LE DECISIONI INERENTI ALLA FORMAZIONE DELLA COMMISSIONI DEI CONSIGLI REGIONALI SFUGGONO AL SINDACATO GIURISDIZIONALE

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, sezione prima, 21 febbraio 2019, n. 260, promosso dalla Regione Puglia con ricorso notificato il 18 aprile 2019, depositato in cancelleria il 30 aprile 2019, iscritto al n. 5 del registro conflitti tra enti 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 gennaio 2020 il giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi l’avvocato Ida Maria Dentamaro per la Regione Puglia e l’avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020.

 

RITENUTO IN FATTO

1.– Con ricorso notificato il 18 aprile 2019 al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia e al Presidente della prima sezione del TAR Puglia, sede di Bari, e depositato il 30 aprile 2019, la Regione Puglia ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri al fine di ottenere l’annullamento – previa declaratoria di non spettanza allo Stato – della sentenza 21 febbraio 2019, n. 260, emanata dal TAR Puglia, sede di Bari, sezione prima, con cui è stato annullato il verbale n. 63 del 22 ottobre 2018 della VII commissione consiliare permanente del Consiglio regionale della Puglia, avente ad oggetto «rinnovo della composizione della VII Commissione consiliare permanente».

La Regione ricorrente segnala che con nota dell’11 ottobre 2018 il Presidente del Consiglio regionale della Puglia aveva convocato per il 22 ottobre 2018 le sette commissioni consiliari al fine di procedere al rinnovo della composizione delle stesse, così come previsto dall’art. 9, ultimo comma, del regolamento interno del Consiglio regionale della Puglia, approvato con deliberazione del 22 dicembre 1970 e s.m.i.

Dal verbale n. 63 del 22 ottobre 2018 della VII commissione consiliare risulta che, nel corso della seduta, il Presidente del Consiglio regionale rilevava che per la VII commissione erano stati designati tredici componenti, con ciò contravvenendo a quanto previsto dal comma 15 del citato art. 9 del regolamento del Consiglio regionale, secondo cui «essuna Commissione può essere composta da un numero superiore a un quarto dei componenti il Consiglio». In virtù dell’art. 24, comma 1, della legge statutaria 12 maggio 2004, n. 7 (Statuto della Regione Puglia), infatti, i componenti del Consiglio regionale sono cinquanta e, di conseguenza, ciascuna commissione può essere composta al massimo da dodici membri.

Al fine di «assicurare la presenza nella VII Commissione di tutte le sensibilità politiche di opposizione», il Presidente del Consiglio regionale chiedeva ai consiglieri del MoVimento 5 Stelle (di seguito: M5S), «unica forza di opposizione ad aver designato due consiglieri, di indicarne uno solo». A fronte del loro diniego, il Presidente decideva di rimettere a un sorteggio l’individuazione dell’unico consigliere del M5S che avrebbe fatto parte della VII commissione.

A seguito di tali vicende, gli otto componenti del citato gruppo consiliare adivano il giudice amministrativo per domandare l’annullamento del verbale n. 63 del 2018 della VII commissione, e per ottenere «il riconoscimento del diritto del gruppo consiliare MoVimento 5 Stelle a vedersi attribuiti» due consiglieri all’interno della commissione stessa.

Il TAR Puglia, con la sentenza n. 260 del 2019 – respinta, tra le altre, l’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione avanzata dalla Regione Puglia – riteneva che la decisione del Presidente del Consiglio regionale era stata assunta in lesione del «principio proporzionale di cui all’art. 9 del regolamento interno, concernente la costituzione delle Commissioni, che devono risultare composte in maniera proporzionale, per quanto possibile, alla consistenza numerica di ciascun Gruppo in Consiglio». Inoltre, il giudice amministrativo affermava la violazione dell’art. 26, comma 2, lettera d), dello statuto reg. Puglia, secondo cui il Presidente del Consiglio regionale «garantisce il rispetto delle norme del presente Statuto e del regolamento interno del Consiglio, con particolare riferimento a quelle inerenti la tutela dei diritti delle opposizioni».

Annullando il verbale ricordato, il TAR prescriveva alla Regione Puglia di «riavviare da principio la procedura di rinnovo delle operazioni propedeutiche alla ripartizione dei 12 posti di componente della commissione VII». Il giudice amministrativo riteneva altresì «utile evidenziare, in termini di rigorosa applicazione dell’art. 9 del regolamento interno, le modalità di applicazione del metodo proporzionale» al caso di specie. All’esito dello svolgimento di alcune complesse operazioni «di tipo logico-matematico», individuava puntualmente quanti consiglieri, per ciascun gruppo consiliare, avrebbero dovuto essere designati componenti della commissione.

2.– Secondo la Regione Puglia, il giudice amministrativo avrebbe «esercitato in modo assai puntuale il c.d. potere conformativo, indicando “le modalità di applicazione del metodo proporzionale”, sviluppando calcoli e spingendosi fino a specificare quale gruppo (peraltro di maggioranza) perdere un componente a vantaggio del Movimento 5 Stelle».

Così disponendo, il TAR Puglia avrebbe però «attinto in pieno il merito delle determinazioni scaturite dalle votazioni della Commissione consiliare», provocando «la situazione, a dir poco paradossale, di una Commissione composta da 6 consiglieri di maggioranza e 6 di opposizione».

Ad avviso della ricorrente, la citata sentenza del TAR Puglia n. 260 del 2019 sarebbe «stata emanata in carenza assoluta di giurisdizione» ledendo, al tempo stesso, «l’autonomia costituzionalmente garantita della Regione, e, in particolare, del Consiglio regionale e dei suoi organi interni».

In primo luogo, la Regione ricorrente sostiene che la decisione del TAR Puglia sarebbe stata assunta in totale assenza di giurisdizione del giudice amministrativo: si sarebbe infatti in presenza di atti di un organo interno del Consiglio regionale «adottati nell’esercizio non già di una funzione amministrativa, bensì del proprio potere di autorganizzazione». Ai sensi dunque dell’art. 103 della Costituzione, nonché degli artt. 7, 133 e 134 dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), gli atti annullati dal TAR esulerebbero da quelli compresi nell’ambito della giurisdizione amministrativa.

In particolare, nel caso in esame, la commissione consiliare avrebbe esercitato una attribuzione costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 121, secondo comma, Cost. nell’ambito delle «funzioni di indirizzo politico, di controllo sull’esecutivo regionale e di autorganizzazione» (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 337 del 2009, n. 392 del 1999, n. 289 del 1997, n. 70 del 1985, n. 69 del 1985 e n. 81 del 1975).

Le determinazioni assunte in sede di commissione non sarebbero dunque configurabili come atti amministrativi assoggettabili alla giurisdizione amministrativa, ma quali «atti di autorganizzazione, indispensabili all’esercizio dei poteri attribuiti al Consiglio regionale dalla Costituzione e dallo Statuto regionale vigente». In particolare, rileverebbe la potestà legislativa di cui all’art. 121, secondo comma, Cost., «rispetto alla quale le Commissioni svolgono attività preparatorie, ausiliarie e talvolta di vero e proprio decentramento delle funzioni attribuite al Consiglio regionale».

Proprio alla luce di tali competenze, la Regione lamenta che lo Stato, tramite il TAR Puglia, «nell’esercitare la propria giurisdizione sul verbale di cui trattasi invaso la sfera delle attribuzioni assegnate dalla Costituzione alla Regione, ledendo l’autonomia e le prerogative costituzionali dell’Assemblea legislativa e dei suoi organi interni», come declinate dagli artt. 114, secondo comma, 117, 121, secondo comma, e 123 Cost. e come ulteriormente dettagliate negli artt. 23, 25 e 30 dello statuto reg. Puglia.

L’insieme di tali disposizioni, a dire della Regione Puglia, definirebbe «la sfera riservata, intangibile da qualsiasi altro potere, dell’autonomia regionale, nello specifico profilo dell’autonomia istituzionale, organizzativa e funzionale del Consiglio». Gli atti concernenti la costituzione e la composizione delle commissioni consiliari permanenti, in particolare, espressione del «connesso strumentale potere di autorganizzazione», sarebbero dunque riconducibili all’autonomia regionale e sarebbero pertanto tutelati dalle interferenze da parte dei poteri dello Stato, «pena la menomazione delle attribuzioni costituzionali dell’ente Regione».

3.– In secondo luogo, la Regione evidenzia come le determinazioni assunte dalla VII commissione siano scaturite da un ampio confronto tra i consiglieri presenti. La proposta di procedere tramite sorteggio sarebbe stata formulata da un consigliere di opposizione e sarebbe stata recepita dal Presidente nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 26 dello statuto reg. Puglia e degli artt. 2 e 9 del regolamento interno del Consiglio regionale.

Alla luce di ciò, la sentenza oggetto del ricorso per conflitto avrebbe altresì leso «la prerogativa dell’insindacabilità attribuita consiglieri regionali dall’art. 122, comma 4, Cost.»: la decisione del TAR Puglia, infatti, avrebbe sottoposto «allo scrutinio del potere giurisdizionale opinioni espresse e voti dati dal Presidente del Consiglio e dai consiglieri regionali nell’esercizio di funzioni loro proprie».

L’art. 122, quarto comma, Cost., escluderebbe invece «qualsiasi interferenza e condizionamento esterno sulle determinazioni inerenti alla sfera di autonomia costituzionalmente riservata alla Regione», sussistendo, secondo la giurisprudenza costituzionale, «un chiaro parallelismo tra l’immunità riconosciuta ai parlamentari dall’art. 68, comma 1 e quella riconosciuta ai consiglieri regionali». Le attribuzioni di rilievo costituzionale coperte dalla garanzia di cui all’art. 122, quarto comma, Cost., pur non essendo espressione di sovranità, costituirebbero infatti esplicazione di autonomia costituzionalmente garantita, il che determinerebbe un «difetto assoluto di giurisdizione in relazione a tutti gli atti che costituiscano esercizio di tali attribuzioni» (vengono nuovamente citate le sentenze n. 392 del 1999, n. 69 del 1985 e n. 81 del 1975).

In particolare, le funzioni del Consiglio regionale cui si riferisce l’art. 122, quarto comma, Cost., sarebbero quelle individuate dall’art. 121, secondo comma, Cost., che attribuisce alle Regioni, oltre a quella legislativa, anche «altre funzioni», identificabili nell’indirizzo politico, nel controllo sull’esecutivo regionale e nell’autorganizzazione. A dire della ricorrente, la giurisprudenza costituzionale avrebbe affermato che tali funzioni sarebbero garantite dalla «immunità» di cui all’art. 122, quarto comma, Cost., «a prescindere dalla forma (legislativa o amministrativa) dell’atto in cui esse si estrinsecano», poiché tale immunità sarebbe «connessa esclusivamente all’obiettiva natura della funzione svolta».

Poiché «l’immunità funzionale dei consiglieri regionali» coprirebbe ogni atto riconducibile alla sfera di autonomia propria dell’organo di appartenenza, e poiché le attività relative alla costituzione, composizione e rinnovo delle commissioni consiliari sarebbero finalizzate a garantire l’autonomo funzionamento del Consiglio regionale, tali attività sarebbero coperte dalle «tutele di cui all’art. 122, comma 4, Cost.».

Anche con riferimento a questo secondo profilo, la Regione ricorrente evoca le disposizioni dello statuto reg. Puglia (artt. 23, 25 e 30) e del regolamento interno del Consiglio regionale (art. 9) che sarebbero espressione dell’autonomia riconosciuta dagli artt. 114, secondo comma, e 123 Cost., con specifico riferimento al ruolo delle commissioni consiliari, la cui costituzione rientrerebbe «pleno iure tra gli atti di esercizio delle prerogative dei consiglieri inerenti all’organizzazione del Consiglio».

La Regione ricorrente segnala, inoltre, come i precedenti della Corte costituzionale posti dal TAR Puglia a fondamento del potere di annullamento del verbale della commissione consiliare (sentenze n. 81 del 2012 e n. 103 del 1993) sarebbero «inconferenti ed erronei, trattandosi di decisioni riguardanti atti del potere esecutivo», e quindi non rilevanti nel caso di specie, che invece concerne le prerogative dell’assemblea legislativa e dei consiglieri regionali (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 200 del 2008, n. 195 del 2007 e n. 81 del 1975).

Da ultimo, la Regione evidenzia che gli artt. 26 e 28 dello statuto reg. Puglia, nonché l’art. 5 del regolamento interno del Consiglio regionale, attribuiscono al Presidente del Consiglio regionale, in cooperazione con l’ufficio di presidenza, il compito di tutelare le prerogative dei consiglieri regionali. Alla luce di ciò, qualsiasi doglianza relativa alle funzioni dei consiglieri avrebbe dovuto essere sottoposta proprio all’ufficio di presidenza, in quanto organo che lo statuto reg. Puglia individua come titolare di tale competenza.

4.– Con atto depositato il 3 giugno 2019 si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la Corte costituzionale dichiari l’inammissibilità del ricorso.

Nel ripercorrere i fatti, l’Avvocatura generale dello Stato precisa come il TAR Puglia avrebbe accertato «l’illegittimità dell’eliminazione, nell’ambito della procedura di rinnovo della ripartizione dei 12 posti di rappresentanti nella commissione, di un componente designato dal M5S “per violazione dello Statuto e del regolamento interno nonché per eccesso di potere sotto forma di difetto d’istruttoria e di motivazione, oltre che per sviamento e disparità di trattamento”, disponendo che la Regione provveda a “riavviare da principio la procedura” con le “modalità di applicazione del metodo proporzionale”».

L’Avvocatura eccepisce l’inammissibilità del ricorso, in quanto esso sarebbe stato «proposto avverso un atto che, pur promanando da un’autorità giurisdizionale e, quindi, da un potere statale, non è idoneo ad esprimere in maniera definitiva la volontà del potere di appartenenza». Evocando la sentenza n. 81 del 2012 della Corte costituzionale, l’Avvocatura sostiene che la Regione avrebbe avuto l’onere di esperire preventivamente «i rimedi processuali offerti dall’ordinamento, al fine di consentire al giudice superiore una verifica circa l’effettiva sindacabilità dell’atto censurato», secondo quanto risulterebbe anche dall’art. 7 cod. proc. amm. Ciò con l’obiettivo di evitare che il conflitto di attribuzione «venga inammissibilmente a configurarsi come un mezzo improprio di censura del modo di esercizio della funzione giurisdizionale».

Segnala l’Avvocatura che, al momento in cui veniva depositato l’atto di costituzione in giudizio, era già pendente di fronte al Consiglio di Stato il ricorso volto ad ottenere l’annullamento della sentenza del TAR Puglia oggetto del presente conflitto.

In secondo luogo, il ricorso sarebbe inammissibile perché volto a sollecitare un controllo su «asseriti errores in iudicando commessi dal Giudice amministrativo» non deducibili in sede di conflitto (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 81 del 2012 e n. 2 del 2007): in particolare, la doglianza regionale secondo cui il giudice amministrativo non avrebbe rispettato i limiti del proprio sindacato non riguarderebbe «un’asserita invasione della sfera di attribuzione regionale costituzionalmente garantita», bensì «un’asserita erronea interpretazione della nozione di “atto amministrativo” suscettibile di sindacato giurisdizionale». Il ricorso regionale si tradurrebbe dunque «in uno strumento atipico di impugnazione della sentenza» del TAR Puglia.

5.– Con ulteriore memoria depositata il 7 gennaio 2020, l’Avvocatura generale ha insistito per la declaratoria di inammissibilità del ricorso, dando atto che, successivamente al deposito del proprio atto di costituzione in giudizio, il Consiglio di Stato ha sospeso l’efficacia esecutiva della sentenza del TAR Puglia oggetto del conflitto (Consiglio di Stato, sezione quinta, ordinanze 5 luglio 2019, n. 3426, e 7 ottobre 2019, n. 5079).

Sottolinea l’Avvocatura generale che il giudice di secondo grado ha affermato che in presenza di «interna corporis organizzativi di un organo a competenza legislativa , il sindacato del giudice amministrativo cede di fronte al principio costituzionale di separazione dei poteri». Tesi – aggiunge l’Avvocatura generale – già affermata dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 3 marzo 2016, n. 4190) in un caso «sostanzialmente sovrapponibile a quello in esame».

Proprio l’intervenuta decisione del Consiglio di Stato confermerebbe l’inammissibilità del ricorso regionale, posto che il conflitto di attribuzione avrebbe «una funzione tipicamente “residuale”, e, quindi, ammesso solo laddove non esistano altri rimedi esperibili». Nel presente caso, invece, proprio la proposizione del ricorso al Consiglio di Stato attesterebbe che la Regione Puglia avrebbe dato vita «ad una impropria duplicazione di giudizi aventi il medesimo oggetto e sostanzialmente fondati sulle stesse ragioni di doglianza». Il difetto di residualità renderebbe pertanto il ricorso inammissibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.– La Regione Puglia ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri per sentir dichiarare che non spetta allo Stato – e per esso al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, sezione prima – emanare la sentenza 21 febbraio 2019, n. 260, con cui è stato annullato il verbale n. 63 del 22 ottobre 2018 della VII commissione consiliare permanente del Consiglio regionale della Puglia, avente ad oggetto il rinnovo della composizione della medesima commissione.

Ad avviso della ricorrente, la sentenza in questione sarebbe stata pronunciata in difetto assoluto di giurisdizione, dunque in contrasto con l’art. 103 della Costituzione, e, in particolare, avrebbe inciso – in lesione degli artt. 114, secondo comma, 117, 121, primo e secondo comma, e 123 Cost. – sui poteri di autorganizzazione del Consiglio regionale, titolare della potestà legislativa.

Sindacando il contenuto del verbale della commissione consiliare, inoltre, la sentenza del TAR Puglia avrebbe sottoposto a scrutinio opinioni espresse e voti dati dai consiglieri regionali nell’esercizio di attribuzioni previste dagli artt. 114, secondo comma, 117, 121, primo e secondo comma, e 123 Cost. In tal modo, avrebbe violato la prerogativa dell’insindacabilità garantita ai consiglieri regionali dall’art. 122, quarto comma, Cost.

Per tali ragioni, chiede la ricorrente che questa Corte, accogliendo il ricorso, annulli la citata sentenza.

2.– In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, dall’Avvocatura generale dello Stato.

2.1.– Innanzitutto, secondo il resistente, il ricorso sarebbe inammissibile perché la Regione avrebbe impugnato per conflitto un atto che – pur promanando da un’autorità giurisdizionale e, quindi, da un potere statale – non sarebbe «idoneo ad esprimere in maniera definitiva la volontà del potere di appartenenza». Evocando quanto asseritamente affermato dalla sentenza n. 81 del 2012 di questa Corte, assume l’Avvocatura generale che la Regione, prima di proporre ricorso per conflitto, avrebbe dovuto attendere il passaggio in giudicato della sentenza, dato che quest’ultima, proprio perché non definitiva, non sarebbe suscettibile di «generare una lesione definitiva delle attribuzioni costituzionali rivendicate dalla parte regionale».

L’eccezione è da respingere.

Non pertinente, in primo luogo, è il richiamo alla sentenza n. 81 del 2012. In quel caso non fu infatti l’assenza di definitività della pronuncia del giudice amministrativo oggetto di ricorso a determinare l’inammissibilità dello stesso, bensì l’aver la Regione ricorrente denunciato «semplici errores in iudicando», portando così all’esame della Corte un conflitto di attribuzioni che si risolveva «in un improprio mezzo di gravame avverso le sentenze del giudice amministrativo».

Ciò posto, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che «costituisce atto idoneo ad innescare un conflitto intersoggettivo di attribuzione qualsiasi comportamento significante, imputabile allo Stato o alla Regione, che sia dotato di efficacia e rilevanza esterna e che – anche se preparatorio o non definitivo – sia comunque diretto “ad esprimere in modo chiaro ed inequivoco la pretesa di esercitare una data competenza, il cui svolgimento possa determinare una invasione nella altrui sfera di attribuzioni o, comunque, una menomazione altrettanto attuale delle possibilità di esercizio della medesima”» (sentenza n. 332 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 382 del 2006, n. 211 del 1994 e n. 771 del 1988).

In disparte la possibilità che l’atto oggetto del conflitto possa essere altresì impugnato in sede giurisdizionale, quel che rileva è, dunque, il tono costituzionale del conflitto stesso, il quale sussiste quando il ricorrente non lamenti una lesione qualsiasi, ma una lesione delle proprie attribuzioni costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2018, n. 87 del 2015 e n. 52 del 2013).

Quando, in particolare, oggetto di ricorso siano sentenze o altri atti giurisdizionali, il conflitto intersoggettivo è costantemente ritenuto ammissibile, in presenza delle anzidette condizioni, anche laddove l’atto sia non definitivo e altresì contestualmente impugnato in sede giurisdizionale (di recente, sentenze n. 259 e n. 57 del 2019, n. 2 del 2018 e n. 260 del 2016).

L’ammissibilità del conflitto intersoggettivo da atti giurisdizionali, in altre parole, è condizionata dalla sussistenza del tono costituzionale, nonché dalla già rilevata esigenza che il ricorso non si risolva in un mezzo improprio di censura sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale.

Per queste complessive ragioni, non incidono sull’ammissibilità del presente conflitto le ordinanze del Consiglio di Stato, sezione quinta, 7 ottobre 2019, n. 5079 e 5 luglio 2019, n. 3426, con le quali il giudice di secondo grado ha accolto l’istanza cautelare presentata dalla Regione Puglia, sospendendo l’efficacia della impugnata sentenza del TAR.

Infatti, la mera sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato – che continua ad essere presente nell’ordinamento, pur se in una situazione di “quiescenza” – non fa venir meno l’interesse al ricorso, «dal momento che “la lesione delle attribuzioni costituzionali può concretarsi anche nella mera emanazione dell’atto invasivo della competenza, potendo, quindi, perdurare l’interesse dell’ente all’accertamento del riparto costituzionale delle competenze”» (sentenza n. 328 del 2010, che richiama le sentenze n. 287 del 2005, n. 222 del 2006 e n. 199 del 2004).

2.2.– Assume inoltre il resistente che il ricorso sarebbe inammissibile perché la ricorrente avrebbe promosso un conflitto volto a sollecitare un controllo su «errores in iudicando commessi dal Giudice amministrativo», non deducibili in sede di conflitto.

Anche questa seconda eccezione non è fondata.

Quel che la Regione Puglia contesta non è il modo di esercizio della funzione da parte del giudice amministrativo, ma la sussistenza stessa, in capo a quest’ultimo, del potere giurisdizionale. Asserisce infatti la ricorrente che, annullando il verbale di una commissione del Consiglio regionale, il TAR Puglia avrebbe agito in carenza assoluta di giurisdizione, e per questo avrebbe leso attribuzioni costituzionalmente garantite alla Regione stessa dagli artt. 114, secondo comma, 117, 121, primo e secondo comma, 123 Cost., nonché riconosciute ai consiglieri regionali dall’art. 122, quarto comma, Cost.

Si è dunque in presenza di un ricorso in cui è contestata «l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del ricorrente», ciò che rende il conflitto ammissibile, secondo il costante orientamento di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 2 del 2018, n. 235 e n. 107 del 2015).

3.– Nel merito, mentre il ricorso per conflitto di attribuzione non è fondato in riferimento all’art. 122, quarto comma, Cost. – per l’assorbente ragione che l’impugnata sentenza del TAR non chiama i consiglieri regionali «a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni» – lo è, invece, con riferimento agli artt. 114, secondo comma, 117 e 121, secondo comma, Cost. In base a tali disposizioni costituzionali non spetta allo Stato, e, per esso, al giudice amministrativo, annullare il verbale attestante la composizione di una commissione consiliare permanente del Consiglio regionale. Va perciò annullata la sentenza del TAR Puglia, sede di Bari, sezione prima, n. 260 del 2019.

3.1.– Ricorre nella giurisprudenza costituzionale, già in alcune pronunce risalenti (ex multis, sentenze n. 110 del 1970 e n. 66 del 1964), l’affermazione secondo cui le attribuzioni dei Consigli regionali, pur non esprimendosi a livello di sovranità, sono manifestazione «di autonomie costituzionalmente garantite» (da ultimo ordinanza n. 15 del 2019; in tal senso, ex plurimis, sentenze n. 279 del 2008, n. 365 e n. 301 del 2007). Conseguentemente, «i Consigli regionali godono in base a norme costituzionali, di talune prerogative analoghe a quelle tradizionalmente riconosciute al Parlamento», anche se, «al di fuori di queste espresse previsioni, non possono essere assimilati ad esso» (ordinanza n. 15 del 2019; sentenza n. 39 del 2014).

In particolare, come ricordato nella sentenza n. 43 del 2019, la giurisprudenza costituzionale ha pacificamente riconosciuto ai Consigli regionali, al pari che ai due rami del Parlamento, la funzione di autorganizzazione interna, qualificandola, accanto alla funzione legislativa e a quelle di indirizzo politico e di controllo, come parte del «nucleo essenziale comune e caratterizzante delle funzioni degli organi “rappresentativi”» (sentenza n. 69 del 1985; in senso analogo, sentenza n. 289 del 1997, ove si afferma che tale nucleo caratterizzante delle attribuzioni regionali, definito dall’art. 121, secondo comma, Cost., ricomprende, per quanto qui rileva, le funzioni legislative e regolamentari, «di indirizzo politico, nonché quelle di controllo e di autorganizzazione»).

Nell’ambito dell’autonomia organizzativa spettante anche alle assemblee legislative regionali è ricompresa la potestà di disciplinare i propri lavori, sia attraverso l’approvazione di regolamenti interni che predeterminano le modalità di funzionamento dei Consigli e delle loro articolazioni, sia attraverso l’interpretazione e l’applicazione dei regolamenti stessi, attività che costituiscono razionale completamento dell’autonomia in questione (analogamente, sia pur con riferimento al diverso caso dell’autodichia di ciascuna Camera, sentenza n. 262 del 2017).

Lo statuto e la normativa regionale possono assegnare al Consiglio o al suo ufficio di presidenza anche lo svolgimento di alcune funzioni amministrative e non è escluso che la stessa potestà di autorganizzazione interna dei Consigli regionali si manifesti attraverso atti di esercizio di funzioni amministrative non strettamente coessenziali alla loro potestà normativa (sentenze n. 43 del 2019, n. 337 del 2009, n. 69 del 1985 e n. 81 del 1975). In questa evenienza, tali atti si collocano all’esterno della sfera di autonomia costituzionalmente garantita e potrebbero perciò soggiacere a sindacato giurisdizionale, particolarmente se devono essere adottati sulla base di parametri legali.

Certo è però che siffatta natura, e il connesso regime di sindacato, non sono predicabili in riferimento al verbale attestante le modalità con cui è stata decisa la composizione di una commissione consiliare, attraverso l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 9 del regolamento interno del Consiglio regionale della Puglia, cioè della disposizione che allo scopo richiede, per quanto possibile, il ricorso al criterio proporzionale, riferito alla consistenza numerica di ciascun gruppo consiliare.

Nel caso che dà origine al presente conflitto, non si è di fronte a un atto amministrativo, da adottarsi nel rispetto di parametri legali “esterni”, ma all’interpretazione e all’applicazione di un criterio (appunto la composizione delle commissioni in proporzione, per quanto possibile, alla forza numerica dei gruppi consiliari) stabilito dallo stesso regolamento interno del Consiglio regionale, criterio esso stesso espressivo, in questa forma, di discrezionalità politica. Si tratta perciò di una decisione strettamente collegata alla potestà di autorganizzazione del Consiglio, «con carattere di essenzialità e diretta incidenza, tale che, in sua mancanza, l’attività del Consiglio sarebbe menomata o ne sarebbe significativamente incisa» (sentenza n. 43 del 2019).

L’annullamento del verbale attestante la composizione della commissione consiliare, nonché il ricorso, da parte della stessa sentenza impugnata, a un “potere conformativo” particolarmente penetrante – che sviluppa calcoli e indica addirittura soluzioni numeriche precise, in vista di una particolare applicazione del criterio proporzionale – incidono sulla composizione della commissione consiliare in questione, e persino sullo stesso equilibrio, in quella commissione, tra forze politiche di maggioranza e di opposizione, visto che all’esito della soluzione predisposta in sentenza la commissione finirebbe per essere composta paritariamente, almeno secondo quanto asserito dalla Regione ricorrente, da consiglieri di maggioranza e di opposizione. Il nucleo essenziale della potestà di autorganizzazione consiliare costituzionalmente garantita, tuttavia, risiede proprio nella facoltà di decidere, sia in ordine alle modalità del riparto proporzionale dei consiglieri nelle commissioni, sia in relazione al necessario rispetto, in esse, del corretto rapporto numerico tra maggioranza e opposizione.

D’altra parte, la garanzia della potestà di autorganizzazione è, al tempo stesso, protezione della funzione legislativa regionale, cui ogni commissione consiliare permanente, come noto, fornisce un contributo determinante. Mette conto ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, i Consigli regionali devono esercitare la potestà legislativa «in piena autonomia politica, senza che organi a essi estranei possano né vincolarla né incidere sull’efficacia degli atti che ne sono espressione» (sentenza n. 39 del 2014).

Lo stesso Consiglio di Stato, adìto in sede cautelare, ha del resto deciso la sospensione dell’impugnata sentenza del TAR Puglia, evidenziando che di fronte a «interna corporis organizzativi di un organo a competenza legislativa il sindacato del giudice amministrativo cede di fronte al principio costituzionale di separazione dei poteri» (Consiglio di Stato, sezione quinta, ordinanza 5 luglio 2019, n. 3426).

3.2.– Da un lato, quindi, la scelta in ordine alla composizione di una commissione consiliare è diretta espressione della potestà di autorganizzazione spettante al Consiglio regionale, dall’altro tale potestà finisce per essere assorbita tra le garanzie che assistono lo svolgimento della funzione legislativa regionale, cui le commissioni consiliari permanenti contribuiscono in modo determinante: di talché ogni sindacato esterno sulle decisioni relative alla composizione di tali commissioni è svolto in difetto assoluto di giurisdizione, determinando una lesione delle attribuzioni costituzionali previste dagli artt. 114, secondo comma, 117 e 121, secondo comma, Cost.

La soluzione qui affermata coincide con quella assunta dalla Corte di cassazione (sezioni unite civili, ordinanza 3 marzo 2016, n. 4190), che, in un caso analogo, ha stabilito che le decisioni relative alla composizione delle commissioni permanenti dei Consigli regionali sono atti che «sia direttamente che indirettamente concorrono a consentire l’esercizio, da parte della stessa Assemblea, della funzione legislativa», e che eventuali censure sulle determinazioni del Presidente dell’Assemblea in ordine a tali aspetti «non sono quindi certamente proponibili in sede di impugnazione di quegli atti dinnanzi al giudice amministrativo».

Va aggiunto che, nel caso di specie, non manca una procedura cui i consiglieri regionali possono ricorrere per prospettare l’asserita lesione delle loro prerogative. L’art. 5 del regolamento interno del Consiglio regionale stabilisce, infatti, che l’ufficio di presidenza del Consiglio regionale (nel quale sono necessariamente presenti anche componenti provenienti da gruppi di opposizione) ha il compito di assicurare «l’esercizio dei diritti dei Consiglieri, tutelandone le prerogative».

Ai sensi degli artt. 114, secondo comma, 117, 121, secondo comma, Cost., non spettava pertanto allo Stato, e per esso al TAR Puglia, sede di Bari, sezione prima, emanare la sentenza 21 febbraio 2019, n. 260, che va di conseguenza annullata.

 

PQM

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava allo Stato, e, per esso, al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, sezione prima, annullare il verbale n. 63 del 22 ottobre 2018 della VII commissione consiliare permanente del Consiglio regionale della Puglia attestante la composizione della medesima commissione, e annulla, per l’effetto, la sentenza del TAR Puglia 21 febbraio 2019, n. 260.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 gennaio 2020.