p.c., applicabile “ratione temporis” e, peraltro, al contempo reintrodotto dal D.Lgs. n. 149 del 2022, come previsto dall’art. 360, comma 4, c.p.c.), nè parte ricorrente ha dimostrato che le ragioni di fatto poste a base delle due decisioni di merito sono state diverse (Cass., 22/12/2016, n. 26774, Cass., 28/02/2023, n. 5947); al contempo, anche in questo caso, la censura prospetta, in sostanza, un vizio di apparenza della motivazione, diffusamente argomentato nel terzo, quarto (v. anche a pag. 27), e quinto motivo di ricorso.

  1. Ciò posto, osserva, in premessa, il Collegio che:

la Corte territoriale ha confermato la decisione di prime cure fondando la sua pronuncia innanzi tutto sul documentato e ricostruito errore diagnostico, rimasto privo di contestazione in quanto tale;

secondo la decisione gravata in questa sede, all’errore in parola era conseguita la mancata somministrazione di un’adeguata terapia sia a base di Trastuzumab che su base ormonale, in luogo della praticata chemioterapia, altamente invalidante e senza possibilità di guarigione;

di qui, poi, le individuate conseguenze dannose non patrimoniali di cui si discute in ricorso: danno da perdita di “chance” di sopravvivenza (pag. 9) – che verrà poi definito in termini di danno da morte anticipata e peggiori condizioni di vita (pag. 11) – oltre a quello biologico permanente differenziale, ovvero da aggravamento rispetto alla condizione pregressa naturalmente patologica, individuato, sempre in base alle analisi peritali, nel 50% rispetto all’85% di pari invalidità al momento dell’esame medico legale, liquidato secondo il punto delle tabelle milanesi, con personalizzazione del 15%, anche in questo caso confermando la decisione del Tribunale, atteso, per la paziente, il ritenuto sconvolgimento della propria esistenza, con perdita di fiducia nella possibilità di recupero.

2.1. La Corte di merito, nel trarre le sintetizzate conclusioni, senza misurarsi con le riportate deduzioni di appello sul punto dell’azienda sanitaria, non spiega:

  1. a) quali sarebbero specificatamente le “complessive e

coordinate” emergenze della relazione tecnica officiosa del consulente medico legale e dell’ausiliario oncologo, da cui emergerebbe innanzi tutto la perdita di “chance” di evitare la recidiva poi occorsa;

  1. b) se la perdita di “chance” in parola debba riferirsi alla sopravvivenza oppure al maggiore intervallo libero da malattie, posto che si richiama la sentenza di primo grado, confermata, quando se ne discorre, nel primo senso in ordine alla recidiva (pag. 5 della sentenza oggetto della presente impugnazione, e poi pag. 9) mentre, conclusivamente, la si ricostruisce, differentemente (pagg. 10-11), come danno da morte anticipata, ovvero, con altra locuzione, da premorienza;
  2. c) come sia stato distinto l’accertato danno biologico non solo dalla perdita delle possibilità di sopravvivenza o dalla perdita della maggiore vita attesa, quanto, al contempo, dal danno da peggioramento della qualità della vita, “fisico” oltre che “spirituale” (pag. 11), tenuto conto del fatto che lo si determina nel 50% senza peraltro specificare se il valore monetario del punto di invalidità applicato sia stato quello corrispondente a una invalidità del 50% ovvero quello risultante dalla differenza, indicata, tra la percentuale al momento dell’esame e quella ricostruita come iniziale al momento dell’errata diagnosi (dal 35% all’85%, dunque).

2.2. Infine, e congiuntamente, la Corte territoriale:

  1. d) avalla la personalizzazione del danno accordata in primo grado senza che sia indicato se e perché le conseguenze cui la stessa è stata correlata (pagg. 9-10), ricordate nella premessa narrativa dei fatti processuali, fossero eccezionali e non ordinariamente correlate all’accertato danno biologico, e senza lasciar intendere se fossero riferite o meno alla componente morale del danno non patrimoniale alla persona (pag. 11).
  2. Quanto alle lettere a) e b) ora riportate, è opportuno

sottolineare che le conseguenze dannose della c.d. premorienza occorsa nelle more del giudizio vanno distinte a seconda che la morte sia indipendente (per tale ipotesi, cfr. Cass., 29/12/2021, n. 41933) o dipendente dall’errore medico. È necessario, al contempo, evidenziare che, nel caso di specie, non si discute del danno iure proprio da lesione del rapporto parentale rispetto agli eredi intervenuti in appello, coltivando la domanda già svolta, ma di quello richiesto iure successionis (cfr. in argomento, Cass., 09/03/2018, n. 5641, che traccia le linee differenziali tra il danno da perdita anticipata della vita e perdita delle chance di sopravvivenza, con esclusivo riferimento al danno iure proprio subito dagli eredi).

3.1. Riguardo al primo caso (morte indipendente dall’errore medico), questa Corte ha chiarito che, qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta prima della conclusione del giudizio per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito (fattispecie non sovrapponibile a quella oggi oggetto di esame da parte del Collegio), l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale d’invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio, e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. n. 41933 del 2021, cit.);

è stata perciò ritenuta non conforme al criterio dell’equità l’applicazione delle c.d. tabelle milanesi sul danno da premorienza, in quanto basate sull’attribuzione al danno biologico permanente di un valore economico decrescente nel corso del tempo.

3.2. In ipotesi di morte dipendente anche, come nella fattispecie, dall’errore medico, il Collegio intende dare continuità al principio per cui, qualora la produzione di un evento dannoso risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde in toto, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, dell’evento di danno eziologicamente riconducibile alla sua condotta, a nulla rilevando l’eventuale efficienza concausale anche dei suddetti eventi naturali, che possono invece rilevare, sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato, non eziologicamente riferibile, cioè, a negligenza, imprudenza o imperizia del sanitario (Cass., 21/07/2011, n. 15991, Cass., 11/11/2019, n. 28986, Cass., 23/02/2023, n. 5632, Cass., 12/05/2023, n. 13037).

3.3. Va pertanto riaffermato il principio secondo il quale, laddove la condotta dell’agente sia stata ritenuta idonea alla determinazione anche solo parziale dell’evento di danno lamentato, e si fosse prospettata una questione circa l’incidenza di una causa naturale, le due possibili alternative, sul piano della causalità materiale, risulteranno quelle per cui:

– l’accertamento processuale della rilevanza esclusiva del fattore naturale escluda tout court il nesso di causa tra condotta ed evento: in tal caso la domanda sarà rigettata;

– la causa naturale rivesta efficacia eziologica non esclusiva, ma soltanto concorrente rispetto all’evento: in assenza di prova, da parte del danneggiante/debitore, dell’esistenza di altra e diversa causa a lui non imputabile, la responsabilità dell’evento gli sarà ascritta per intero, e la domanda sarà accolta nell’an debeatur.

L’alternativa che si pone al giudice, in altri termini, è quella per cui “il convenuto è responsabile dell’evento di danno”/il convenuto non è responsabile dell’evento di danno”: altre soluzioni, sul piano della causalità materiale, non possono ritenersi predicabili, pena la violazione dell’applicabile dettato normativo di cui all’art. 41, comma 1, c.p., salvo avventurarsi (come pure talvolta accaduto in dottrina) in interpretazioni contrarie alla lettera degli art. 1227 e 2055 c.c., che limitano espressamente e inequivocabilmente il frazionamento della causalità materiale alla sola ipotesi di concorso di cause umane imputabili.

  1. Il danno da perdita anticipata della vita va poi distinto da quello da perdita di “chance” di sopravvivenza, posto che, se la morte è intervenuta, come nel caso di specie, l’incertezza eventistica, che ne costituisce il fondamento logico prima ancora che giuridico (Cass. n. 5641 del 2018, cit.), è stata, di regola, smentita da quell’evento: in questo senso, fatte salve le precisazioni di cui si sta per dire, emerge, di regola, un’inammissibile duplicazione risarcitoria tra voci di danno, non risultando logicamente compatibili, in via generale, la congiunta attribuzione di un risarcimento da perdita anticipata della vita e da perdita di chance di sopravvivenza.

4.1. Dovrà pertanto offrirsi risposta al quesito se, nei rigorosi termini di cui si sta per dire, accanto dal danno da premorienza, ovvero accanto al danno – non per non essere guarito ma – per non aver avuto una vita che si sarebbe protratta più a lungo e per un tempo determinato, l’errore medico abbia potuto determinare, nello specifico caso, anche la perdita della “chance” di sopravvivere ancora più a lungo.

4.1.1. Più in particolare:

  1. a) il primo accertamento (danno da premorienza) sarà effettuato secondo il criterio del “più probabile che non”, proprio della responsabilità civile, e avrà ad oggetto un pregiudizio, non risarcibile per la vittima, ma solo per i suoi congiunti (, Sez. U., 22/07/2015, n. 15350), conseguente all’omissione colposa dell’agente e consolidatosi nel tempo in capo alla vittima quale minor vissuto. L’evento di danno è rappresentato, pertanto, non dalla possibilità di vivere più a lungo, bensì dalla perdita anticipata della vita – perdita che pure si sarebbe, in tesi, comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la pregressa patologia (in argomento, funditus, Cass., 1111/2019, n. 28993, specie pag. 12);
  2. b) quanto alla seconda verifica (accertamento del nesso di causa tra condotta dei sanitari e perdita di chance), in cui la “possibilità perduta” (e non la perdita anticipata della vita) costituisce l’evento di danno (cfr. da , n. 15991 del 2011, cit., a Cass., n. 5641 del 2018, cit., oltre a Cass., n. 28993 del 2019, cit., specie § 14; più di recente, Cass., 26/06/2020, n. 12906e Cass., 26/01/2022, n. 2261), l’incertezza sull’eventuale e ulteriore segmento temporale di cui il danneggiato avrebbe potuto godere – qualora, anche in via di “policy” (Cass., n. 28993 del 2019, cit., § 23), sostanzialmente apprezzabile e non mera ipotesi o speranza – messa a sua volta in relazione causale con l’errore diagnostico e terapeutico, potrebbe, in concreto, ed eccezionalmente, legittimare il riconoscimento di un distinto risarcimento, in via strettamente equitativa (infra, sub 4.2. e ss.), sempre che, sul piano eziologico, sia stata raggiunta una soglia di certezza rispetto a quella concreta possibilità, perché la “seria, apprezzabile e concreta possibilità eventistica” conforma morfologicamente la struttura del bene tutelato, e dunque affermarne la sussistenza, al di là dei termini utilizzati in via di principio, equivale, logicamente, a farlo con eziologica certezza: dovrà, pertanto, risultare causalmente certo che, alla condotta colpevole, sia conseguita la perdita della possibilità di un risultato migliore – non potendosi discorrere di una “probabilità della possibilità” (dove il primo termine identifica la relazione causale e il secondo l’evento di danno), pena, in altra chiave esplicativa, l’incorrere, mutatis mutandis, nel divieto di praesumptio de praesumpto;
  3. c) al contempo, tanto il danno da perdita anticipata della vita, quanto quello da perdita della “chance” di una possibile, ulteriore sopravvivenza (“bene”, va ancora ripetuto, morfologicamente diverso da quello della vita anticipatamente perduta) dovranno distintamente accertarsi non solo in base ai principî di causalità generale e di regolarità statistica, bensì anche, in specie quanto alla “seconda” perdita, in ragione del nesso di causalità specifica (cfr. , 29/09/2015, n. 19213, pag. 23), ovvero tenuto conto, nel singolo caso, di tutti i dati medico-anamnestici – in tesi irripetibilmente peculiari del soggetto – alla luce dei quali predicarsi poi, quanto alla chance, l’esistenza di un’incerta – ma seria concreta e apprezzabile – possibilità di vivere per un lasso temporale ancora più lungo.

4.2. Ritiene opportuno il Collegio di procedere, in via preliminare, a una ricognizione delle possibili ipotesi, analoghe a quella oggetto del caso di specie, che possa più agevolmente consentire una ricostruzione in fatto dei presupposti di una corretta liquidazione del danno da parte del giudice di merito, al fine di individuare e differenziare le eventuali poste risarcitorie legittimamente invocabili dal danneggiato (ancora in vita al momento della decisione) ovvero dagli eredi, iure successionis, in caso di decesso anticipato dell’avente diritto.

4.3. Vanno, pertanto, distinte tre ipotesi:

1) la vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi;

2) la vittima è ancora vivente al momento della decisione;

3) la vittima, vivente al momento dell’introduzione della lite, muore in pendenza della decisione.

1) La vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi.

In questo caso non è concepibile, nè logicamente nè giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass. 5641 del 2018, cit. e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015, cit.), non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.

Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque anni di vita.

L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione “morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno.

È possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto, secondo i parametri di cui si dirà (infra, sub 4.4. e ss.).

In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili jure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti:

  1. a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita;
  2. b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata nè nell’an nè nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.

In nessun caso sarà risarcibile iure haereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da “perdita anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente.

2) La vittima è ancora vivente al momento della liquidazione del danno

I danni liquidabili non divergono, morfologicamente, da quelle indicate sub 1) se non per il fatto che non saranno gli eredi, ma il paziente stesso, ancora in vita, ad invocarne il risarcimento, salvo il diverso profilo del danno morale:

  1. a) se vi è incertezza sulle conseguenze quoad vitam dell’errore medico, il paziente può pretendere il risarcimento del danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ricorrendone i consueti presupposti (serietà, apprezzabilità, concretezza, riferibilità eziologica certa della perdita di quella “chance” alla condotta in rilievo);
  2. b) se invece è accertato, secondo i comuni criteri eziologici, che l’errore medico anticiperà la morte del paziente, sarà risarcibile il danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita) e il danno morale da futura morte anticipata, in questo caso sicuramente predicabile (essendo il paziente ancora in vita) a far data dalla acquisizione della relativa consapevolezza.

3) La vittima, vivente al momento dell’introduzione del giudizio, è deceduta al momento della liquidazione del a) se è certo che l’errore medico abbia causato la morte anticipata del paziente, si ricadrà nell’ipotesi di cui sopra, sub 1.a): il paziente può avere patito (e trasmesso agli eredi) un danno biologico (differenziale), e un danno morale da lucida consapevolezza della morte imminente, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”, risarcibile soltanto, nel perimetro sopra chiarito, iure proprio agli eredi, che potranno altresì proporre la relativa domanda in corso di causa, per ragioni di economia di giudizi (in argomento, v. anche Cass., Sez. U., 12/12/2014, n. 26242, e Cass., Sez. U., 15/06/2015, n. 12310);

  1. b) se è incerto che l’errore medico abbia causato la morte del paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ma non un danno da “perdita anticipata della vita”.

4.4. Tanto premesso, va affermato, in via generale, il principio secondo il quale, quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo quanto si dirà infra, sub 4.5-c).

Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e condivisa, va pertanto chiarito che:

  1. a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno biologico (differenziale);
  2. b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della capacità di battersi ancora contro il male;
  3. c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma incerta nell’an e nel quantum, di vivere più a lungo a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da perdita di chance;
  4. d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a causa di un errore medico in relazione al segmento di vita non vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti, nei termini prima chiariti, quale che sia la durata del “segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto rinunciare.

4.5. Traendo le fila del discorso svolto sin qui, deve concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per sovrapposizioni concettuali tra istituti speculari (chance e perdita anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino, motivando rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:

  1. a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e relazionale:  138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del “più probabile che non”: l’evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell’errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico – in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente “differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);
  2. b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum nè predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, nè ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, nè a quelli del danno biologico temporaneo;
  3. c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno nè sovrapponibili nè congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell’agente.

4.5.1. Ecco dunque che, fermo il generale principio, come sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo. In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva in una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di assoluta incertezza eventistica, che non attinga la soglia di quella seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe intendere, in via di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benché anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa voce di danno risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via equitativa, al di là e a prescindere dai parametri (sia pur diminuiti percentualmente) relativi al danno biologico e al quello da premorienza.

  1. Tornando, con riguardo al caso di specie, al tema del danno da premorienza, la Corte territoriale ha eluso la motivazione – declinandola diffusamente in termini di giustapposizioni apodittiche – sulle problematicità emergenti dalle relazioni peritali, quali allegate dall’azienda sanitaria in seconde cure, come dimostrato dalla parte ricorrente nel rispetto dei requisiti di specificità di cui all’art. 366, n. 6, c.p.c.

5.1. Le conclusioni sulla sussistenza della probabilità positiva rispetto all’ipotesi negativa contraria (cd. “più probabile che non”: da Cass., n. 15991 del 2011, cit., fino a Cass., 08/07/2022, n. 25886 e a Cass., 03/03/2023, n. 6386), avuto riferimento, a quanto è dato supporre, alla morte anticipata e al peggioramento della qualità della vita, sono assertivamente richiamate senza confrontarsi, in misura possibile a mezzo di supplementi d’istruttoria tecnica, con i rilievi per cui i dati utilizzati erano relativi a soggetti con carcinoma allo stadio iniziale e non di tipo 2B (come diffusamente segnalato nella consulenza oncologica, riportata in ricorso in specie alle pagg. 18 e seguenti, oltre che allegata anche in questa sede), e associando la doppia terapia mancata in raffronto a soggetti non sottoposti neppure a chemioterapia (pag. 8 della consulenza oncologica, riferita nel ricorso ad esempio alle pagg. 17-19).

5.2. Al riguardo, non basta affermare – pena un insanabile difetto di motivazione – che la chemioterapia non avrebbe consentito “alcuna possibilità di guarigione” (pag. 9 della sentenza), perché sarebbe poi stato necessario verificare e spiegare se tale scelta terapeutica avrebbe avuto o meno un’incidenza migliorativa essa stessa, come contributo a un maggiore intervallo libero da malattia, al fine di raffrontare la maggiore probabilità positiva rispetto all’uso delle terapie mancate.

  1. Con riguardo al quarto motivo di censura, l’ipotesi è quella per cui lo stato anteriore della vittima non abbia concausato la distinta lesione cagionata dall’errore medico, ma sia stata con quest’ultimo, quale pregressa patologia concorrente, causa del consolidarsi di postumi più gravi, e questo, naturalmente, nel periodo in vita del soggetto poi deceduto.

Nel caso d’intervenuta morte ricollegabile alla patologia e all’errore medico cumulato alla stessa, dev’essere, pertanto, specificato se e come si sia distinto tale danno da quello correlato alla “peggiore qualità della vita” prima della morte (pag. 11 della sentenza impugnata), posta la vocazione relazionale del danno biologico (quinta censura, pag. 29 del ricorso) (v. Cass., n. 28993 del 2019, cit., ancora pag. 12).

6.1. Sul punto, non potranno ipotizzarsi postumi biologici permanenti (peraltro da accertare e liquidare a mente dei criteri di cui a Cass., 11/11/2019, n. 28986, e succ. conf.), perché, nella costruzione del punto tabellare, essi fanno riferimento a un consolidarsi in capo a un soggetto destinato a restare in vita secondo la sua ordinaria aspettativa, diversamente da quanto potrà dirsi in ordine al danno a titolo d’invalidità temporanea sia pure in grado acuito in relazione alla fattispecie.

6.1.1. Va, difatti, ribadito, in proposito, che la liquidazione del danno biologico cd. differenziale (supra, sub 2.1. c), ove ammesso, avrebbe dovuto modellarsi sui criteri propri della causalità giuridica, e cioè con riferimento alla percentuale complessiva del danno (nella specie, l’85%), interamente ascritta all’agente sul piano della causalità materiale, da cui sottrarre quella, non imputabile all’errore medico, del 35%, il cui risultato (50%) postula una liquidazione “per sottrazione”, tra il primo e il secondo valore numerico (85%-35%). Il relativo importo (stante la progressione geometrica e non aritmetica del punto tabellare d’invalidità) risulterebbe inevitabilmente superiore a quello relativo allo stesso valore percentuale (50%) se calcolato da 0 a 50 (in argomento, funditus, Cass., n. 28986 del 2019, cit.). Il senso della (necessaria) distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica, al di là dei suoi aspetti morfologici (che trovano inequivoca conferma nel disposto dell’art. 1227, primo e comma 2, c.c.) è difatti rappresentata, sul piano funzionale della liquidazione del danno, proprio da questo “scarto” risarcitorio, volta che, applicando il modello di causalità unica (Cass. 16/01/2009, n. 975, rimasta, peraltro, del tutto isolata in giurisprudenza), come pur talvolta sostenuto (erroneamente) in dottrina, il risarcimento andrebbe rapportato unicamente alla percentuale di invalidità causata dall’errore medico (nella specie, con riferimento al valore tabellare ricompreso tra il punto 0 e il punto 50).

6.2. La successione, in forma apodittica, di riferimenti alla decisione di prime cure (pag. 5, in fine, della sentenza) e di proprie conclusioni sul punto (pag. 11 della sentenza impugnata), non permette di individuare alcuna reale motivazione rispetto alla fattispecie concreta e alle deduzioni svolte in appello dall’azienda, che aveva sostenuto la necessità di una valutazione complessivamente equitativa ma non tabellare del pregiudizio riferibile non solo al minor intervallo in tesi libero da malattie, bensì pure al peggioramento della qualità della vita di C.S. .

  1. Infine, quanto alla censura di cui al settimo motivo di ricorso, è stato reiteratamente ribadito da questa Corte che, ai fini della c.d. “personalizzazione” del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono ritenersi destinati alla riparazione delle conseguenze “ordinarie” inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione, in coerenza con le risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse all’esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, legate all’irripetibile ed eccezionale singolarità dell’esperienza di vita individuale in quanto caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (Cass., 31/01/2019, n. 2788, Cass., 11/11/2019, n. 28988, Cass., 04/3/2021, n. 5865).

7.1. La Corte territoriale discorre, in proposito, del tutto genericamente (come anticipato sintetizzando la vicenda processuali) di “sconvolgimento della propria esistenza, già compromessa dalla scoperta della malattia, con perdita di fiducia circa la possibilità di recuperare nel tempo le condizioni pregresse con mutamento definitivo ed integrale delle proprie condizioni di vita” (pagg. 9-10);

7.1.1. Si tratta, però, delle ordinarie e non anomale conseguenze pregiudizievoli del danno biologico di specie ovvero del danno da peggioramento della qualità della vita, e, anzi, questa motivazione si riverbera sull’impossibilità di comprendere se così si sia inteso (in tal caso, correttamente) liquidare invece la componente morale del danno alla persona (Cass., 20/08/2018, n. 20795, Cass., 03/03/2023, nn. 6443 e 6444).

  1. Consegue la cassazione per quanto di ragione della decisione impugnata.

Spese al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di appello di Firenze perché, in diversa composizione, si pronunci anche sulle spese del giudizio