ALLE SEZIONI UNITE IL COMPITO DI DEFINIRE LA CONDOTTA DI PARTECIPAZIONE ALL’ASSOCIAZIONE: BASTA IL RITUALE DI AFFILIAZIONE O SONO NECESSARI ULTERIORI ATTI ESECUTIVI DELLA CONDOTTA ILLECITI PROGRAMMATA

Va rimessa alle Sezioni Unite la questione se il rituale di affiliazione di un soggetto a un’organizzazione mafiosa costituisca ex se un fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’associato, quanto meno con riferimento all’operatività delle “mafie storiche”, strutturate e radicate territorialmente – nelle quali il recesso è estremamente difficile, per non dire, nella pratica, impossibile, salvo i casi di collaborazione con la giustizia -, atteso che la disposizione dell’art. 416-bis c.p., comma 1, si limita a prevedere la punizione di “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone (…)”, senza fornire alcuna indicazione specifica sulle modalità con cui tale partecipazione si deve concretizzare, la cui individuazione sembrerebbe estranea al modello di tipicità recepito dalla fattispecie.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, l’affiliazione a un’associazione di tipo mafioso costituisce fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità, atteso che il reato di cui all’art. 416-bis c.p. si consuma nel momento in cui il soggetto aderisce a una siffatta consorteria, senza che sia necessario il compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita programmata.
All’orientamento ermeneutico sopra richiamato se ne contrappone un altro, che non ritiene l’affiliazione a un’associazione di tipo mafioso, di per sé sola, sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato, richiedendo la prova del compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita programmata.

 

1. Con ordinanza emessa il 13/08/2020 il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, decidendo ex art. 309 c.p.p. sulle richieste proposte da M.D. e M.F. , confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria nei confronti degli indagati il 03/02/2020, per il reato di cui al capo 1 della rubrica, ascrittogli ai sensi dell’art. 416-bis c.p., commi 1, 2, 3, 4 e 5.
Occorre premettere che il provvedimento cautelare genetico veniva adottato dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria nel contesto di una più ampia attività d’indagine, che riguardava la sfera di operatività e le attività delittuose commesse dalla cosca A. di Sinopoli, che era storicamente presente nell’area aspromontana e risultava suddivisa in varie articolazioni territoriali, generalmente egemonizzate da un nucleo familiare. Questa attività d’indagine, in particolare, traeva origine dagli esiti dell’operazione di polizia denominata “XXXXXXXX”, che avevano evidenziato la capacità della cellula criminale aspromontana di controllare la sua area geografica di riferimento, attraverso l’imposizione di estorsioni agli imprenditori locali e la gestione di altri settori criminali, come il traffico di sostanze stupefacenti, reso possibile dalle ingenti disponibilità economiche della consorteria ‘ndranghetista oggetto di vaglio cautelare.
Tanto premesso, deve evidenziarsi che, secondo il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, il sodalizio ‘ndranghetista storicamente egemonizzato da A.C. e dai componenti del suo nucleo familiare operava secondo il modello tipizzato dall’art. 416-bis c.p. risultando dimostrati il metodo mafioso, la forza intimidatrice e il vincolo di omertà attraverso cui si era imposto sul territorio -, come accertato in altri procedimenti penali, definiti con sentenze irrevocabili, tra le quali si richiamava quella pronunciata nel procedimento denominato “XXXXXXX”, che chiarivano gli scenari nei quali operava la consorteria e i suoi collegamenti con la criminalità organizzata dell’area aspromontana. Nel processo “XXXXXXX”, in particolare, si era accertata l’esistenza della cosca A. di Sinopoli – di cui costituiva un’articolazione eufemiese la consorteria di cui facevano parte i ricorrenti -, storicamente egemonizzata dal defunto A.D. , che era stato successivamente sostituito dai figli A.C. e A.A. , ai quali subentrava ulteriormente il figlio A.C. , confermando la linea di vertice familiare che controllava il sodalizio sinopolese.
In questa cornice, al capo 1, si contestava a M.D. e M.F. la partecipazione al locale di ‘ndrangheta di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che, come detto, costituiva un’articolazione territoriale della cosca A. – quest’ultima operante, oltre che nello stesso centro eufemiese, a Sinopoli, San Procopio, Cosoleto, Delianuova e nelle aree limitrofe -, all’interno della quale i due affiliati gravitavano, in conseguenza dell’affiliazione che aveva avuto luogo nell’(OMISSIS) , nel corso di una cerimonia presieduta da F.M. , svoltasi con l’intervento del padre del ricorrenti, M.V. detto “(OMISSIS) “.
Più precisamente, il giudizio di gravità indiziarla relativo al delitto contestato a M.D. e M.F. al capo 1 veniva fondato sugli esiti delle captazioni acquisite nel corso delle indagini preliminari, che venivano passate in rassegna nelle pagine 8-13 del provvedimento impugnato e coinvolgevano L.D. , C.G. e C.V. . Da tali intercettazioni, infatti, si evincevano le modalità con cui si era proceduto ‘ndranghetista dei ricorrenti e i soggetti che avevano partecipato al rituale consortile che consentiva l’inserimento degli indagati nel locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, individuati, come detto, oltre che neì ricorrenti, in F.M. e M.V. detto “(OMISSIS) “.
Si ritenevano, infine, sussistenti le esigenze cautelari indispensabili al mantenimento del regime restrittivo applicato a M.D. e M.F. , rilevanti ai sensi del combinato disposto dell’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 275 c.p.p., comma 3, in conseguenza dell’elevato disvalore delle condotte illecite contestate agli indagati al capo 1 della rubrica e della loro riconducibilità a una consorteria criminale storicamente radicata nell’area aspromontana, come la cosca A. di Sinopoli, che risultava egemonizzata dall’omonimo nucleo familiare, rispetto ai quali non assumeva un rilievo decisivo la giovane età dei ricorrenti e la circostanza che gli stessi svolgevano attività lavorativa all’estero.
Sulla scorta di questi elementi indiziari, il Tribunale del riesame di Reggio Calabria confermava l’ordinanza impugnata.
2. Avverso tale ordinanza M.D. e M.F. , a mezzo dell’avv. Pier Paolo Emanuele, ricorrevano per cassazione, deducendo due motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato, in riferimento all’art. 273 c.p.p. e art. 416-bis c.p., conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del compendio indiziario acquisito, necessario alla configurazione del reato associativo ascritto a M.D. e M.F. al capo 1, rispetto alla quale si evidenziava una discrasia motivazionale tra il ruolo attribuito ai ricorrenti all’interno del sodalizio oggetto di contestazione e le emergenze probatorie, che apparivano prive di univocità, sia sotto il profilo del contributo causale fornito al locale di ‘ndrangheta di Sant’Eufemia d’Aspromonte sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo.
Con il secondo motivo di ricorso si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato, in riferimento all’art. 273 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 2, conseguenti al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del compendio indiziario acquisito, necessario alla configurazione del reato associativo ascritto a M.D. e M.F. al capo 1, che veniva censurata in relazione all’interpretazione delle captazioni acquisite nel corso delle indagini preliminari, che si ritenevano sprovviste di univocità probatoria e inidonee ad affermare l’esistenza di un collegamento consortile tra i ricorrenti e la cellula ‘ndranghetista alla quale sarebbero stati affiliati, anche in considerazione del fatto che gli indagati non risultavano personalmente coinvolti nelle intercettazioni censurate.
2.1. L’originario ricorso per cassazione veniva integrato dalla memoria difensiva trasmessa il 20/01/2021 dall’avv. Pierpaolo Emanuele nell’interesse di M.D. e M.F. , alla quale venivano allegate due traduzioni giurate effettuate su documenti redatti in lingua tedesca, che attestavano lo svolgimento di attività lavorative nella Repubblica Federale di Germania dei ricorrenti.
2.2. Infine, in data 21/01/2021, l’avv. Luca Cianferoni depositava motivi nuovi nell’interesse di M.D. e M.G. , ai sensi dell’art. 311 c.p.p., comma 4.
Con tale atto di impugnazione si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, in riferimento all’art. 416-bis c.p. e art. 273 c.p.p., conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del compendio indiziario acquisito, necessario alla configurazione del reato associativo ascritto a M.D. e M.F. al capo 1, che veniva censurata in relazione all’interpretazione delle captazioni acquisite nel corso delle indagini preliminari, di cui si richiamavano le frazioni colloquiali topiche nelle pagine 2-6 dell’atto di impugnazione in esame.
Secondo la difesa dei ricorrenti le intercettazioni acquisite nel corso delle indagini preliminari dovevano ritenersi connotate da ambiguità probatoria e non consentivano di affermare l’esistenza di un collegamento consortile tra M.D. , M.G. e la cellula ‘ndranghetista alla quale sarebbero stati affiliati. A sostegno di tali deduzioni, si evidenziava che i ricorrenti non risultavano coinvolti nelle captazioni censurate – che venivano registrate tra L.D. , C.G. e C.V. – e che da tali colloqui non era possibile evincere la natura dell’apporto causale fornito dagli indagati al locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
2.3. Le considerazioni esposte negli atti di impugnazione richiamati imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata.
Considerato in diritto
1. I ricorsi proposti da M.D. e M.F. devono essere rimessi alle Sezioni unite della Corte di cassazione.
2. Osserva il Collegio che il nucleo probatorio essenziale su cui il Tribunale del riesame di Reggio Calabria fondava la conferma dell’ordinanza di custodia cautelare genetica, emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria nei confronti dei ricorrenti il 03/02/2020, è costituito dagli esiti delle attività di intercettazione svolte nel corso delle indagini preliminari, che venivano passate in rassegna nelle pagine 8-13 dell’ordinanza impugnata, mediante il richiamo dei passaggi colloquiali salienti di tali captazioni.
Tra queste captazioni, si ritiene opportuno richiamare per la loro rilevanza probatoria, seguendo l’ordine di esposizione contenuto nel provvedimento impugnato, la captazione registrata il 02/04/2018 tra L.D. e C.G. , citata nelle pagine 8-12; nonché la captazione registrata il 04/04/2018 tra L.D. e C.V. , citata nelle pagine 12 e 13.
Secondo il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, gli esiti di queste attività di intercettazione facevano emergere le modalità rituali con cui M.D. e M.F. erano stati affiliati al locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che costituiva un’articolazione territoriale della cosca A. di Sinopoli, nel corso di una cerimonia svoltasi con le modalità rituali tipiche della ‘Ndrangheta.
Queste captazioni, al contempo, consentivano di affermare l’esistenza di rapporti consortili tra i ricorrenti e i vertici del sodalizio aspromontano – rappresentati, nell’occasione, da F.M. , che aveva presieduto il loro battesimo ‘ndranghetista, al quale era presente anche il padre degli indagati, M.V. detto “(OMISSIS) ” -, come conseguenza della consapevolezza degli indagati di essere stati inseriti nel locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, rafforzando, per il solo fatto di essere stati affiliati, le potenzialità operative della stessa consorteria.
3. Tuttavia, rispetto a questo nucleo probatorio essenziale, il Collegio si è posto un problema ermeneutico preliminare, per la cui risoluzione si ritiene indispensabile l’intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione, costituito dall’idoneità dell’affiliazione rituale al locale di ‘ndrangheta di Sant’Eufemia d’Aspromonte, non accompagnata da ulteriori indicatori fattuali, a fondare la conferma del giudizio di gravità indiziaria espresso dal Tribunale del riesame di Reggio Calabria nei confronti di M.D. e M.F. .
Tale problematica, a sua volta, postula la risoluzione di una questione ermeneutica più generale, che affonda le sue radici nell’opzione di politica criminale sottesa alla formulazione dell’art. 416-bis c.p., relativa alla possibilità che l’affiliazione, svolta con modalità rituali, a un’associazione di tipo mafioso riconducibile al novero delle “mafie storiche” – come la ‘ndrangheta, della cui operatività si controverte in questa sede, ovvero (OMISSIS) -, costituisca un fatto, di per se stesso, idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione del soggetto affiliato alla consorteria.
La necessità di risolvere questo problema, invero, non è del tutto nuova per il dibattito giurisprudenziale nostrano, traendo origine dalla consapevolezza che, con l’introduzione della fattispecie prevista dell’art. 416-bis c.p., si è compiuto un passo in avanti fondamentale nell’elaborazione di efficaci strategie di contrasto delle organizzazioni mafiose del nostro Paese: per la prima volta, infatti, si è affrontato un fenomeno criminale secondo le sue effettive caratteristiche operative e di radicamento territoriale e non già per quelli che sono i modelli di analisi tradizionale della dogmatica nostrana (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269039-01; Sez. 6, n. 34874 del 15/07/2015, Paletta, Rv. 264647-01; Sez. 6, n. 30059 del 05/06/2014, Bertucca, Rv. 262398-01).
D’altra parte, pur senza entrare nel merito delle complesse ragioni di politica criminale sottese a questa innovativa scelta legislativa, è la stessa formulazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. – quantomeno con riferimento alle “mafie storiche” – a spingere l’interprete nella direzione di una marcata caratterizzazione territoriale e strutturale del sodalizio mafioso, nella misura in cui tale previsione delinea i contorni di una consorteria tendenzialmente orientata nel senso di un controllo illecito e monopolistico delle attività produttive delle aree geografiche in cui è presente, tale da delineare i confini applicativi di un delitto ancorato alla valutazione concreta della condotta eversiva e antigiuridica dei suoi affiliati.
Non può, in proposito, non rilevarsi che lo scopo preminente dell’associazione di tipo mafioso, secondo la formulazione dell’art. 416-bis c.p., comma 3, è quello di realizzare – attraverso la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano – “in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti (…)”. L’associazione, in questa prospettiva normativa, orientata teleologicamente, punta ad aumentare la sua sfera di influenza sulle attività produttive del territorio dove opera ed esercita i suol poteri di supremazia delinquenziale, acquisendo in tale contesto posizioni economiche di oligopolio o addirittura di monopolio, che, in ultima analisi, costituiscono l’obiettivo dell’organizzazione mafiosa, secondo quella che è la previsione dell’art. 416-bis c.p..
Tuttavia, questa caratterizzazione, marcatamente territoriale e strutturale, del sodalizio mafioso, inevitabilmente, allontana la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. dal modello di legalità formale proprio della dogmatica tradizionale, introducendo un modello di tipicità “atipica” o “incompiuta”, rispetto al quale la partecipazione associativa è sanzionata in quanto tale, con strumenti normativi che, per un verso, recano con sé la necessità di un ancoramento rigoroso alle emergenze probatorie, per altro verso, comportano un’attenzione costante ai principi costituzionali, il cui rispetto deve costituire un parametro ineludibile per l’operatore del diritto. Appare esemplare, da questo punto di vista, il monito icastico espresso da una delle voci più autorevoli delle scienze criminali dell’ultimo secolo, che, un trentennio addietro, affermava: “Il fatto, in queste figure normative, sfuma nel percorso di vita o nella collocazione politica o ambientale dell’imputato, ed è come tale tanto poco verificabile dall’accusa quanto poco confutabile dalla difesa. E si configura tendenzialmente come un reato di status, più che come un reato di azione e di evento, identificabile, anziché con prove, con valutazioni riferite alla soggettività eversiva o sostanzialmente antigiuridica del suo autore. Ne è risultato un modello di antigiuridicità sostanziale anziché formale o convenzionale, che sollecita indagini sui rei anziché sui reati, e che corrisponde a una vecchia e mai spenta tentazione totalitaria: la concezione ontologica – etica o naturalistica – del reato come male quia peccatum e non solo quia prohibitum e l’idea che si debba punire non per quel che si è fatto ma per quello che si è”.
Da queste, non del tutto risolte, questioni ermeneutiche trae origine la necessità di un intervento chiarificatore delle Sezioni unite, essendo indispensabile comprendere se l’affiliazione di un soggetto a un’organizzazione mafiosa costituisca ex se un fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’associato, quanto meno con riferimento all’operatività delle “mafie storiche”, strutturate e radicate territorialmente – nelle quali il recesso è estremamente difficile, per non dire, nella pratica, impossibile, salvo i casi di collaborazione con la giustizia -, atteso che la disposizione dell’art. 416-bis c.p., comma 1, si limita a prevedere la punizione di “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone (…)”, senza fornire alcuna indicazione specifica sulle modalità con cui tale partecipazione si deve concretizzare, la cui individuazione sembrerebbe estranea al modello di tipicità recepito dalla fattispecie in esame.
D’altra parte, se si ritiene che la partecipazione associativa debba essere integrata da elementi ulteriori rispetto alla mera affiliazione, estranei alla previsione dell’art. 416-bis c.p., occorrerà allora comprendere attraverso quale percorso ermeneutico si debba o si possa giungere all’individuazione di tali indicatori consortili, tenendo presenti i limiti che il modello di tipicità formale vigente nel nostro sistema penale pone all’operatività di ogni forma di “creazionismo giurisprudenziale” e la posizione della giurisprudenza di legittimità nell’ambito dell’ordinamento interno, contrassegnato dal valore non vincolante del precedente, relativa all’efficacia persuasiva, per la profondità e l’accuratezza dei suoi argomenti, ma non impositiva, al di fuori dei limitati ambiti applicativi di cui all’art. 627 c.p.p., dell’interpretazione giurisprudenziale, cui compete soltanto una funzione dichiarativa ed esplicativa della norma di legge (Corte Cost., sent. n. 25 del 2019). Sono più che mai pertinenti le osservazioni di principio proprie del recente intervento delle Sezioni unite (Sez. U, n. 8544 del 24/10/2020, dep. 2020, Genco, Rv. 278054-01), che rimandano a quanto affermato in una precedente pronuncia (Sez. U. n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651-01), circa la funzione di “mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente creativà della interpretazione, la quale, senza varcare la linea di rottura col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima”.
Nè ci aiuta in questa complessa operazione di ermeneutica processuale la precedente e, tuttora, insuperata giurisprudenza delle Sezioni unite, secondo cui il partecipe di un’organizzazione mafiosa deve essere definito, in senso dinamico e funzionale, come “colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (…) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima” (Sez. U, n. 33478 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671-01).
Le Sezioni unite, invero, non prendono espressamente posizione sul significato da attribuire all’affiliazione a una consorteria mafiosa, pur ritenendo tale situazione rituale un indicatore, dotato di elevata sintomaticità, della partecipazione associativa, evidenziando che, sul piano probatorio, rilevano “rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo dei sodalizio (…)”. Si deve trattare, in ogni caso, di indicatori “gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “fatta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso (…)” (Sez. U, n. 33478 del 12/07/2005, Mannino, cit.).
4. Ricostruito in questi termini, il complesso e stratificato contesto ermeneutico nel quale si inserisce la problematica della rilevanza dell’affiliazione rituale di un soggetto a un’organizzazione mafiosa riconducibile al novero delle “mafie storiche”, su cui innesta l’invocato intervento delle Sezioni unite, deve rilevarsi che, sulla questione in esame, si fronteggiano due orientamenti giurisprudenziali, rispetto ai quali sembra difficile trovare una soluzione compromissoria, idonea a coniugare il rispetto del modello di tipicità formale del nostro sistema penale con le esigenze di garanzia individuale, connesse all’applicazione di una fattispecie, che si connota per la sua, in una certa misura, “atipica” o “incompiuta” tipicità.
4.1. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, l’affiliazione a un’associazione di tipo mafioso costituisce fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità, atteso che il reato di cui all’art. 416-bis c.p. si consuma nel momento in cui il soggetto aderisce a una siffatta consorteria, senza che sia necessario il compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita programmata.
La fattispecie in esame, infatti, prefigura un reato di pericolo presunto, con la conseguenza che, per integrare l’offesa all’ordine pubblico, è sufficiente l’adesione all’associazione di tipo mafioso, che, postulando la disponibilità incondizionata alle esigenze strategiche della consorteria, a maggior ragione se ci si riferisce a una “mafia storica”, appare, di per se stessa, idonea ad accrescere le potenzialità operative e intimidatorie del sodalizio. Basti, in proposito, richiamare il seguente principio di diritto: “Il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui il soggetto entra a far parte dell’organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata, poiché, trattandosi di reato di pericolo presunto, per integrare l’offesa all’ordine pubblico è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio, con la c.d. “messa a disposizione”, che è di per sé idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale” (Sez. 5, n. 27672 del 03/06/2019, Geraci, Rv. 276897-01).
Si muove, a ben vedere, nella stessa direzione ermeneutica l’arresto giurisprudenziale, maturato in un diverso contesto sezionale, secondo cui ai “fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, non è necessario che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi del programma criminoso ovvero di altre condotte idonee a rafforzarne la struttura operativa, essendo sufficiente che lo stesso assuma o gli venga riconosciuto il ruolo di componente del gruppo criminale” (Sez. 2, n. 18559 del 13/03/2019, Zindato, Rv. 276122-01).
4.2. All’orientamento ermeneutico sopra richiamato se ne contrappone un altro, che non ritiene l’affiliazione a un’associazione di tipo mafioso, di per sé sola, sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato, richiedendo la prova del compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita programmata.
Rappresenta in modo esemplare questo orientamento ermeneutico, che ritiene indispensabile, per la formulazione di un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato del reato di cui all’art. 416-bis c.p., l’acquisizione di elementi concreti e specifici, rivelatori dei suo ruolo attivo nell’associazione di tipo mafioso, il principio di diritto secondo cui: “Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, l’investitura formale o la commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti non sono essenziali, in quanto rileva la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica, ma unitaria, degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all’interno dello stesso” (Sez. 5, n. 4864 del 17/10/2016, Di Marco, Rv. 269207-01).
Analogo rilievo ermeneutico deve essere attribuito all’arresto giurisprudenziale, maturato in un differente ambito sezionale, con specifico riferimento al contesto ‘ndranghetista che si sta considerando, secondo cui: “Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, l’affiliazione rituale può non essere sufficiente laddove alla stessa non si correlino ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo” (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269040-01).
5. In questa cornice, il contrasto tra la soluzione interpretativa tendente a ritenere sufficiente la mera affiliazione a un’organizzazione criminale operante secondo il modello prefigurato dall’art. 416-bis c.p. e riconducibile al novero delle “mafie storiche” e la contrapposta opzione ermeneutica tendente a ritenere tale adesione rituale inidonea a fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato se non accompagnata da elementi concreti e specifici, rivelatori del ruolo attivo svolto dall’imputato nel sodalizio, non incide soltanto sulla vicenda oggetto di vaglio cautelare, ma richiama l’esigenza di assicurare l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale su una questione interpretativa di notevole rilevanza.
Per queste ragioni, si reputa opportuno, a norma dell’art. 618 c.p.p., comma 1, rimettere alle Sezioni unite della Corte di cassazione i ricorsi proposti da M.D. e M.F. , formulando il seguente quesito: “Se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie ‘Ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato dalla norma previsto”.

P.Q.M.
Rimette i ricorsi alle Sezioni unite.