LE DIFFERENZE TRA BANCAROTTA FRAUDOLENTA E PECULATO, CHE POSSONO CONCORRERE

Il peculato si differenzia rispetto alla bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione quanto: a) al soggetto attivo; b) all’interesse tutelato, nel senso che la bancarotta non assorbe ed esaurisce affatto l’offensività del peculato; c) per le modalità di aggressione al bene giuridico tutelato, nel senso che nel peculato, a differenza della bancarotta, non ogni condotta “appropriativa” assume rilievo; d) per la mancanza di una condizione di punibilità che, nel reato fallimentare, rende solo eventuale che la condotta appropriativa sfoci in bancarotta; e) al tempo in cui il reato si consuma, essendo il peculato un reato istantaneo rispetto al quale non rileva, a differenza della bancarotta, la “riparazione”. Ne consegue che i due reati, che si differenziano per struttura ed offensività, possono concorrere.

 

 

 

 

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza con cui B.M. é stato condannato per i reati di peculato, bancarotta fraudolenta per distrazione, autoriciclaggio – bancarotta impropria, in relazione all’art. 2621 c.c..

A B. é contestato:

– nella qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto amministratore unico della società GSI Vigasio s.r.l. dal 21.12.2009 al 2.7.2016, (società pubblica interamente partecipata dal Comune di (OMISSIS)), avendo, per ragioni del suo incarico, la disponibilità di somme della società provenienti dai ricavi gestionali della stessa, di essersi appropriato di 1.029.737 Euro, mediante l’emissione a sé stesso di numerosi assegni bancari ed il mancato versamento delle somme di denaro contante derivanti dagli incassi da una determinata farmacia comunale (peculato di cui al capo a);

– di avere con la condotta appena indicata distratto somme della società, causando in tal modo un grave dissesto economico, sfociato nella sentenza dichiarativa di fallimento (così testualmente l’imputazione sub b) (L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1);

– di aver reimpiegato parte rilevante del denaro sottratto indebitamente, destinandolo al rimborso o all’estinzione di rate e di strumenti finanziari elencati nella imputazione (art. 648 ter.1 c.p. – capo c);

– di avere, attraverso false comunicazioni sociali e, in particolare, attraverso falsi bilanci societari dal 2010 al 2016 predisposti al fine di conseguire l’ingiusto profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività distrattiva, cagionato il dissesto della società (art. 223 L. Fall. in relazione all’art. 2621 c.c.- capo d).

2.Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo si lamenta violazione di legge in ordine alle imputazioni contestate ai capi a) e b).

Sul presupposto che la dichiarazione di fallimento costituisca una condizione obiettiva di punibilità, si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata – in ragione dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016 – nella parte in cui ha ritenuto non violato il bis in idem fra i reati di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione.

L’assunto difensivo é che il fatto storico, individuato nei suoi elementi materiali di condotta – nesso causale ed evento e depurato da elementi valoristici relativi agli interessi protetti dalle norme, sarebbe lo stesso nel peculato e nella bancarotta fraudolenta per distrazione (al tal fine si cita la sentenza di questa Corte n. 25651 del 2018 in tema di rapporti fra bancarotta e appropriazione indebita).

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di penale responsabilità per il capo C).

Secondo l’impostazione accusatoria, recepita dai Giudici di merito, l’imputato, dopo aver commesso il reato di peculato e distratto le somme, avrebbe dolosamente “creato” debito e in tal modo reimpiegato il denaro sottratto indebitamente, ostacolando in tal modo l’accertamento della natura delittuosa del denaro.

Secondo il ricorrente, la Corte di appello non avrebbe tenuto conto che parte delle somme indicate nella imputazione sarebbero state destinate al pagamento del corrispettivo delle opere di ristrutturazione dell’abitazione principale dell’imputato e, quindi, per un bene ad uso esclusivamente personale, escluso dall’ambito della punibilità della norma.

Si aggiunge che per le restanti condotte contestate, si dovrebbe distinguere tra le attività finalizzate all’accesso ad alcuni finanziamenti e quelle relative al pagamento dei ratei scaduti riguardanti i finanziamenti ricevuti.

L’assunto difensivo é che l’attività di pagamento delle rate di finanziamento non costituirebbe attività finanziaria, come invece richiesto dall’art. 648 ter.1 c.p., così come non costituirebbe attività finanziaria il deposito delle somme sul conto corrente personale dell’imputato in funzione del pagamento delle rate di finanziamento.

Le condotte in questione, si argomenta, non sarebbero state idonee ad ostacolare concretamente l’identificazione del denaro e non avrebbero – come invece richiesto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione- nemmeno una capacità dissimulatoria e di occultamento; sul punto la motivazione sarebbe omessa.

L’imputato avrebbe versato le somme di cui si era appropriato sui propri conti correnti bancari così rendendo facilmente tracciabile il denaro.

2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; si sarebbe dovuto considerare il comportamento dell’imputato, che avrebbe in realtà tentato di spiegare le motivazioni del proprio gesto e rinunciato sin dall’immediatezza della contestazione dei fatti a tutte la cariche ricoperte.

2.4. Con il quarto motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla conferma delle pene accessorie, tenuto conto della sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale con riferimento all’art. 216 L. Fall.; le pene accessorie inflitte all’imputato nella misura massima sarebbero illegali, in assenza di una motivazione giustificativa adeguata.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso é fondato quanto al secondo ed al terzo motivo.

2. E’ infondato il primo motivo di ricorso.

2.1. L’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU – prevede che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale é già stato assolto o condannato”; secondo l’art. 649 c.p.p., “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto”.

Quanto alla portata delle due norme, alla portata del divieto di bis in idem ed al rapporto tra detto principio ed il concorso formale di reati, é necessario ripercorrere il senso del ragionamento compiuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 200 del 2016.

Si tratta di una sentenza intervenuta sul tema del se il principio del ne bis in idem in materia penale, enunciato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, abbia un campo applicativo diverso e più favorevole all’imputato del corrispondente principio recepito dall’art. 649 c.p.p..

La Corte costituzionale ha spiegato che:

– il fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento: fatto, in questa prospettiva, é l’accadimento materiale, depurato dal giogo dell’inquadramento giuridico;

– il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, non si restringe all’azione o all’omissione, ma comprende anche “l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne é conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente”;

– l’identità del “fatto” sussiste – così come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donelli) – quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona” (sentenza n. 129 del 2008);

– la Convenzione impone agli Stati membri di applicare il divieto di bis in idem in base ad una concezione naturalistica del fatto, ma non di restringere quest’ultimo nella sfera della sola azione od omissione dell’agente; dunque “la disposizione nazionale avrebbe violato l’art. 117, comma 1, Cost., solo se dovesse essere interpretata nel senso di assegnare rilievo all’idem legale, ovvero a profili attinenti alla qualificazione giuridica del fatto”;

– Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico.

2.2. Sulla base di tali presupposti la Corte costituzionale ha quindi verificato e chiarito il tema del rapporto tra divieto di bis in idem e concorso formale di reati.

Si é affermato che:

– il rinnovato esercizio dell’azione penale é consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando il fatto, nel senso indicato, é il medesimo sul piano empirico, ma forma oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da generare una pluralità di illeciti;

– é possibile che un’unica azione o omissione infranga, in base alla valutazione normativa dell’ordinamento, diverse disposizioni penali, alle quali corrisponde un autonomo disvalore che il legislatore, nei limiti della discrezionalità di cui dispone, reputa opportuno riflettere nella molteplicità dei corrispondenti reati e sanzionare attraverso le relative pene;

– escluso da parte del giudice che tra le norme sia configurabile un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 c.p.),

ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro, non può essere contestato che si debbano attribuire all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva, per quanto il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico, essendo il concorso formale di reati un istituto di diritto sostanziale;

– ciò non viola la garanzia individuale del divieto di bis in idem, che si sviluppa invece in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma solo una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto storico sia – nel senso indicato in precedenza – lo stesso già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo;

– l’esistenza o meno di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e quelli della res iudicanda é un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 c.p.p., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, “e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché é permesso, ma non é prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale”;

– l’autorità giudiziaria é tenuta a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione (così testualmente la Corte costituzionale).

1.3. Sulla base della sentenza indicata emerge dunque che:

a) il tema del bis in idem di cui all’ 649 c.p.p. attiene alla preclusione processuale di un nuovo esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto storico – inteso nel senso indicato – per il quale si é già proceduto in un diverso procedimento;

b) la violazione del principio del bis in idem sussiste anche nel caso in cui vi sia un concorso formale tra il reato oggetto della res iudicata e quello del diverso procedimento, a condizione che il fatto storico sia lo stesso;

c) é dunque precluso il nuovo esercizio dell’azione penale nel caso in cui, pur essendo il reato già giudicato in concorso formale con quello da giudicare, il fatto naturalistico sia il medesimo;

d) tale tema non attiene ai casi in cui, nell’ambito di un simultaneus processus, vengano contestati reati in concorso formale tra loro, atteso che, in detti casi, la questione é esterna e prescinde dalla preclusione processuale derivante dalla consumazione del potere di azione a seguito della già esercitata azione penale per lo stesso fatto, ma riguarda solo la verifica della esistenza di una unità o pluralità di reati, da accertare secondo i criteri relativi al rapporto strutturale tra norme.

Questo il senso e l’oggetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e iniziato il nuovo procedimento penale.

In tal senso, si osserva lucidamente in dottrina, che “assunto a criterio base l’idem factum, e non l’idem legale, le modalità di tipizzazione perdono rilievo in ordine all’identificazione dell’idem processualmente rilevante. Sganciata dalle tipizzazioni del diritto penale sostanziale, e non riducibile a problema epistemologico, l’identità del fatto va rilevata sul piano processuale, alla luce del significato di garanzia nel ne bis….., non può ritornare come oggetto di un nuovo giudizio il frammento di storia che é stato oggetto d’indagine nel primo giudizio. Non rilevano le diversità di inquadramento normativo; rilevano invece (escludono si tratti di bis in idem) diversità fattuali dell’oggetto d’indagine”.

1.4. Ricostruito il quadro sistematico di riferimento, ne consegue che i riferimenti del ricorrente alla violazione del bis in idem sono impropri.

Nella fattispecie, non si tratta infatti di un nuovo esercizio dell’azione penale in ordine allo stesso fatto storico già giudicato e, dunque, alla operatività della generale preclusione processuale di cui é espressione l’art. 649 c.p.p., ma di un processo oggettivamente cumulativo in cui all’imputato sono stati contestati più reati che, secondo una possibile ricostruzione, sarebbero tra loro in concorso formale.

Il richiamo alla preclusione processuale é inconferente perché il Pubblico Ministero non ha differito nel tempo l’esercizio dell’azione penale in ordine allo stesso fatto nell’ambito di diversi e separati procedimenti, ma ha esercitato il potere di azione in un unico procedimento, contestando più reati in concorso formale tra loro.

Sulla base di tale ricostruzione é irrilevante il riferimento, molto valorizzato in chiave difensiva, a Sez. 5, n. 25651 del 15/02/2018, Pessotto, Rv. 273468, in cui la Corte di cassazione, proprio richiamando la sentenza n. 200 del 2016 della Corte costituzionale, ha chiarito che il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisce, in ragione del divieto di bis in idem, di giudicare l’imputato per il delitto di bancarotta per distrazione in relazione agli stessi beni, in quanto la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato dal primo, costituisce mera condizione obiettiva di punibilità e non é quindi elemento idoneo a differenziare il fatto illecito, naturalisticamente inteso.

Nella specie, la Corte é intervenuta in una fattispecie in cui l’imputato era già stato giudicato ed assolto per il reato di appropriazione indebita ed era successivamente stato sottoposto ad un nuovo processo per il reato di bancarotta fraudolenta fallimentare per distrazione; un caso, dunque, di duplicazione nel tempo dell’esercizio dell’azione penale e di consumazione del potere di azione in presenza di un idem factum.

Nel caso di specie, lo si ripete, si é al di fuori della ipotesi esaminata dalla Corte di Cassazione, essendo stato il potere di azione esercitato una sola volta, nello stesso unico procedimento, attraverso la contestazione di distinti reati.

Dunque, nessuna violazione del bis in idem.

1.5. Depurato dal tema sin qui affrontato, quello che deve essere verificato é allora se nella specie sia configurabile il concorso formale tra il reato di peculato e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, se cioé tra le norme in questione vi sia un rapporto di specialità (artt. 15 e 84 c.p.), ovvero se esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro.

Quanto alla bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare ed alla valenza della dichiarazione di fallimento, la giurisprudenza della Corte é nel senso che il reato vede la condotta perfezionarsi quando l’agente procuri il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, mentre la dichiarazione di fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità non collegata eziologicamente con la condotta dell’agente ed estranea al coefficiente soggettivo che anima quest’ultimo; l’agente deve solo prefigurarsi la probabile idoneità della sua condotta ad incidere negativamente sulla consistenza della garanzia patrimoniale a disposizione dei creditori, senza prevedere né volere il dissesto e men che meno il fallimento (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804; Sez. 5, n. 21920 del 15/03/2018, Sebastianutti e altro, Rv. 273189, in motivazione; Sez. 5, n. 53184 del 12/10/2017, Fontana, Rv. 271590; Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269389; Sez. 5, n. 4400 del 06/10/2017, dep. 2018, Cragnotti e altri, Rv. 272256; Sez. 5, Sez. 5, n. 992 del 17/05/2016, dep. 2018, Bonofiglio, Rv. 271920).

Distrarre un bene nel contesto della legge fallimentare significa sottrarlo alla funzione di garanzia; una sottrazione che si verifica nella fuoriuscita definitiva (o estromissione) del bene dal patrimonio della impresa.

Si é precisato che qualora, prima della soglia temporale di rilevanza penale costituita dalla dichiarazione di fallimento, la depressione della garanzia patrimoniale sia stata ripianata a mezzo di un’attività integralmente ripristinatoria, la valenza penale della condotta non si concretizza, come può evincersi dalle pronunzie che si sono occupate del tema della cd. bancarotta riparata (Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017, Liparoti, Rv. 271922; Sez. 5, n. 4790 del 20/10/2015, dep. 2016, Budola, Rv. 266025; Sez. 5, n. 50289 del 07/07/2015, Mollica, Rv. 265903; Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347).

Dunque un reato di pura condotta, di pericolo, che si consuma se ed in quanto si verifichi la condizione di obiettiva di punibilità, con una condotta che può essere riparata e che sotto il profilo del dolo deve presentare “indici di fraudolenza”; un reato che tutela l’interesse dei creditori sociali a soddisfarsi sui beni del fallito in virtù del fatto che “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni”.

Quanto al peculato, al di là della questione relativa al se detto reato sia di pura condotta ovvero di evento, é fondato affermare che esso si distacca e specifica nettamente dalla figura di appropriazione indebita e dal reato di bancarotta fraudolenta per distrazione non tanto per il soggetto espropriato del bene e per la natura di quest’ultimo, atteso il riferimento normativo alla “altruità” del bene oggetto materiale del peculato, quanto, piuttosto, a) per la particolare qualifica del soggetto attivo; b) per il bene giuridico tutelato; c) per le modalità di aggressione al bene giuridico.

Se nell’appropriazione indebita il bene giuridico é di sicura natura economico-patrimoniale e se per la bancarotta rileva l’interesse dei creditori sociali a soddisfarsi sui beni del fallito, nel peculato la collocazione e la severità della sanzione impongono chiaramente il riferimento alla tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost., inteso non solo come il bene giuridico di categoria dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, ma come lo specifico bene giuridico tutelato da ciascuno dei delitti in questione, i quali si caratterizzano per ledere il buon funzionamento della Pubblica amministrazione a causa dalla infedeltà del pubblico ufficiale e dell’abuso della posizione pubblica (funzioni, qualità, poteri).

Si tratta di reati, si fa notare in dottrina in modo condivisibile, che sono espressione di un uso privatistico della pubblica funzione o dei poteri ad essa connessi; questi ultimi sono cioé utilizzati alla stregua di dotazioni private del pubblico agente, che se ne serve a proprio piacimento e per finalità estranee a quelle per il cui perseguimento l’attribuzione di detti poteri é istituzionalmente funzionale.

Nel peculato assumo rilievo gli abusi correlati alla disponibilità di denaro o cose mobili per ragione dell’ufficio.

La giurisprudenza é costante nel ritenere che il peculato non tutela solo il patrimonio della Pubblica Amministrazione o di terzi, ma la legalità, l’efficienza, l’imparzialità della pubblica amministrazione, la fedeltà del pubblico ufficiale (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190).

Ciò che assume rilevo nella fattispecie, la connota e la caratterizza in termini pubblicistici é il presupposto della condotta, costituito dalla disponibilità in capo all’agente per ragioni d’ufficio della cosa oggetto di appropriazione; si tratta di una peculiare modalità di aggressione del bene, costituita dallo sfruttamento del rapporto tra agente pubblico e cosa.

Un reato proprio, istantaneo, in cui la condotta si consuma nel tempo e nel luogo in cui si verifica l’appropriazione del denaro o della cosa mobile, in cui l’appropriazione implica una dipendenza funzionale del possesso dall’esercizio della pubblica funzione o dalla prestazione del pubblico servizio.

In tal senso, si é spiegato in maniera condivisibile, come il peculato, che richiede nel soggetto attivo il possesso del denaro o della cosa mobile per ragioni d’ufficio o di servizio, si differenzi nella sua stessa materialità dal delitto di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 c.p., n. 9, la cui integrazione presuppone che il possesso sia stato devoluto all’agente “intuitu personae”, mentre l’abuso dei poteri o l’inosservanza dei doveri servono al medesimo non già per procurarsi quel possesso, ma ad agevolarlo nella realizzazione della condotta tipica (Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007, Incarbona, Rv.237693; Sez. 6, n. 377 del 08/11/1988, dep. 1989, Mandozzi, Rv. 180167).

Dunque, il peculato si differenzia rispetto alla bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione quanto: a) al soggetto attivo; b) all’interesse tutelato, nel senso che la bancarotta non assorbe ed esaurisce affatto l’offensività del peculato; c) per le modalità di aggressione al bene giuridico tutelato, nel senso che nel peculato, a differenza della bancarotta, non ogni condotta “appropriativa” assume rilievo; d) per la mancanza di una condizione di punibilità che, nel reato fallimentare, rende solo eventuale che la condotta appropriativa sfoci in bancarotta; e) al tempo in cui il reato si consuma, essendo il peculato un reato istantaneo rispetto al quale non rileva, a differenza della bancarotta, la “riparazione”.

Ne consegue che i due reati, che si differenziano per struttura ed offensività, possono concorrere.

3. E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso.

3.1. Si é già detto di come, secondo la impostazione accusatoria, recepita dalla Corte, l’imputato, dopo aver commesso il peculato, avrebbe “creato debito” per ripulire e reimpiegare il denaro.

Dalla sentenze di merito emerge che:

– dopo essersi appropriato delle somme, l’imputato stipulò alcuni contratti di finanziamento ed un mutuo con il cui importo versò una parte del prezzo di acquisto dell’abitazione di residenza; la restituzione della somma ricevuta con il contratto di mutuo fu compiuta attraverso rate dell’importo di circa 800 Euro mensili, la cui disponibilità sul conto corrente bancario fu assicurata mediante costanti versamenti in contanti;

– la residua parte del prezzo per l’acquisto dell’abitazione fu corrisposto attraverso due assegni tratti da un conto corrente bancario personale, lo stesso sul quale erano state versate le somme distratte alla società;

– anche per la restituzione dei finanziamenti accesi, l’imputato fece ricorso a versamenti di denaro (lo stesso, si assume, oggetto del peculato e della bancarotta) su conti correnti a sé stesso intestati.

Sulla base di tale quadro di riferimento si é ritenuto che l’imputato abbia reimpiegato il denaro in attività finanziarie, in tal modo commettendo autoriciclaggio.

3.2. Si tratta di un ragionamento che non può essere condiviso

La Corte di cassazione ha chiarito in modo condivisibile, quanto al tema della identificazione della concreta capacità dissimulatoria della condotta punibile a titolo di auto riciclaggio, che le valutazioni del caso debbono essere orientate da un criterio di idoneità ex ante.

Il Giudice deve collocarsi al momento del compimento della condotta e verificare, sulla base degli elementi di fatto di cui dispone, se in quel momento l’attività posta in essere avesse un idoneità dissimulatoria, ciò indipendentemente dagli accertamenti successivi e dal disvelamento della condotta illecita, atteso che il disvelamento non é rivelatore della non idoneità della azione per difetto di concreta capacità decettiva.

Ciò che caratterizza la fattispecie in esame é la reimmissione nel circuito dell’economia legale di beni di provenienza delittuosa, con un’attività che ne ostacoli la tracciabilità; occorre cioé che la condotta abbia una concreta idoneità dissimulatoria.

Si é spiegato come le condotte punibili siano quelle che, pur non necessariamente riconducibili agli artifici e raggiri, esprimano tuttavia un contenuto decettivo, capace cioé di rendere obiettivamente difficoltosa la identificazione della provenienza delittuosa del bene.

Il trasferimento o la sostituzione penalmente rilevante al cospetto dell’autoriciclaggio sono quindi comportamenti che importano un mutamento della formale titolarità del bene o delle disponibilità o che diano altresì luogo a una utilizzazione non più personale, ma riconducibile a una forma di reimnnissione del bene nel circuito economico (così, Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407; Sez. 5, n. 885 del 01/02/2019, Petricca, Rv. 275495; Sez. 5, n. 38919 del 05/07/2019, De Marco, Rv. 276853).

La Corte di appello non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati atteso che, nella specie, se é vero che l’imputato non aveva necessità di chiedere ed ottenere quei finanziamenti, é altrettanto vero che la condotta posta in essere é priva di idoneità decettiva, dissimulatoria, ovvero di capacità di rendere difficoltosa la identificazione della provenienza delittuosa del bene, tenuto conto che il denaro veniva prelevato dallo stesso conto su cui erano state versate le somme oggetto di peculato e riversate su conti personali dello stesso imputato, per poi essere corrisposte al creditore del debito “creato”.

Nessuna intestazione formale a terzi, nessun meccanismo decettivo; una operazione che non dissimulava alcunché .

Ne consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio quanto al capo c) perché il fatto non sussiste e con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia in relazione alla rideterminazione della pena per i residui reati.

Il Giudice del rinvio procederà a verificare se ed in che termini possano essere riconosciute le circostanze attenuanti generiche e procederà a rideterminare le pene accessorie di cui agli artt. 216- 223 L. Fall..

Sulla questione le Sezioni unite, facendo riferimento alla sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, hanno chiarito che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero, come nel caso di cui all’art. 216 L. Fall., uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. (Sez. U., n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286 in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva irrogato agli imputati le pene accessorie conseguenti al reato di bancarotta fraudolenta per il periodo fisso di dieci anni.

L’imputato deve essere condannato a rifondere alla parte civile Comune di (OMISSIS) le spese del presente grado di giudizio che si liquidano in complessivi 3.500,00 Euro oltre Iva e Cpa.

 

 

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio con riferimento al reato di autoriciclaggio di cui al capo C) perché il fatto non sussiste e con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia In relazione al trattamento sanzionatorio per i reati residui nonché per le pene accessorie di cui agli artt. 216 e 223 L. Fall..

Rigetta nel resto il ricorso.

Condanna B.M. a rifondere alla parte civile, Comune di (OMISSIS), le spese del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.500,00 oltre Iva e Cpa. Visto l’art. 624 c.p.p., dichiara irrevocabile la sentenza in relazione alla

responsabilità di B.M. per i reati di peculato e bancarotta di cui ai capi A), B), D).

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2021