SUI PRESUPPOSTI PER RICONOSCERE IL DANNO DA RITARDO: ESCLUSO IL RISARCIMENTO SE IL RITARDO E’ GIUSTIFICATO DALLA COMPLESSITA’ DEL PROCEDIMENTO

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5419 del 2010, proposto da:
Francesca Srl, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Stefania Emanuela Cona, Stefano Aceto, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli, 180;

contro

Comune di Desenzano del Garda, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall’avv. Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso Paolo Rolfo in Roma, via Appia Nuova 96;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della LOMBARDIA – Sezione Staccata di BRESCIA – SEZIONE I n. 00859/2009, resa tra le parti, concernente PERMESSO DI COSTRUIRE PARCHEGGIO PUBBLICO.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Desenzano del Garda;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 22 gennaio 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Mario Sanino e Paolo Rolfo (su delega dell’Avvocato Domenico Bezzi);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Con la sentenza n. 859/2009 in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia –Sede di Brescia- ha soltanto in parte accolto il ricorso di primo grado proposto dalla società Francesca Srl, con il quale era stato chiesto l’annullamento del permesso di costruire n. 12893 alla stessa rilasciato il 30 luglio 2007, nella parte in cui poneva alcune prescrizioni alla società odierna appellante (obbligo di cessione di un’area per parcheggio pubblico, computo nella volumetria tanto del ristorante accessorio quanto del locale per il custode, divieto di installazione di pannelli fotovoltaici), nonché della determinazione del contributo di costruzione, sia con riguardo agli oneri di urbanizzazione sia relativamente al contributo sul costo di costruzione, con la condanna alla restituzione di quanto versato in più dalla originaria ricorrente.

Era stata altresì richiesta la condanna dell’amministrazione comunale al risarcimento del danno asseritamente arrecato alla odierna appellante società Francesca Srl.

Quest’ultima – proprietaria di un complesso alberghiero di nuova costruzione nel Comune di Desenzano del Garda in via Agello 80 insistente su un’area sulla quale gravava un vincolo paesistico- con il mezzo di primo grado, aveva prospettato analitiche censure di violazione di legge ed eccesso di potere singolarmente attingenti numerosi singoli profili delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire rilasciatole in quanto considerate lesive.

Essa aveva rappresentato che l’immobile ed il terreno pertinenziale erano stati acquistati il 20 novembre 1997 a un’asta pubblica nell’ambito di una procedura di liquidazione coatta amministrativa e l’atto notarile di acquisto era stato poi integrato il 26 maggio 1998 con la precisazione dei mappali interessati.

Nell’atto di acquisto del 20 novembre 1997 era richiamato l’obbligo di “cedere gratuitamente al Comune di Desenzano del Garda le parti dei terreni acquistati come risulta dalla planimetria allegata al citato atto di provenienza sotto la lettera B”. Poiché l’iniziale concessione edilizia n. 6090 del 18 dicembre 1990 era scaduta prima dell’ultimazione dei lavori la acquirente predetta ne aveva chiesto il rinnovo in data 4 novembre 2002 (il Comune aveva rilasciato il permesso di costruire n. 10841 dell’11 febbraio 2004). 3. In seguito, con istanza presentata il 23 dicembre 2005, essa aveva chiesto l’approvazione di una variante in corso d’opera

Il primo giudice ha in primo luogo ripercorso il lungo e travagliato iter sotteso alla detta domanda di variante (capi 3-11 della censurata decisione) ed ha dato atto che il responsabile dell’Area Servizi al Territorio aveva comunicato alla società richiedente in data 16 luglio 2007 il contenuto del permesso di costruire n. 12893 chiedendo il versamento del contributo di costruzione per complessivi € 45.294,81 (precisamente € 18.562,42 per urbanizzazione primaria, € 15.491,79 per urbanizzazione secondaria, € 11.240,60 quale contributo sul costo di costruzione) e che dopo il deposito da parte della originaria ricorrente delle fatture e delle fideiussioni il Comune le aveva rilasciato in data 30 luglio 2007 il permesso di costruire (il successivo 31 luglio 2007 essa aveva chiesto al Comune di rivedere la decisione di includere il ristorante nella volumetria complessiva, in quanto i servizi di bar e ristorante erano qualificati come accessori dell’attività alberghiera direttamente dall’art. 2 comma 1 della LR 28 aprile 1997 n. 12, ricevendone risposta negativa).

Ha quindi esaminato singolarmente le censure dedotte avverso le limitazioni introdotte dal Comune nel permesso di costruire n. 12893 del 30 luglio 2007 rispetto al progetto presentato, e contro la determinazione del contributo di costruzione.

Ha in primo luogo perimetrato la materia del contendere, facendo presente che il petitum contenuto nel mezzo di primo grado poteva essere così scomposto:

a)mancanza di un titolo vincolante che imponesse la cessione al Comune dell’area destinata a parcheggio pubblico dal PRG; b) violazione dell’art. 2 comma 1 della LR 12/1997 e dell’art. 4 delle NTA vigenti all’epoca dei fatti per quanto riguardava il computo nella SLP e nella volumetria del seminterrato adibito a ristorante; c) violazione dell’art. 22 ultimo comma delle NTA per quanto riguardava il computo dell’alloggio del custode nella volumetria alberghiera complessiva; d) illogicità del divieto di collocare pannelli fotovoltaici su un apposito pergolato; e) violazione dell’art. 48 comma 4 della LR 11 marzo 2005 n. 12, in quanto il contributo sul costo di costruzione era stato calcolato con riferimento non al costo effettivo ma al costo teorico determinato in base al prezziario della Camera di Commercio; f) irragionevolezza, in quanto ai fini del calcolo del contributo sul costo di costruzione non era stato scorporato il costo della piscina non realizzata; g) irragionevolezza, in quanto ai fini del calcolo degli oneri di urbanizzazione non era stata scorporata la SLP relativa alle attività accessorie; h) irragionevolezza per mancato scomputo dagli oneri di urbanizzazione del costo dello spostamento della fognatura comunale.

Ha parimenti evidenziato che era stata altresì chiesta la condanna del Comune al risarcimento del danno consistente nelle conseguenze negative derivanti dall’eccessiva durata del procedimento di rilascio del permesso di costruire e dalla mancata autorizzazione alla installazione dei pannelli fotovoltaici.

Quanto al primo profilo del gravame (non afferente alle problematiche relative al calcolo del costo di costruzione ed allo scomputo degli oneri di urbanizzazione) il primo giudice ha respinto le prime tre censure, ed ha invece accolto (capi 21-23 della gravata sentenza) la quarta doglianza affermando la illogicità del divieto di collocare pannelli fotovoltaici sul piano di copertura mediante un apposito pergolato posto a protezione degli stessi.

Soffermandosi poi sulla parte del mezzo di primo grado contenente le censure afferenti al calcolo del costo di costruzione il primo giudice ha disatteso il quinto motivo incentrato sulla supposta violazione dell’art. 48 comma 4 della legge regionale della Lombardia, mentre ha parzialmente accolto il sesto motivo, con il quale si censurava la irragionevolezza del calcolo del contributo sul costo di costruzione senza scorporare la piscina sul piano di copertura (opera presente nel progetto originario ma non realizzata perché sostituita da una piscina al piano terra).

Ciò perché, essendo subentrata nella posizione della dante causa, la originaria ricorrente poteva avvalersi dell’attività posta in essere dalla stessa (oltre che subirne le limitazioni). Nello specifico poteva esigere che il costo della piscina al piano terra fosse compensato, in tutto o in parte, con il costo della piscina sul piano di copertura già utilizzato in precedenza come base di calcolo per definire il contributo sul costo di costruzione.

Tale affermazione però, ha precisato il Tar, poteva riguardare tuttavia solo il costo di costruzione della piscina vera e propria sul piano di copertura e non quello dei pilastri rinforzati e delle altre opere accessorie, che essendo al servizio dell’intero edificio dovevano rimanere al loro posto e non potevano essere oggetto di rivisitazione nei calcoli.

Il costo di costruzione della piscina del piano di copertura doveva poi essere ridotto dell’importo corrispondente alla struttura che sulla copertura aveva sostituito la suddetta piscina

Il Tribunale amministrativo ha infine preso in esame, respingendole entrambe, la settima doglianza (con la quale si era lamentata la circostanza che dalla base di calcolo degli oneri di urbanizzazione non fosse stata scorporata la SLP relativa alle attività accessorie) e l’ottavo motivo di censura (mercè il quale si era sostenuto che dagli oneri di urbanizzazione doveva essere scomputato il costo dello spostamento della fognatura comunale gravante sulla odierna appellante in quanto interferente con il parcheggio interrato del nuovo progetto).

Il Tar ha quindi precisato l’effetto discendente dal parziale accoglimento del mezzo di primo grado, facendo presente che dall’ annullamento del diniego alla installazione dell’impianto fotovoltaico discendeva la possibilità per la originaria ricorrente di realizzare il suddetto impianto (fermo restando il potere del Comune di imporre prescrizioni puntuali strettamente collegate alla tutela del vincolo paesistico) mentre dall’ annullamento del mancato scorporo dal costo di costruzione della piscina originariamente progettata sul piano di copertura derivava l’obbligo per il Comune di ridefinire il costo di costruzione secondo i criteri ivi indicati e di calcolare su questa base il contributo effettivamente dovuto mentre la differenza avrebbe dovuto essere restituita alla originaria ricorrente con gli interessi legali dalla comunicazione della sentenza ( previa acquisizione della prova documentale dell’effettivo pagamento, da parte della dante causa, del contributo in relazione anche al costo della piscina progettata sul piano di copertura).

Quanto al petitum risarcitorio, esso è stato soltanto parzialmente accolto.

Il Tar ha infatti negato la sussistenza di un pregiudizio risarcibile scaturente dalla –asseritamente abnorme- durata del procedimento autorizzatorio, evidenziando che la durata era compatibile alla necessità di valutare un progetto complesso, con molti dettagli e che alla dilatazione dei tempi aveva contribuito anche la società istante presentando solo su sollecitazione del Comune e comunque in ritardo parte della documentazione richiesta.

E’stata invece affermata la risarcibilità del danno discendente dalla omessa autorizzazione alla installazione dei pannelli fotovoltaici, ritenendo positivamente integrato il requisito della condotta colposa in capo all’amministrazione comunale: in ordine alla quantificazione del danno risarcibile, il Tar ha individuato i criteri individuativi delle “voci” di danno, stabilendo che lo stesso, armonicamente ai detti criteri fosse determinato dall’amministrazione in contraddittorio con la società originaria ricorrente ex art. 35, comma 2, del d. Lgs. 80/98.

La società originaria ricorrente Francesca Srl ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendone la riforma: essa ha i ripercorso la cronologia degli accadimenti ed ha censurato la impugnata decisione sotto tutti gli angoli prospettici.

In particolare,da un canto ha sostenuto che la cessione gratuita dell’area da destinare a parcheggio le era stata sostanzialmente imposta dall’amministrazione comunale, ma che essa non era obbligata in tal senso in virtù di precedenti manifestazioni di volontà, proprie o della dante causa.

Sotto altro profilo, ha gravato i capi reiettivi delle doglianze articolate in primo grado ed ha anche criticato i capi accoglitivi laddove – secondo la tesi esposta nell’appello- il Tar le aveva accordato un risarcimento del tutto inadeguato rispetto ai gravi danni subiti.

In vista della camera di consiglio fissata per la delibazione della istanza cautelare il comune ha depositato una articolata memoria confutando la porzione dell’appello dedicata a dimostrare la insussistenza dell’obbligo di cessione gratuita dell’area da destinare a parcheggio,evidenziando che l’appellante Francesca S.R.L.vi era obbligata sia in proprio che per derivazione dalla propria dante causa.

 

Alla camera di consiglio del 20 luglio fissata per la delibazione della istanza di sospensione della esecutività della sentenza gravata proposta dall’amministrazione comunale la Sezione con la ordinanza n. 3400/2010 ha accolto la richiesta di sospensiva alla stregua della considerazione per cui “Considerato che con l’appellata sentenza il TAR ha accolto i motivi riguardanti l’impianto fotovoltaico e il mancato scorporo dal costo di costruzione della piscina originariamente progettata sul piano di copertura;

Ritenuto, tuttavia, che seppure l’interesse a costruire per come prospettato dall’appellante ha ricevuto parziale riconoscimento dall’appellata sentenza, la stessa non appare del tutto perspicua ( cfr. sub p. 14 della motivazione ) con riferimento alla cessione coattiva dell’area destinata a parcheggio sottratta alla disponibilità dell’appellante;

Rilevato, per converso, che non appaiono motivi d’urgenza per destinare la predetta area a parcheggio ad uso pubblico;” .

E’ stata pertanto sospesa la esecutività della gravata decisione, limitatamente alla cessione coattiva dell’area a parcheggio.

 

Tutte le parti processuali hanno poi depositato memorie di replica volte a confutare le difese delle controparti

Alla odierna pubblica udienza del 22 gennaio 2013la causa è stata posta in decisione.

 

DIRITTO

1.L’appello è parzialmente fondato, e deve essere parzialmente accolto, nei termini che verranno analiticamente indicati nella motivazione che segue.

1.1. Contrariamente a quanto richiesto dall’appellata amministrazione comunale non ritiene il Collegio di aderire alla richiesta di riunione del gravame in epigrafe n. 5419/2010 proposto dalla società Francesca s.r.l. avverso la sentenza n. 859/2009 con i ricorsi in appello n. 5223/2008 e n. 5493/2008 proposti dalla stessa società odierna appellante Francesca s.r.l. e dall’amministrazione comunale di Desenzano avverso la sentenza n. 279/2008 e del pari chiamati in decisione alla odierna pubblica udienza trattandosi di fattispecie connesse unicamente sotto il profilo “storico” che presentano problematiche giuridiche e fattuali distinte e che, pertanto, è opportuno esaminare separatamente.

 

2. Ciò premesso, la prima complessa doglianza che è opportuno scrutinare riguarda i capi della gravata decisone mercè i quali il primo giudice ha ritenuto di respingere la censura incentrata sulla asserita mancanza di un titolo vincolante che imponesse alla appellante società la cessione al Comune dell’area destinata a parcheggio pubblico dal PRG.

2.1. Tale porzione del ricorso in appello è palesemente infondata.

L’appellante supporta la propria critica alla gravata sentenza attraverso tre prospettazioni, richiamandosi addirittura alle disposizioni di cui all’ art. 23 e 42 della Costituzione.

Si è sostenuto infatti che non v’era alcun obbligo di legge incombente sulla stessa che la onerasse a cedere le dette aree al comune; che alla dichiarazione di cessione sottoscritta dal proprio legale rappresentante non poteva attribuirsi il detto significato (e che, sostanzialmente, detta dichiarazione era stata dal Comune “forzosamente ottenuta”) e che neppure un simile obbligo era ascrivibile alla propria dante causa, tanto che non era mai stato trascritto né riportato nel permesso di costruire a quest’ultima rilasciato.

In ogni caso per i contratti sottoscritti dall’amministrazione era prevista la forma scritta (imposta ad substantiam, a pena di nullità dell’atto) per cui ogni pattuizione relativa era nulla.

2.2. Rileva il Collegio (seppur nei limiti della cognizione spettante sulla questione che la difesa dell’appellante pone) che gli argomenti difensivi – a tratti confondendo la questione della opponibilità a terzi delle pattuizioni stipulate in materia urbanistica dall’amministrazione con i privati con quella del vincolo nascente sull’acquirente o sulla parte che per prima ebbe ad impegnarsi – prospetta censure del tutto inconsistenti.

Stabilisce l’art. 1489 del codice civile che “se la cosa venduta è gravata da oneri o da diritti reali o personali non apparenti che ne diminuiscono il libero godimento e non sono stati dichiarati nel contratto, il compratore che non ne abbia avuto conoscenza può domandare la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo secondo la disposizione dell’articolo 1480.”

Ne discende che nulla può essere obiettato se la previsione sia contenuta nell’atto di acquisto e/o se della sussistenza del “vincolo” l’acquirente fosse stato edotto: egli è anzi tenuto a rispettare detta previsione.

Nel caso di specie nel rogito di acquisto dell’area del 20 novembre 1997 rep. 13070 notaio Rottoli era espressamente specificato, al punto 5 che “esiste l’obbligo di cedere gratuitamente al Comune di Desenzano del Garda le parti dei terreni acquistati come risulta dalla planimetria allegata al citato atto di provenienza sotto la lettera B” e che “parte acquirente” si dichiara edotta ed accetta tutti i patti e le condizioni riportati nel citato atto di provenienza o dallo stesso richiamati”.

Appare incontestabile pertanto che: l’obbligo predetto era sussistente in capo alla dante causa dell’acquirente, e non risulta che la cedente lo abbia mai contestato innanzi al giudice civile competente; che di detto obbligo l’odierna appellante fu resa edotta; che esso vincolava espressamente quest’ultima; che, coerentemente con detto impegno anche quest’ultima abbia provveduto a darvi corso con separata e successiva dichiarazione indirizzata all’amministrazione comunale.

In contrario senso rispetto alle emergenze processuali, l’appellante ipotizza che – quanto all’atto del 2007 dalla stessa sottoscritto- il significato del medesimo non fosse quello desumibile dal tenore letterale; che quest’ultimo le sia stato sostanzialmente “estorto” dal comune; che nessun vincolo incombeva su se stessa e neppure sulla propria dante causa. Senonchè, in disparte la circostanza che la preesistenza del vincolo a cedere l’area al comune non è mai stata contestata, davvero non è agevole riscontrare in base a quale iter logico possa essere prospettata la detta domanda.

Argomentando per pura comodità espositiva ipotizzando che l’obbligo non preesistesse a carico della propria dante causa, una volta inserito nell’atto di acquisto lo stesso integra obbligo perfetto ed efficace in capo all’acquirente.

L’appellante sostiene che non si era in presenza di alcuna convenzione urbanistica e che pertanto non sarebbe traslabile alla vicenda il principio per cui “l’obbligo di “facere”, previsto in una convenzione a carico della parte lottizzante, consistente nella realizzazione delle opere e nella conseguente cessione delle aree, ai sensi dell’art. 8, comma 5°, n. 2 e comma 7°, della legge 6 agosto 1967, n. 765, ha natura di prestazione patrimoniale imposta e di obbligazione “ambulatoria” o “propter rem” dal lato passivo, gravante, quindi, sugli aventi causa degli originari lottizzanti, per cui, di norma e salva diversa pattuizione negoziale, l’aventecausa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest’ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti. In sintesi, la natura “reale” dell’obbligazione riguarda i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l’edificazione e poi i loro aventi causa.” (T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, 19-09-2011, n. 12259.

Ma ciò non integra affatto l’unico “titolo valido” in base al quale è possibile convenire una cessione di aree all’amministrazione comunale.

Ciò in disparte la circostanza che l’appellante medesima, con un atto di univoco tenore, cedette l’area stessa al Comune: il Collegio ritiene che la censura sia del tutto sfornita di qualsivoglia fumus di accoglibilità.

Né riveste possibile motivo di accoglimento della pretesa la (asseritamente vana) ricerca del “titolo sotteso” in base al quale la propria dante causa ritenne di essere obbligata alla cessione di un’area al Comune: detto elemento infatti risulta del tutto ininfluente, ben potendo la propria dante causa essersi determinata alla detta cessione per qualsivoglia ragione e, financo, per spirito di liberalità ed anche in carenza di alcun preesistente impegno, per la prima volta, allorchè cedette l’area alla odierna appellante.

La circostanza che tale obbligo sia stato inserito nel titolo in base al quale l’appellante avente causa è divenuta proprietaria, e che la detta appellante, stipulando il negozio di compravendita, si sia impegnata a rispettare, tra l’altro, detta pattuizione implica che sia incontestabile la sussistenza di un obbligo sulla stessa incombente, a tutto concedere secondo lo schema del contratto a favore di terzo.

Tutto ciò – lo si ripete- a tacere del fatto che successivamente il legale rappresentante dell’appellante sottoscrisse un analogo atto d’obbligo avente identico contenuto e che non risulta sia stato chiesta innanzi al competente giudice civile la declaratoria di inefficacia dello stesso in quanto affetto da vizio del consenso.

Da qualsiasi angolo prospettico la si valuti, la doglianza va sicuramente disattesa.

3. Vanno adesso partitamente vagliate le ulteriori doglianze articolate dall’appellante ed investenti i capi della impugnata decisione reiettivi (o soltanto parzialmente accoglitivi) delle censure articolate nel mezzo di primo grado ed investenti le limitazioni introdotte dal Comune nel permesso di costruire n. 12893 del 30 luglio 2007 rispetto al progetto presentato, la determinazione del contributo di costruzione e la quantificazione risarcitoria.

3.1. Possono essere esaminate congiuntamente le censure rubricate ai nn. 2 e 3 dell’atto di appello.

3.2.La prima di esse è volta a ribadire la tesi secondo cui la pretesa del Comune di computare il seminterrato adibito a ristorante nella SLP, e quindi nella volumetria, violerebbe l’art. 2 comma 1 della LR 12/1997 e l’art. 4 delle NTA vigenti all’epoca dei fatti.

La disposizione di cui all’art. 2 comma 1 della LR 12/1997 così prevedeva (essa risulta confermata dalla sopravvenuta legge n. 15/2007, art. 22) “Sono aziende alberghiere le aziende organizzate per fornire al pubblico, con gestione unitaria, alloggio in almeno sette camere o appartamenti, con o senza servizio autonomo di cucina, ed altri servizi accessori per il soggiorno, compresi eventuali servizi di bar e ristorante.

Le aziende alberghiere si distinguono in:

a) «alberghi» quando offrono alloggio prevalentemente in camere;

b) «residenze turistico-alberghiere» (R.T.A.) quando offrono alloggio in appartamenti costituiti da uno o più locali, dotati di servizio autonomo di cucina.

L’appartenenza all’una o all’altra tipologia viene determinata dalla prevalenza nel computo della capacità ricettiva tra camere ed appartamenti, fermo restando che per le RTA, la durata del periodo di permanenza non può essere inferiore a sette giorni”.

Sulla valenza di tale disposizione v’è contrasto, atteso che, ad avviso del primo giudice, “la definizione delle attività accessorie data dalla legislazione regionale con finalità classificatorie non implica che sul piano urbanistico l’abbinamento di attività alberghiere e attività di ristorazione veda sempre le prime come principali e le seconde come accessorie. Il vincolo di accessorietà deve comunque essere valutato in concreto sulla base della prevalenza economica. Diversamente vi sarebbe sovrapposizione di un criterio legale alla situazione effettiva con il rischio di risultati urbanistici irragionevoli.”.

Il punto nodale della motivazione reiettiva, non si ravvisa, tuttavia, nella sopradetta affermazione, in quanto il responsabile dell’Area Servizi al Territorio nella nota del 21 febbraio 2006, aveva preso atto che l’attività di ristorazione era meramente ausiliaria di quella alberghiera.

Superato l’ostacolo della “accessorietà” in relazione alla presa di posizione dell’Amministrazione ciò avrebbe implicato in via teorica la possibilità di avvalersi della “deroga” di cui all’art. 4 delle NTA vigente al momento del rinnovo della concessione edilizia il quale escludeva dal computo della SLP le parti interrate o seminterrate che fossero state vincolate ad attività accessorie a quella alberghiera mediante un atto di asservimento registrato e trascritto.

Senonchè, ha osservato il primo giudice, quando il permesso di costruire era stato rilasciato (30 luglio 2007) questa norma era ormai stata sostituita dal nuovo art. 7 delle NTA, il quale introduceva un limite ulteriore consentendo la deroga soltanto per i locali interrati e non più anche per i seminterrati come il ristorante in questione. In salvaguardia l’art. 7 delle NTA era in vigore dal 7 febbraio 2005, e poiché la valutazione circa il computo della SLP e della volumetria si era svolta all’interno dell’esame della variante presentata il 23 dicembre 2005 non vi erano elementi che potessero collegare l’aspettativa della originaria ricorrente alla più favorevole disciplina anteriore. Il fatto che la prima concessione edilizia fosse del 1990 e il rinnovo del 2004 non poteva cambiare questa conclusione.

Nell’atto di appello ci si duole di tale argomentare e, in sintesi, si sostiene che il diritto era sorto in capo all’appellante nel 2004 in quanto i titoli illo tempore formatisi prevedevano che il ristorante fosse ubicato nel seminterrato, in forza della equiparazione tra interrato e seminterrato illo tempore esistente.

La censura è fondata per due ordini di ragioni: una di esse è endemicamente connessa alla specifica situazione di fatto; l’altra si fonda sul principio desumibile dall’invocato art. 15 del dPR n. 380/2001.

Come è incontestato tra le parti, la necessità in capo all’appellante di presentare una variante nel dicembre 2005 si fondava sulle sopravvenute disposizioni (poi annullate dal Tar con la decisione n. 279/2008 gravata mercè i ricorsi n. 5223/2008 e n. 5493/2008 proposti dalla stessa società odierna appellante Francesca s.r.l. e dall’amministrazione comunale di Desenzano e del pari chiamati in decisione alla odierna pubblica udienza). E’ quindi non condivisibile l’affermazione per cui – a fronte di una previsione di allocazione del ristorante nel seminterrato già contenuta nel permesso di costruire del 2004 – possa affermarsi che “non vi sono elementi che potessero collegare l’aspettativa della originaria ricorrente alla più favorevole disciplina anteriore”. Ciò si coniuga con il principio generale previsto ex art. 15 comma 4 del dPR n. 380/2001 (“Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio.”) espressivo della possibilità che, a particolari condizioni, anche una costruzione collidente con sopravvenute disposizioni possa essere comunque portata a compimento.

Se così è, non potendo la necessità di presentare una variante al permesso di costruire (discendente dalla introduzione di una norma poi reputata illegittima perché illogica ed arbitraria in sede giudiziale) ridondare in pregiudizio dell’ originario ricorrente vincitore, e non potendosi fare carico a questi della circostanza di avere presentato una variante, pare al Collegio che non fosse applicabile, nello specifico caso, la disciplina in salvaguardia sopravvenuta ex art. 7 delle NTA.

E’ appena il caso di precisare, per altro, che l’odierna appellante non avrebbe dovuto impugnare la disposizione della neointrodotta Nta in salvaguardia in quanto – secondo il proprio angolo prospettico- la propria posizione non soggiaceva alla disposizione in ultimo introdotta in epoca successiva al rilascio del permesso di costruire ed antecedente alla presentazione della detta variante.

La censura va quindi accolta, non essendovi alcuna necessità (come dal primo giudice ipotizzato) di “estendere la previsione dell’art. 7 delle NTA superveniens ai seminterrati in via interpretativa” ma dovendosi applicare all’appellante la antevigente previsione contenuta di cui all’art. 4 delle NTA (certamente vigente al momento del rinnovo della concessione edilizia) il quale escludeva dal computo della SLP le parti interrate o seminterrate che fossero state vincolate ad attività accessorie a quella alberghiera mediante un atto di asservimento registrato e trascritto (come, peraltro,in prima battuta ritenuto dallo stesso comune, che richiese l’atto di asservimento).

Ciò ovviamente, tenendo conto della circostanza che l’accessorietà dell’attività di ristorazione a quella alberghiera era stata positivamente riconosciuta dall’Amministrazione con la nella nota del 21 febbraio 2006 del responsabile dell’Area Servizi al Territorio.

3.3. Quanto invece alla connessa doglianza – relativa al contestato obbligo di inserire l’alloggio del custode nella cubatura- rubricata al n. 3 dell’appello, il Collegio non condivide la critica dell’appellante.

L’invocato art. 22 delle NTA si limita a consentire nelle zone destinate agli alberghi (edificate e inedificate) la realizzazione di un alloggio di servizio di non più di 95 mq netti: la circostanza che esso venga definito “alloggio di servizio” non è di per se decisiva per assimilarlo alle altre parti accessorie escluse dal computo della volumetria.

Prova di ciò ne è la circostanza che detto alloggio non è certo neutro sotto il profilo del peso insediativo, a differenza delle altre parti accessorie (scale, vano ascensore, etc) cui l’appellante ritiene esso debba essere assimilato.

Come si è visto prima, il Collegio concorda con la tesi esposta dal primo giudice secondo la quale l’esclusione di una particolare tipologia di locali dal computo della SLP e della volumetria, ha natura eccezionale e deve quindi essere espressamente prevista: l’art. 22 delle Nta non si presta a tale espressa esclusione e, pertanto, la doglianza va disattesa, non risultando probante in senso contrario la normativa fiscale in punto di categoria di accatastamento.

4.La quarta censura si incentra sul disposto di cui all’art. 48 della legge regionale lombarda n. 12 del 2005.

Tale prescrizione in ultimo citata così statuisce:” Il costo di costruzione per i nuovi edifici è determinato dalla Giunta regionale con riferimento ai costi massimi ammissibili per l’edilizia agevolata.

Nei periodi intercorrenti tra i provvedimenti della Giunta regionale, di cui al comma 1, il costo di costruzione è adeguato annualmente ed autonomamente dai comuni, in ragione dell’intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), con decorrenza dell’importo aggiornato dal 1° gennaio successivo.

Il contributo relativo al costo di costruzione comprende una quota di detto costo, variabile dal 5 al 20 per cento, che viene determinata dalla Giunta regionale in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione.

Per gli interventi con destinazione commerciale, terziario direttivo, turistico-alberghiero-ricettivo, il contributo è pari ad una quota non superiore al 10 per cento del costo documentato di costruzione da stabilirsi, in relazione alle diverse destinazioni, con deliberazione del consiglio comunale. (149)

Per gli interventi destinati ad impianti sportivi e ricreativi il contributo del 10 per cento è rapportato unicamente al costo degli edifici posti al servizio o annessi all’intervento.

Per gli interventi di ristrutturazione edilizia non comportanti demolizione e ricostruzione il costo di costruzione è determinato in relazione al costo reale degli interventi stessi, così come individuato sulla base del progetto presentato e comunque non può superare il valore determinato per le nuove costruzioni ai sensi dei commi da 1 a 5.

La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio, ovvero per effetto della presentazione della denuncia di inizio attività, è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune e comunque non oltre sessanta giorni dalla data dichiarata di ultimazione dei lavori. ”

Il primo giudice ha motivato in senso reiettivo considerando i precetti di cui ai commi 4 e 6 una specificazione del disposto di cui al comma 1.

Così non appare al Collegio, in adesione alle doglianze di parte appellante che ha buon giuoco nel sottolineare che il “costo reale e documentato” (ovviamente presumibile secondo un giudizio ex ante) previsto ai commi 4 e 6 (che, stante la natura dell’intervento, e la tipologia e destinazione dell’ immobile certamente trovano applicazione alla fattispecie in esame) costituisce un parametro diverso da quello previsto al comma 1 ed escludente quest’ultimo.

La esigenza di “uniformare il costo di costruzione che deriverebbe dalla natura di questa prestazione patrimoniale, che deve essere ascritta alla categoria dei tributi locali” è stata evidentemente ritenuta dal legislatore regionale recessiva rispetto ad una quantificazione caso per caso che tenga conto della specificità delle opere progettate.

Di tale diversa aspirazione, che rientra nella lata discrezionalità del legislatore regionale, afferendo alle modalità determinative non si può che tenere conto, e pertanto la prima parte della doglianza, afferente al criterio determinativo fondato sul costo reale documentato va accolta.

Non colgono nel segno, invece, le doglianze articolate nella seconda parte della motivazione contenuta nel decisum di primo grado: ivi il Tar, seppur con un ragionamento di natura ipotetica, ha evidenziato che (si riporta integralmente il testo del decisum di primo grado in parte qua) “l’operazione di calcolo del costo di costruzione effettuata dalla ricorrente non può essere condivisa neppure nel metodo, in quanto se lo scopo perseguito era di ottenere la spesa effettiva la verifica doveva essere effettuata su ogni singola voce di costo. La ricorrente ha invece effettuato una generalizzazione della media del risparmio calcolato su 13 voci senza dare alcuna dimostrazione della congruenza di questa percentuale rispetto alla parte residua dei costi”.

Il Collegio condivide in pieno tale articolazione della motivazione: non si tratta, come ingenerosamente sostenuto da parte della appellante società di “pretendere la massima analiticità”.

Si tratta invece di applicare la norma a buon diritto invocata dall’appellante medesima: il “costo reale degli interventi stessi” di cui al sesto comma del citato art. 48 non può essere determinato ricorrendo a valutazioni di sintesi e/o forfettarie, siccome preteso dall’appellante.

In quest’ultimo percorso argomentativo la doglianza deve essere quindi disattesa ed in sede di rideterminazione successiva alla rieffusione del potere il meccanismo di determinazione dovrà analiticamente tenere consto di ogni voce di costo e congruentemente dimostrata.

4.1. Va del pari parzialmente accolto (con riguardo ai locali adibiti a ristorazione e con esclusione dell’alloggio del custode, non ritenuto “accessorio”) il riproposto originario settimo motivo di censura con il quale ci si doleva della circostanza dalla base di calcolo degli oneri di urbanizzazione non sia stata scorporata la SLP relativa alle attività accessorie. Il primo giudice ha affermato il principio per cui dovendo i locali accessori essere computati nella SLP e nella volumetria complessiva, è corretto anche il loro inserimento nella base di calcolo degli oneri di urbanizzazione, in quanto si tratta di edificazioni che accrescono le esigenze di infrastrutturazione del territorio.

Il Collegio ribadisce il detto convincimento, che però, per le già chiarite ragioni non può riguardare l’alloggio del custode, ma soltanto la parte seminterrata adibita a ristorante in applicazione dell’art. 4 delle NTA vigenti al momento del rinnovo della concessione edilizia.

5. Restano adesso da scrutinare – con riguardo alle censure di merito – le critiche relative alla quantificazione del contributo relativo alla piscina non realizzata e quelle relativi allo spostamento della fognatura.

5.1. Ritiene il Collegio che quanto alla problematica della piscina, si rammenta che il primo giudice ha già dato parzialmente ragione all’appellante, affermando il diritto della stessa ad esigere che il costo della piscina al piano terra sia compensato, in tutto o in parte, con il costo della piscina sul piano di copertura già utilizzato in precedenza come base di calcolo per definire il contributo sul costo di costruzione.

L’appellante censura la seconda parte del ragionamento svolto dal primo giudice, che –in termini che appaiono al Collegio del tutto condivisibili- ha affermato che detta compensazione poteva riguardare “ solo il costo di costruzione della piscina vera e propria sul piano di copertura e non quello dei pilastri rinforzati e delle altre opere accessorie, che essendo al servizio dell’intero edificio devono rimanere al loro posto e non possono essere oggetto di rivisitazione nei calcoli. Il costo di costruzione della piscina del piano di copertura deve poi essere ridotto dell’importo corrispondente alla struttura che sulla copertura ha sostituito la suddetta piscina.”.

Pare al Collegio che la pretesa dell’appellante non sia corretta: se i pilastri vennero originariamente progettati in previsione di dovere sopportare un carico maggiore la scelta di “eliminare” il detto carico superiore è esclusivamente ascrivibile ad una opzione della appellante: come esattamente rilevato dal Tar in primo grado i pilastri rinforzati e le altre opere accessorie, che essendo al servizio dell’intero edificio devono rimanere al loro posto non possono essere oggetto di rivisitazione nei calcoli.

Del pari merita conferma la affermata necessità di sottrarre dal valore da scomputare il costo della pavimentazione apposta in luogo della piscina: l’appellante non contesta la logica di tale affermazione (che ritiene “puntigliosa”) ma vi oppone circostanze (la diminuizione di tre voci di spesa effettuata, a suo dire, pro bono pacis) che, oltre a non essere oggetto di compiuta dimostrazione non elidono la fondatezza dell’affermazione giudiziale (fondata sulla mera constatazione della sostituzione di un opera con un’altra): né possono assumere rilievo le eventuali opere di contorno alla piscina stessa (scalini, etc,) in quanto non mai realizzate.

La censura va dunque respinta, nei termini suindicati.

5.2. Deve del pari essere integralmente respinta la doglianza relativa al preteso diritto di parte appellante a scomputare gli oneri relativi allo spostamento della fognatura: non sussiste elemento alcuno per affermare che v’è prova che il Comune ha occupato una porzione di area di pertinenza dell’appellante per la realizzazione del marciapiedi e della pista ciclabile. La incontestata circostanza che l’appellante non abbia proposto azioni a tutela della proprietà non può che determinare (anche) la conseguenza che la spesa per lo spostamento della fognatura comunale interferente con il parcheggio interrato gravi su quest’ultima: né può essere contestata la circostanza che l’occasione che ha determinato la necessità dello spostamento della fognatura sia stata determinata dal progetto in variante presentato in carenza di una statuizione accertativa della circostanza che il comune abbia abusivamente occupato un’area dell’appellante e vi abbia edificato il marciapiedi e la pista ciclabile, l’onere dello spostamento della fognatura non può a questi essere addossato.

Anche tale doglianza, pertanto, va pertanto, disattesa.

6.Così conclusa la disamina delle singole doglianze afferenti le partite obiezioni mosse dall’appellante avverso i capi della impugnata decisione che avevano ritenuto legittimo l’operato dell’amministrazione comunale in sede di rilascio del permesso di costruire in punto di computo degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, può procedersi all’esame delle residue critiche investenti il quantum del petitum risarcitorio riconosciuto in primo grado.

6.1. A tal proposito, il Collegio deve farsi carico in via prioritaria di esaminare la obiezione mossa dall’amministrazione comunale secondo la quale la domanda risarcitoria articolata in appello è del tutto nuova e diversa da quella articolata in primo grado e, come tale, sarebbe inammissibile impingendo nel disposto di cui all’art. 345 cpc e 104 del cpa.

6.2. La eccezione coglie soltanto parzialmente nel segno.

6.2.1. Muovendo dalla incontestata ed incontestabile constatazione per cui la odierna parte appellante, allorchè propose il ricorso di primo grado, procedette ad una analitica elencazioni delle voci di danno “risarcibile” il Collegio condivide e fa proprio il costante orientamento della giurisprudenza civile di legittimità che, a far data dalla importante decisione della Terza Sezione della Cassazione Civile 09-05-1988, n. 3403, ha costantemente affermato il principio per cui “in tema di risarcimento dei danni da responsabilità’ civile, l’unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell’ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni cagionatigli da un determinato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; tuttavia, tale principio non può trovare applicazione quando l’attore “ab initio” o durante il corso del giudizio abbia esplicitamente escluso il riferimento della domanda a tutte le possibili voci di danno, dovendosi coordinare il principio di infrazionabilità della richiesta di risarcimento con il principio della domanda. Ne consegue che, qualora nell’atto di citazione siano indicate specifiche voci di danno e tra le stesse non sia indicata quella relativa ai danni materiali, l’eventuale domanda proposta in appello è inammissibile per novità, mentre deve intendersi abbandonata se precedentemente formulata e non riproposta nella precisazione delle conclusioni.”(Cass. civ. Sez. III, 07-12-2004, n. 22987 in punto di danno biologico, ma si veda anche, ancora di recente, Cass. civ. Sez. III Sent., 22-08-2007, n. 17873 e, soprattutto, Cass. civ. Sez. III Sent., 20-02-2007, n. 3936).

Alla stregua del superiore principio (e con esclusivo riferimento alle richieste articolate nell’atto di appello, non potendosi a fortiori proporre domande “nuove” con semplice memoria in corso di giudizio) deve essere dichiarato inammissibile, in quanto nuovo e non mai proposto in primo grado il petitum di cui al punto 3.1. esposto alle pagg. 35 e 36 dell’atto di appello (relativo alla perdita di valore aziendale concernente alla perdita di cubatura relativa all’area ristorante ed all’alloggio del custode- peraltro con riferimento a tale ultimo locale la censura è stata respinta nel merito-).

6.2.2. Quanto alle ulteriori doglianze investenti la quantificazione del danno ed elencate nell’atto di appello, queste ultime non integrano domanda “nuova” ma specificazione della domanda già articolata in primo grado e, pertanto sono certamente ammissibili e possono essere scrutinate nel merito.

6.3.A tal proposito, non ritiene il Collegio che sia accoglibile la censura fondata sull’asserito danno da ritardo con riguardo alla tempistica del rilascio del permesso di costruire da parte del Comune.

6.3.1. Rimarca a tal proposito il Collegio che già in passato la Sezione ha affermato che “una volta ammessa la risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi, non può negarsi la risarcibilità del danno subito dall’amministrato in presenza di una lesione direttamente conseguente dall’atto illegittimo. Il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario” (Cons. Stato Sez. IV, 23-03-2010, n. 1699).

Ciò in quanto “il risarcimento del danno ingiusto cagionato dalla pubblica amministrazione in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento presuppone che il tempo è un bene della vita per il cittadino e il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento ha sempre un costo.” ( si veda Cons. Stato Sez. V, 28-02-2011, n. 1271 proprio con riferimento al caso di ritardo nel rilascio di un permesso di costruire in variante).

La successiva evoluzione giurisprudenziale ha chiarito che la richiesta di accertamento del danno da ritardo ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento favorevole, se da un lato deve essere ricondotta al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per l’ontologica natura delle posizioni fatte valere, dall’altro, in ossequio al principio dell’atipicità dell’illecito civile, costituisce una fattispecie sui generis, di natura del tutto specifica e peculiare, che deve essere ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità. Di conseguenza, l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda ( si veda Cons. St., sez. IV, 4 maggio 2011, n. 2675, ma si veda anche Cons. Stato Sez. V, 21-03-2011, n. 1739).

In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero “superamento” del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma in integra “piena prova del danno” .

La valutazione è di natura relativistica, deve tenere conto della specifica complessità procedimentale, ma anche – in senso negativo per le ragioni dell’amministrazione intimata- di eventuali condotte dilatorie: si è detto pertanto che “il ritardo della P.A. non può essere giustificato con esigenze di sentire e risentire gli addetti ai lavori. La mancata organizzazione dell’ufficio e il ritardo nelle risposte alle legittime esigenze del privato comporta una responsabilità del Comune che ritarda il rilascio del permesso di costruire in variante con il risarcimento a favore del privato non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale.” (Cons. Stato Sez. V, 28-02-2011, n. 1271).

6.3.2. Secondo l’appellante, l’approdo reiettivo del primo giudice sarebbe errato in quanto: il procedimento sotteso alla variante presentata non era complesso; i termini di definizione del procedimento furono abbondantemente superati; l’Amministrazione andrebbe censurata anche per il suo indulgere in atteggiamenti dilatori.

6.3.3. Il Collegio non condivide tali valutazioni e non ritiene ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’amministrazione comunale appellata.

6.3.4. La tempistica procedimentale, (si fa riferimento alla compiuta ricostruzione dei passaggi procedimentali sottesi al rilascio del permesso di costruire contenuta ai punti 3-10 della gravata decisione del Tar Brescia n. 859/2009, da intendersi in parte qua integralmente trascritti in questa sede ed il cui materiale richiamo si omette al solo fine di non appesantire il presente elaborato) consente agevolmente di comprendere che la pluralità di modifiche presentate, i successivi esami che si resero necessari, le integrazioni documentali predisposte dalla società richiedente escludono alcun atteggiamento dilatorio in capo al comune.

Il Collegio condivide la tesi per cui il danno da ritardo potrebbe in via teorica sussistere anche nel caso di riscontrata legittimità della statuizione finale reiettiva o parzialmente reiettiva: senonchè in un caso quale quello all’esame dal Collegio, caratterizzato dalla continua interlocuzione tra le parti (come è bene che sia, al fine di evitare il proliferare di inutili e dispendiosi contenziosi) non può certo affermarsi la speciosità o dilatori età delle richieste di chiarimenti del Comune, sol che si consideri che taluni di essi erano diretti a provvedere a richieste dell’impresa appellante che hanno poi formato oggetto di domanda giudiziale e che sono state in parte respinte dal Tar e da questo Collegio.

Né dicasi – come sostiene parte appellante- che dalla circostanza che il progetto di variante riguardava soltanto il 10% della superficie complessiva dell’immobile, e che tratta vasi di semplice variante di completamento possa inferirsi la circostanza che ci si trovava al cospetto di una pratica “facile da adempiere”.

Al contrario, il progetto era ben complesso, e presupponeva il necessario esame di molti dettagli: né appare ex se censurabile il metodo seguito dalla competente Amministrazione riposante nella parziale disamina delle singole parti del progetto, apparendo lo stesso semmai, manifestazione di accurata attenzione.

Secondo l’appellante (pag. 34) il primo giudice avrebbe “individuato in Francesca S.r.l l’unico responsabile del ritardo”.

Il Collegio non rinviene alcuna affermazione atta ad avvalorare tale arbitraria conclusione: il primo giudice – e questo Collegio condivide tale approdo – ha unicamente escluso che il ritardo nella definizione del procedimento, seppur sussistente, fosse colposamente ascrivibile all’ente, tanto più che non irragionevoli, del resto, erano apparsi anche gli argomenti posti dal Comune a sostegno dei “pareri sospensivi” (ai quali la ditta ben frequentemente prestò sostanziale acquiescenza) a riprova della non palese illegittimità di tale modus operandi.

In considerazione di quanto fin qui esposto, appare evidente che, tenuto anche dei tempi tecnici legati all’esame del progetto nonché alle attività istruttorie necessarie per provvedere sull’istanza (attività anch’esse, per quanto sopra evidenziato, tali da rendere congrui i tempi impiegati), davvero non si ravvisa nella condotta dell’Amministrazione la sussistenza di manifeste violazioni di legge colposamente commesse, il che esclude la risarcibilità del danno lamentato (ex multis: “la domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043 c.c. , può essere accolta dal giudice solo se l’istante dimostra che il provvedimento favorevole avrebbe potuto o dovuto essergli rilasciato già ab origine e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell’illecito aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della sussistenza della colpa in capo alla pubblica amministrazione.”-Cons. Stato Sez. IV, 29-05-2008, n. 2564-).

Vanno pertanto respinte le censure proposte sub parte B del ricorso in appello, al punto 2 (pagg. 28 -35-) ed ai punti da 3.2. ai punti 3.2.7. in quanto costituenti specificazione delle voci riconducibili al ritardo nell’approvazione della variante al permesso di costruire.

6.4. In ultimo, parte appellante contesta nel quantum la statuizione risarcitoria relativa al motivo del mezzo di primo grado accolto, per la mancata installazione dell’impianto fotovoltaico.

6.4.1 A tale proposito, l’appellato comune ha riproposto la eccezione secondo cui la sentenza di primo grado (che ha riconosciuto fondato nell’an il petitum avanzato con il mezzo di primo grado) sarebbe errata, non avendo tenuto conto della circostanza che l’appellante ebbe a rinunciare alla realizzazione dell’impianto medesimo sponte propria.

L’eccezione (pagg. 10 ed 11 della memoria del comune datta 20 dicembre 2012) non ha pregio, in quanto a fronte di un intendimento negativo dell’amministrazione manifestato su una parte di un progetto il privato può avere prioritario interesse a modificare il progetto secondo le indicazioni ricevute per determinare il pronunciamento definitivo dell’amministrazione ma conserva la facoltà di contestare il provvedimento finale nelle parti non condivise. Pertanto il fatto che la originaria ricorrente abbia cancellato dal progetto l’impianto fotovoltaico non poteva impedire la proposizione del ricorso non integrando in alcun modo definitiva acquiescenza.

6.4.2. Ciò premesso, sostiene parte appellante censura il punto c) della specifica motivazione del primo giudice quanto a tale aspetto, laddove si è stabilito che “in via equitativa la durata della perdita risarcibile decorre dal 1 ottobre 2007 (ossia circa due mesi dopo il rilascio del permesso di costruire, per tenere conto dei tempi di installazione e attivazione dell’impianto) e terminerà alla data in cui inizieranno a essere erogati dall’autorità competente gli incentivi per l’impianto realizzato. È onere della ricorrente (e condizione per conservare il diritto al risarcimento per la durata sopra indicata) chiedere tempestivamente l’applicazione dei suddetti incentivi.”.

L’appellante sostiene che, in realtà, il danno sarebbe permanente (e di durata ventennale) ed ormai irrimediabile in quanto gli incentivi non sarebbero ormai più dalla stessa conseguibili: essa tuttavia non ha dimostrato alcuna di tali circostanze.

In particolare se non è ormai revocabile in dubbio – in quanto regiudicato – il punto di partenza della statuizione risarcitoria favorevole all’appellante che costituiva il presupposto originario della doglianza (il fatto, cioè, che i detti incentivi le sarebbero stati certamente erogati ove l’installazione del fotovoltaico fosse stata tempestivamente autorizzata dal comune) non risulta provata nè la circostanza che in tempo successivo non siano state previste ulteriori forme di incentivi ( è notorio invece che sono state previste delle tariffe incentivanti, pari a 0,365 per Kwh prodotto, previste dai decreti ministeriali per gli impianti messi in esercizio entro 31.12.2010) né il mancato conseguimento degli stessi.

In particolare non è stato dimostrato che tale impossibilità a godere degli incentivi consegua di necessità anche in ipotesi di presentazione del progetto approvato/approvabile a seguito della statuizione del Tar, mentre il danno “da decremento di valore” dell’immobile discendente dalla penalizzazione nella classificazione energetica costituisce una fattispecie accessoria che segue la previsione principale.

Esso avrebbe potuto essere risarcibile nella ipotesi in cui l’appellante avesse dovuto alienare l’immobile durante l’arco temporale (esattamente individuato dal primo giudice) necessario per realizzare l’impianto giovandosi della prescrizione accoglitiva contenuta nella sentenza del Tar: tale evenienza, tuttavia non è stata neppure prospettata, di guisa che l’evento dannoso resta prospettazione del tutto ipotetica, mentre, per il prosieguo, non è stato dimostrato che una migliore classificazione energetica non sia (più) in alcun modo conseguibile laddove vengano/venissero installati i pannelli fotovoltaici, siccome consentito a seguito della statuizione demolitoria del Tar, mentre i danni da “omesso ritorno pubblicitario” a cagione dell’avvenuta costruzione di un hotel energeticamente autosufficiente costituiscono, per il vero, evenienza indimostrata ma, pare potersi affermare, anche indimostrabile e come tale non quantificabile né risarcibile.

Le censure da 3.3.1. a 3.3.3 vanno pertanto disattese, mentre la infondatezza di quella di cui al punto 3.4. discende dalla non ritenuta sussistenza di un ritardo colposo nella definizione del procedimento di rilascio del permesso di costruire ascrivibile all’amministrazione comunale.

7.Conclusivamente, l’appello va parzialmente accolto, nei termini di cui alla motivazione che precede e, in parziale riforma della decisione di primo grado, deve essere accolto il ricorso di primo grado.

8.Le spese processuali vanno integralmente compensate a cagione della rilevante complessità in fatto della controversia e della soccombenza non integrale del Comune.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sull’appello, numero di registro generale 5419 del 2010 come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei termini di cui alla motivazione che precede e per l’effetto, in riforma parziale della gravata decisione, accoglie parzialmente il mezzo di primo grado.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 gennaio 2013 con l’intervento dei magistrati: