SUCCESSIONE DI NORME PENALI NEL TEMPO E MODIFICA DELLA DISCIPLINA DELLA CUSTODIA CAUTELARE

Il nuovo art. 280, co. 2 c.p.p., come modificato dal d.l. n. 78/2013, che ha innalzato da quattro a cinque anni di reclusione il limite di pena per l’applicabilità della custodia cautelare, deve essere applicato ai procedimenti in corso, comportando così il venir meno delle condizioni per l’applicabilità delle misure disposte in relazione a reati, come la violenza privata, puniti con la reclusione pari o superiore al previgente limite di quattro anni, ma inferiore al nuovo limite di cinque.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è parzialmente fondato e va conseguentemente accolto nei limiti e per gli effetti di seguito esposti e precisati.

4. Le censure dal ricorrente prospettate nel primo motivo di doglianza devono ritenersi fondate e vanno pertanto accolte, dovendosi rilevare, con riferimento al reato di cui al capo sub C), come le sequenze motivazionali che compongono l’impugnato provvedimento cautelare mostrino un andamento incerto e contraddittorio, frutto di un insufficiente approfondimento in merito alla valutazione dell’effettiva consistenza del panorama indiziario, laddove trascurano di considerare, sulla base di un congruo supporto critico-argomentativo, i puntuali rilievi difensivi espressi in merito alla configurazione del titolo della responsabilità: pur descrivendosi un intervento incongruo dello S. nella vicenda storico-fattuale oggetto del tema d’accusa, quanto meno con riferimento ad una somma di denaro che si ipotizza corrisposta quale percentuale pattuita per il recupero forzoso di un credito vantato dal F. nei confronti del M., non risultano in alcun modo chiarite con precisione e nettezza di contorni, al di là di congetturali ed ipotetici riferimenti all’attività lavorativa ovvero alla personalità dell’indagato, la sussistenza degli elementi costitutivi della violenza o della minaccia che dovrebbero necessariamente connotare la realizzazione dell’illecita condotta di intermediazione dal medesimo posta in essere, nè, tanto meno, le circostanze relative alla natura del credito vantato ed alle correlative, sottostanti, pattuizioni che al riguardo sarebbero intercorse tra le diverse parti intervenute nella vicenda in esame.

V’è da osservare, al riguardo, che la giurisprudenza ha più volte tracciato una linea di netta demarcazione, secondo cui si configura il reato di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, allorchè un terzo, incaricato dal creditore ma estraneo al rapporto contrattuale, agisca con violenza o minaccia nei confronti del debitore al fine di ottenere l’ingiusto profitto, consistente nel recupero di un credito in misura maggiore rispetto a quanto dovuto al suo mandante (Sez. 6, n. 25176 del 02/04/2012, dep. 25/06/2012, Rv. 253020).

Per integrare, tuttavia, il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta minacciosa deve essere in grado di esprimere una tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio, preteso diritto, sicchè la coartazione dell’altrui volontà deve ritenersi assuma “ex se” i caratteri dell’ingiustizia (Sez. 5, n. 19230 del 06/03/2013, dep. 03/05/2013, Rv. 256249).

5. Infondato, di contro, deve ritenersi il secondo profilo di doglianza dal ricorrente prospettato, risultando la gravità della correlativa base indiziaria evocata a sostegno della misura, e scrutinata in termini di adeguatezza dal Giudice del riesame cautelare, congruamente sostenuta dall’apparato motivazionale su cui si radica l’impugnato provvedimento, che ha correttamente proceduto, riguardo alle fattispecie di reato oggetto della imputazione cautelare provvisoriamente enucleata nel capo sub d), ad una valutazione complessiva degli elementi indiziari emersi a carico del ricorrente, dando conto, in maniera logica ed adeguata, delle ragioni che giustificano l’epilogo del relativo percorso decisorio.

Entro tale prospettiva, l’impugnata ordinanza ha fatto buon governo del quadro dei principi che regolano la materia, ponendo in evidenza, sulla base delle convergenti risultanze indiziarie offerte dal chiaro contenuto dell’intercettazione ambientale di un colloquio intercorso fra lo S. e tale V.M., dall’esito di un’informativa dei Carabinieri di Angri, dalle dichiarazioni delle persone offese e dal contenuto delle dichiarazioni rese dal coindagato Ma. in sede di interrogatorio di garanzia, le coordinate spazio-temporali e le ragioni giustificative del coinvolgimento dell’indagato nell’aggressione subita il (OMISSIS) da G.S. e dal suocero, P.G., all’interno di un’area di parcheggio per camion ubicata nel territorio di quel Comune.

A fronte di un congruo ed esaustivo apprezzamento delle emergenze procedimentali, esposto attraverso un insieme di sequenze motivazionali chiare e prive di vizi logici, il ricorrente non ha individuato passaggi o punti della decisione tali da inficiare la complessiva tenuta del discorso argomentativo delineato dal Tribunale, nè ha soddisfatto l’esigenza di una critica puntuale e ragionata che deve informare l’atto di impugnazione, ma ha sostanzialmente contrapposto una lettura alternativa delle risultanze processuali, facendo leva sull’apprezzamento di profili di merito già puntualmente vagliati in sede di riesame cautelare, e la cui rivisitazione, evidentemente, non è sottoponibile al giudizio di questa Suprema Corte.

6. Fondata invece deve ritenersi, sia pure per ragioni diverse da quelle indicate nel ricorso, la terza censura ivi prospettata, che contesta le condizioni di applicabilità della misura custodiale con riferimento ad ipotesi di reato (lesioni volontarie e minaccia aggravata) diverse da quelle oggetto dell’apprezzamento espresso, sia pure in forma piuttosto sintetica, nella motivazione dell’impugnata ordinanza cautelare, la cui trama argomentativa, riguardo alla vicenda storico-fattuale delineata nel capo d’imputazione sub f), insiste sulla configurabilità di ben altra fattispecie incriminatrice (ossia, il reato di violenza privata), senza che il ricorrente prenda in esame ed affronti criticamente la congruità o meno di tale specifico passaggio motivazionale. Sul punto occorre peraltro considerare – trattandosi di una questione di solo diritto che in questa Sede può essere affrontata ex art. 609 c.p.p., comma 2, in ragione delle implicazioni legate al c.d. ius superveniens rappresentato dalle rilevanti innovazioni normative apportate dalla L. 9 agosto 2013, n. 94, che ha convertito, con modificazioni, il D.L. 1 luglio 2013, n. 78, contenente “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena” (v. Sez. 4, n. 4853 del 03/12/2003, dep. 06/02/2004, Rv. 229374) – che, a seguito della interpolazione del testo dell’art. 280, comma 2, c.p.p., il limite di pena per l’applicabilità della custodia cautelare in carcere è stato innalzato da quattro a cinque anni di reclusione, fatta salva la deroga, non rilevante nel caso di specie, per il delitto di finanziamento illecito dei partiti politici di cui alla L. n. 195 del 1974, art. 7.

Ne discende che, a seguito della predetta modifica normativa, la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, con la conseguente inapplicabilità di siffatta tipologia di misura coercitiva all’ipotizzata condotta delittuosa della violenza privata, sanzionata con la pena della reclusione sino al limite edittale massimo di quattro anni.

Pur in assenza di una specifica disposizione transitoria, deve ritenersi che la modifica normativa in esame sia senz’altro applicabile ai procedimenti cautelari in corso al momento dell’entrata in vigore della su citata L. n. 94 del 2013, venendo in rilievo, nel caso in esame, la trasformazione di un profilo essenziale di legittimità della misura della custodia cautelare in carcere, ossia quello dotato di valenza propriamente “costitutiva”, inerente alle sue condizioni generali di applicabilità, la cui presenza non può, per qualsiasi ragione, venir meno in corso di esecuzione, se non al prezzo di un’inammissibile violazione del quadro costituzionale dei presupposti e delle condizioni di legalità delle limitazioni che possono essere tassativamente imposte alle libertà della persona (ex art. 13 Cost., comma 2, e art. 272 c.p.p.).

Non vengono in rilievo, nel caso in esame, le implicazioni legate all’affermazione del principio di diritto stabilito da Sez. Un., n. 27919 del 31/03/2011, dep. 14/07/2011, Rv. 250195, secondo cui, in assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione, disposta prima della novella legislativa che ha modificato l’impianto codicistico (nel caso di specie, l’art. 275 c.p.p., con l’ampliamento del catalogo dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza della sola custodia carceraria), non può subire modifiche solo per effetto della nuova, più sfavorevole normativa, poichè l’evenienza or ora considerata aveva ad oggetto un’ipotesi di variazione del tutto diversa del tessuto normativo, siccome destinata ad incidere in malam partem sull’ambito di applicabilità delle restrizioni alla sfera della libertà personale, laddove, nell’ipotesi in questione, le modifiche processuali incidono sulle stesse condizioni generali di legalità delle possibili limitazioni dello status libertatis, determinando un’oggettiva situazione di favore nella valutazione della regolarità del vincolo imposto alla libertà personale dell’indagato. Anche sotto altro, ma connesso profilo, del resto, pare impossibile anche solo prospettare una situazione di continuità temporale nell’applicazione della misura imposta, atteso che il vizio “ontologico” che in tal guisa si manifesta per via normativa e viene a colpire lo stesso fondamento costitutivo di una misura cautelare che non può più ritenersi legittimamente irrogata, sia pure per ragioni strettamente legate agli effetti del c.d. ius superveniens, non ne consentirebbe un prolungamento di efficacia neanche quale presupposto per la sostituzione con altra misura coercitiva prevista dalla legge (arg. ex Sez. 6, n. 4849 del 21/12/2000, dep. 31/01/2001, Rv. 217863).

7. Non meritevole di accoglimento deve infine ritenersi il quarto motivo di ricorso, avuto riguardo alla congrua ed esaustiva esposizione, nell’iter motivazionale dell’impugnato provvedimento, delle ragioni giustificative della sussistenza delle esigenze cautelari, che il Tribunale del riesame ha desunto dall’evidenziato rischio di reiterazione delle gravi condotte oggetto di addebito cautelare, oltre che dalla condizione di recidivo e dalla rappresentata assenza di significativi segnali di resipiscenza.

Nè, peraltro, può, in questa Sede, essere propriamente considerato come indice di vizio di motivazione il diverso trattamento cautelare riservato nel medesimo procedimento ad altro coindagato, salvo che il giudizio di merito sul diverso apprezzamento del caso che si prospetta come identico sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali, ciò che non può dirsi sotto alcun profilo avvenuto nel caso in esame.

8. Ne discende conclusivamente, che l’impugnato provvedimento deve essere annullato, riguardo alla contestazione formulata nel capo sub C), con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Salerno, il quale, nella piena libertà delle valutazioni di merito di sua competenza, dovrà porre rimedio alle rilevate carenze motivazionali, uniformandosi ai principi di diritto in questa Sede elaborati; il medesimo provvedimento, inoltre, deve essere, per quanto esposto ed indicato, annullato senza rinvio, per quel che attiene alla diversa contestazione formulata nel capo sub F) e rigettato in merito ai residui profili di doglianza.

La Cancelleria curerà l’espletamento degli adempimenti menzionati nell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.