IL SILENZIO-ASSENSO ORIZZONTALE NEL PROCEDIMENTO PER IL RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA: IMPORTANTE SENTENZA DEL CDS A FAVORE DELLA TESI DELL’APPLICABILITA’

Cons. Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610 – Pres. Neri, Est. Furno

 

Il parere della Soprintendenza nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ha valore codecisorio e rientra, pertanto, nel campo di applicazione del silenzio-assenso orizzontale di cui all’art. 17-bis L. n. 241/1990.

Come affermato dal Consiglio di Stato nel parere 13 luglio 2016, n. 1640, l’art. 17-bis si applica ai procedimenti con fase decisoria pluristrutturata e pertanto “anche ai pareri vincolanti, e non, invece, a quelli puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della L. n. 241 del 1990”.

L’art. 17-bis è, quindi, destinato ad applicarsi solo ai procedimenti caratterizzati da una fase decisoria pluristrutturata e, dunque, nei casi in cui l’atto da acquisire, al di là del nomen iuris, abbia valenza co-decisoria.

Il parere in esame ha anche chiarito che l’art. 17-bis non si applica nei casi in cui un’amministrazione ha un ruolo meramente formale (come nel caso dello Sportello Unico che si limita a raccogliere e trasmettere l’istanza all’Amministrazione unica decidente). In questo caso, infatti, come si è puntualmente osservato, non essendoci un’amministrazione co-decidente, il vero beneficiario del silenzio assenso sarebbe il privato, avendosi, quindi, un’ipotesi silenzio assenso nei rapporti (non endo-procedimentali) verticali con i privati (c.d. decisione monostrutturata).

La disposizione in esame richiede, pertanto, che le due Amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) condividano la funzione decisoria, nel senso che entrambe devono essere titolari di una funzione decisoria sostanziale.

Il parere in esame ha anche chiarito che l’art. 17-bis non si applica nei casi in cui un’amministrazione ha un ruolo meramente formale (come nel caso dello Sportello Unico che si limita a raccogliere e trasmettere l’istanza all’Amministrazione unica decidente). In questo caso, infatti, come si è puntualmente osservato, non essendoci un’amministrazione co-decidente, il vero beneficiario del silenzio assenso sarebbe il privato, avendosi, quindi, un’ipotesi silenzio assenso nei rapporti (non endo-procedimentali) verticali con i privati (c.d. decisione monostrutturata).

La disposizione in esame richiede, pertanto, che le due Amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) condividano la funzione decisoria, nel senso che entrambe devono essere titolari di una funzione decisoria sostanziale.

La tesi che esclude l’applicazione del silenzio assenso verticale al parere da rendere, da parte della Soprintendenza, nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica contraddice anche la ratio dell’art. 17- bis, comunemente intesa come funzionale a evitare che, ove il procedimento debba concludersi con l’adozione di una decisione pluristrutturata, la condotta inerte dell’amministrazione interpellata possa produrre un arresto del procedimento, impedendo la tempestiva adozione della determinazione conclusiva.

In tale quadro, l’istituto in esame completa, come in parte già ricordato, un’evoluzione normativa che ha progressivamente fluidificato l’azione amministrativa, neutralizzando gli effetti negativi e paralizzanti del silenzio amministrativo, dapprima nei rapporti con i privati e ora anche nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.

Il nuovo strumento di semplificazione conferma, pertanto, la natura “patologica” che connota il silenzio amministrativo, soprattutto quando maturi nell’ambito di un rapporto orizzontale con un’altra amministrazione co-decidente.

Il meccanismo del silenzio-assenso orizzontale palesa, in altri termini, una contrarietà di fondo del legislatore nei confronti dell’inerzia amministrativa, inerzia che viene stigmatizzata al punto tale da ricollegare al silenzio dell’Amministrazione interpellata la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, ossia l’equiparazione del silenzio all’assenso con conseguente perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.

Tali avvertite esigenze non sono circoscrivibili in ragione della natura del procedimento preso in esame, imponendosi in via generalizzata (salve le eccezioni di cui all’art. 17 bis, comma 4, L. n. 241/90) per ogni forma di esercizio del pubblico potere, amministrativo o normativo, qualora il provvedimento finale presupponga una fase di co-decisione di competenza di altra Amministrazione.

A tal riguardo, risultano particolarmente significativi i passaggi argomentativi del citato parere del Consiglio di Stato nel quale si legge che “il Consiglio di Stato ritiene si possa parlare di un ‘nuovo paradigma’: in tutti i casi in cui il procedimento amministrativo è destinato a concludersi con una decisione ‘pluristrutturata’ nel senso che la decisione finale da parte dell’Amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra Amministrazione il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che rimanga inerte non esternando alcuna volontà, non ha più l’effetto di precludere l’adozione del provvedimento finale ma è, al contrario, equiparato ope legis a un atto di assenso e consente all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo. …. il silenzio assenso “orizzontale” previsto dall’art. 17-bis opera, nei rapporti tra Amministrazioni co-decidenti, quale che sia la natura del provvedimento finale che conclude il procedimento, non potendosi sotto tale profilo accogliere la tesi che, prospettando un parallelismo con l’ambito applicativo dell’art. 20 concernente il silenzio assenso nei rapporti tra privati, circoscrive l’operatività del nuovo istituto agli atti che appartengono alla categoria dell’autorizzazione, ovvero che rimuovono un limite all’esercizio di un preesistente diritto. La nuova disposizione, al contrario, si applica a ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda al suo interno una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso”.

 

 

 

FATTO

1.1. I fatti rilevanti ai fini del decidere possono essere ricostruiti come segue.

1.2. Il signor Maiuri è proprietario di un terreno di 1.280 mq., catastalmente identificato al foglio 10, p.lle 560, 908, 910 e 911 del catasto del comune di Ascea, insistente:

– nella zona “D” (aree urbane e urbanizzabili) del Piano del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni;

– in area assoggettata a tutela paesaggistica, ai sensi dell’art. 142, co. 1, lett. f) d.lgs. 22.1.2004, n. 42 e del D.M. 10.10.1967;

– in ambito individuato nel vigente P.S.A.I. quale fascia fluviale “B2”, con rischio idraulico “R2” e area inondabile “T30”.

1.3. Con nota prot. n. 2975 del 25.3.2019, il signor Maiuri chiedeva il rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di una residenza turistico-alberghiera (RTA – albergo residenziale o residence), e con nota 25.3.2019, n. 2974 formulava domanda di autorizzazione paesaggistica;

Con avviso prot.n. 3012 del 27.3.2019, il comune di Ascea indiceva, ai sensi dell’art. 14-bis, l. 7.8.1990, n. 241, la conferenza di servizi decisoria in forma semplificata e con modalità asincrona, al fine di acquisire tutti i necessari atti di assenso, ivi compreso il parere della Soprintendenza, nonché il nulla osta dell’Ente Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni.

Le amministrazioni convocate avrebbero dovuto rendere nota la propria posizione entro il 2.7.2019 e, comunque, non oltre l’1.8.2019 (considerato il termine di sospensione istruttorio di 30 giorni, come detto, applicabile alla conferenza di servizi decisoria ai sensi dell’art. 2, co. 7, della L. n. 241/1990).

L’Ente Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni rilasciava il proprio nulla osta prot. n. 5976 del 23.4.2019, ai sensi dell’art. 13, l. 6.12.1991, n. 394.

Con nota prot. 17.4.2019, la Soprintendenza richiedeva la trasmissione di integrazioni e chiarimenti; esitate dal Responsabile dello sportello unico per l’edilizia, con nota prot. n. 12150 del 30.11.2019.

Con nota n. 2939 del 10.02.2020, la Soprintendenza esprimeva parere contrario.

Con nota n. 2315 del 9.03.2022, il comune di Ascea procedeva alla riattivazione dell’istruttoria procedimentale.

Con nota n. 69022 del 9.03.2022, la Soprintendenza confermava il parere contrario.

Con determina n. 10 del 31.3.2022, l’amministrazione procedente, pur ritenendo “l’intervento dal punto di vista urbanistico conforme al PRG e alle norme di attuazione attualmente vigenti e pertanto assentibile”, statuiva che “il dissenso espresso non fosse superabile senza apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza così come rappresentato dal parere contrario della Soprintendenza”.

3.Avverso tale decisione il signor Maiuri proponeva ricorso al T.a.r Salerno, nella resistenza del il Ministero della Cultura.

4.Il T.a.r Salerno, con sentenza 4.11.2022, n. 2946, accoglieva il ricorso e, per l’effetto, annullava la determina 31.3.2022, n. 10.

Appare utile ripercorrere, nei suoi tratti essenziali, i principali passaggi argomentativi attraverso i quali il giudice di prime cure.

4.1. Il Tribunale Amministrativo Regionale ha così argomentato la decisione di accoglimento del ricorso: “La conferenza è indetta dall’amministrazione procedente entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. A tal fine l’amministrazione procedente comunica alle altre amministrazioni interessate … il termine perentorio, comunque non superiore a 45 giorni, entro il quale le amministrazioni coinvolte devono rendere le proprie determinazioni relative alla decisione oggetto della conferenza, fermo restando l’obbligo di rispettare il termine finale di conclusione del procedimento. Se tra le suddette amministrazioni vi sono amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, o alla tutela della salute dei cittadini, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all’articolo 2 non prevedano un termine diverso, il suddetto termine è fissato in 90 giorni”; agli atti risulta evidentemente inosservato il termine legalmente previsto per l’adozione del richiesto atto consultivo da parte dell’Autorità Tutoria; la circostanza dianzi acclarata, ossia l’intempestività dell’intervento consultivo da parte dell’autorità tutoria statale, ha finito per generare la formazione del silenzio assenso “orizzontale” o “interno” ex art. 14 bis, comma 4, della l. n. 241/1990 (di recente modificato dall’art. 12, comma 1, lett. g, del d.l. n. 76/2020, conv. in l. n. 120/2020) sull’istanza di autorizzazione paesaggistica relativa al progetto controverso e per implicare l’inefficacia ex art. 2, comma 8 bis, della l. n. 241/1990 del parere soprintendentizio negativo; a suffragio dell’approccio dianzi accreditato, giova richiamare le seguenti statuizioni, sancite da Cons. Stato, sez. V, n. 255/2022, in tema di silenzio assenso orizzontale perfezionatosi in Conferenza di servizi:”… deve allora rilevarsi come, da un lato, in base al citato art. 17 bis [della l. n. 241/1990], nell’ambito delle conferenze di servizi, gli assensi e nulla osta delle Amministrazioni preposte alla tutela dei beni culturali e paesaggistici si intendono acquisiti favorevolmente decorsi novanta giorni dalla richiesta del parere; dall’altro gli artt. 22 e 25 del d.lgs. n. 42 del 2004 non si applicano cumulativamente in combinato disposto, la prima norma escludendo anzi espressamente che il procedimento ivi disciplinato (diffida del privato e ricorso avverso il silenzio inadempimento) possa essere applicato agli atti di assenso resi nelle conferenze di servizi. La disciplina normativa su indicata distingue infatti le diverse (e alternative) fattispecie: a) quella relativa al procedimento in caso di richiesta di autorizzazione di interventi su beni culturali e paesaggistici su richiesta dell’interessato, in cui quest’ultimo può agire in giudizio con il ricorso contro il silenzio inadempimento qualora la Soprintendenza non renda il dovuto parere nel termine di 120 giorni dall’istanza; b) quella di cui al diverso procedimento in sede di conferenza di servizi (“Fuori dei casi previsti dall’articolo 25 e 26″) nella quale i pareri delle Amministrazioni preposte alla tutela dei beni si intendono acquisiti favorevolmente decorsi 90 giorni dalla richiesta in applicazione dell’art. 17 bis della legge 241 del 1990.Invero, la diversa interpretazione delle norme procedimentali fornita dall’appellata sentenza (anche sulla base di un richiamo al citato precedente giurisprudenziale anteriore all’inserimento della norma di cui all’art. 17 bis della legge n. 241 del 1990) comporterebbe che, per un verso, l’inerzia dell’amministrazione, in caso di silenzio della Soprintendenza in sede di competenza di servizi, si volgerebbe inesorabilmente in danno del privato (dovendo essa condurre, sempre e necessariamente, ad un diniego dell’istanza ovvero ad una sospensione sine die del procedimento amministrativo avviato); dall’altro si pone in aperto contrasto con il dato letterale della norma di cui all’art. 17 bis della legge n. 241 del 1990 sulla formazione del silenzio assenso, che non troverebbe così mai applicazione nell’ambito delle conferenze di servizi relative agli interventi sui beni disciplinati dal d.lgs. 42/20004, dovendo viceversa il privato anche in questa ipotesi sempre impugnare il silenzio-inadempimento. Al contrario, nella seconda fattispecie su indicata (dell’assenso richiesto nell’ambito delle conferenze di servizi per interventi edilizi su beni culturali e paesaggistici) è sempre applicabile l’art. 17 bis della legge n. 241/1990, che disciplina il generale meccanismo di formazione del silenzio assenso nell’ottica della semplificazione procedimentale. Il dato normativo cosi ricostruito, per la sua chiarezza, non consente invece di ricavare, come fatto dall’appellata sentenza, dal mero riferimento contenuto nell’art. 25 del d.lgs. n. 42/2004 ad una dichiarazione motivata l’inapplicabilità alla fattispecie della generale norma procedimentale sulla formazione del silenzio assenso e la necessità che il procedimento si concluda sempre con un provvedimento espresso dell’amministrazione preposta alla tutela del bene, dando al privato la sola possibilità di impugnarne il silenzio- inadempimento”. Stanti queste premesse, attesa l’inefficacia del parere reso tardivamente dalla Soprintendenza, in ragione dell’intervenuta formazione del silenzio assenso, la determina di conclusione dei lavori, oggetto della presente impugnativa, è da reputarsi illegittima; e tanto basta al Collegio; la natura dirimente del vizio riscontrato consente di reputare assorbita qualsivoglia altra deduzione profilata”.

5. Contro quest’ultima decisione il Ministero dei beni culturali ha proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato affidato a un unico motivo di cui si dirà oltre.

6. In data 13.2.2023, si è costituito in giudizio il signor Maiuri chiedendo la declaratoria di inammissibilità dell’appello e concludendo, in ogni caso, per la sua infondatezza.

7. In data 22 giugno 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.Con un primo motivo di appello, il Ministero della Cultura deduce “ERRRONEITÀ DELLA SENTENZA. ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 14 bis e 17 BIS E 20 L. 241/90, NONCHÉ DELL’ART. 146 TU 42/2004

Ad avviso del Ministero, da un costante indirizzo interpretativo del Consiglio di Stato si ricaverebbe, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, che l’art. 17- bis della l. 241/90, relativo al silenzio assenso endo-procedimentale, si applica soltanto ai rapporti orizzontali tra amministrazioni e non anche al procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, che invece si caratterizzerebbe come un procedimento mono-strutturato, in cui prevale la volontà di una singola pubblica amministrazione.

Coerentemente con la premessa da cui trae le mosse, il Ministero ritiene che, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata, il parere tardivo della Soprintendenza non sarebbe tamquam non esset e di esso il Comune dovrebbe comunque tenere conto ai fini della determinazione in ordine al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

2. Dalla ricostruzione in fatto e dall’analisi delle risultanze acquisite al giudizio si ricava che non è contestata in atti e tra le parti la circostanza per cui la Soprintendenza non ha osservato il termine legalmente previsto per l’adozione del parere, da rendere nell’ambito della conferenza decisoria indetta dal Comune di Ascea.

Ciò premesso, con l’appello in esame viene rimessa al Collegio la soluzione della questione, oggetto di contrasto interpretativo, dell’applicabilità del silenzio assenso c.d. orizzontale agli atti di tutela degli interessi sensibili e segnatamente al parere paesaggistico reso tardivamente nel corso di una conferenza di servizi indetta ai sensi dell’art..14-bis, l. n. 241 del 1990.

Trattasi di una questione strettamente correlata, per quanto si dirà oltre, a quella dell’applicabilità o meno al procedimento di autorizzazione paesaggistica dell’art. 17-bis, l. n. 241 del 1990, come comprova anche il fatto che, nell’atto di appello, le principali argomentazioni sono sviluppate proprio in riferimento a quest’ultima disposizione.

3. Il Collegio ritiene necessario, prima di esaminare il merito della presente controversia, ripercorrere brevemente il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

3.1. Anteriormente alla riforma del 2015 (legge n. 124 del 2015) il quadro normativo e giurisprudenziale appariva abbastanza chiaro. In base all’articolo 146, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, l’autorità competente alla gestione del vincolo (di regola il comune, delegato dalla Regione) doveva provvedere sulla domanda del privato entro 60 giorni, acquisito il parere del soprintendente (obbligatorio e vincolante fino alla conformazione o adeguamento della strumentazione urbanistica alla nuova pianificazione paesaggistica), da rendere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. In caso di parere non emesso nel termine suindicato, veniva in rilievo la fattispecie del c.d. silenzio devolutivo, nel senso che, decorso inutilmente il termine senza che la soprintendenza avesse comunicato il parere, il comune aveva il dovere funzionale di decidere da solo e doveva provvedere sulla domanda (“Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”: articolo 146, comma 9). Tuttavia, il potere della soprintendenza di esprimere il suo parere non si consumava automaticamente allo scadere del termine di 45 giorni per essa previsto, ma solo nel momento in cui il comune chiudeva il procedimento con l’adozione della formale autorizzazione paesaggistica, ragion per cui il parere ministeriale “tardivo” non era né nullo, né annullabile, ma perdeva solo la sua efficacia vincolante, degradando a mero parere obbligatorio, che doveva però come tale essere comunque preso in considerazione dal comune che non avesse ancora provveduto, con conseguente obbligo motivazionale specifico in caso di diverso avviso.

In base a tale ricostruzione, appariva evidente la distinzione tra silenzio devolutivo e silenzio-assenso. Nel primo caso, l’autorizzazione paesaggistica veniva imputata esclusivamente all’ente territoriale che l’ha rilasciata, mentre nel secondo caso era riconducibile (in co-decisione) a entrambe le amministrazioni.

3.2. Il legislatore, nell’ambito della cd. riforma Madia (1. n. 124/2015 e relativi decreti delegati), si è marcatamente discostato dalla tradizionale impostazione basata sul riconoscimento di una tutela rafforzata degli interessi sensibili nell’ambito del procedimento amministrativo, la quale si traduceva nella previsione di un regime di specialità nell’uso degli strumenti di semplificazione previsti nella l. n. 241. E in effetti, prima di tale riforma, gli istituti contemplati nel Capo IV, rubricato “Semplificazione dell’azione amministrativa”, l. n. 241 del 1990 — quali la conferenza di servizi (art. 14 e ss.), l’attività consultiva (art. 16), l’acquisizione di valutazioni tecniche (art. 17), la s.c.i.a. (art. 19) e il silenzio assenso (art. 20) — ricevevano nella disciplina generale dei procedimenti coinvolgenti interessi sensibili un’applicazione fortemente attenuata. Diversamente da questa impostazione tradizionale, la riforma Madia è intervenuta in maniera incisiva anche sulla disciplina sostanziale e procedurale degli interessi sensibili. Il riferimento è, in particolare:

– al silenzio assenso orizzontale tra pubbliche amministrazioni ex art. 17-bis, l. n. 241 del 1990, applicabile anche nel caso in cui l’atto di assenso (di una p.a. su uno schema di provvedimento predisposto da altra p.a.), che non sia pervenuto nei termini, provenga da un’amministrazione preposta alla cura di interessi sensibili;

– alla riscrittura della disciplina della conferenza di servizi caratterizzata sia dalla previsione del silenzio assenso in caso di mancata partecipazione o partecipazione non collaborativa o costruttiva anche di amministrazioni preposte ad interessi sensibili sia dal fatto che il dissenso di una p.a. preposta a un interesse sensibile non è più ostativo alla conclusione positiva della conferenza simultanea nonché dalla figura del rappresentante unico in conferenza.

Più in dettaglio, il menzionato art. 14 ter recita: “1. La prima riunione della conferenza di servizi in forma simultanea e in modalità sincrona si svolge nella data previamente comunicata ai sensi dell’articolo 14 bis, comma 2, lettera d), ovvero nella data fissata ai sensi dell’articolo 14 bis, comma 7, con la partecipazione contestuale, ove possibile anche in via telematica, dei rappresentanti delle amministrazioni competenti. 2. I lavori della conferenza si concludono non oltre quarantacinque giorni decorrenti dalla data della riunione di cui al comma 1. Nei casi di cui all’articolo 14 bis, comma 7, qualora siano coinvolte amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, il termine è fissato in novanta giorni. Resta fermo l’obbligo di rispettare il termine finale di conclusione del procedimento. 3. Ciascun ente o amministrazione convocato alla riunione è rappresentato da un unico soggetto abilitato ad esprimere definitivamente e in modo univoco e vincolante la posizione dell’amministrazione stessa su tutte le decisioni di competenza della conferenza, anche indicando le modifiche progettuali eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. 4. Ove alla conferenza partecipino anche amministrazioni non statali, le amministrazioni statali sono rappresentate da un unico soggetto abilitato ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte le predette amministrazioni, nominato, anche preventivamente per determinate materie o determinati periodi di tempo, dal Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, ove si tratti soltanto di amministrazioni periferiche, dal Prefetto. Ferma restando l’attribuzione del potere di rappresentanza al suddetto soggetto, le singole amministrazioni statali possono comunque intervenire ai lavori della conferenza in funzione di supporto. Le amministrazioni di cui all’articolo 14 quinquies, comma 1, prima della conclusione dei lavori della conferenza, possono esprimere al suddetto rappresentante il proprio dissenso ai fini di cui allo stesso comma. 5. Ciascuna regione e ciascun ente locale definisce autonomamente le modalità di designazione del rappresentante unico di tutte le amministrazioni riconducibili alla stessa regione o allo stesso ente locale nonché l’eventuale partecipazione delle suddette amministrazioni ai lavori della conferenza. 6. Alle riunioni della conferenza possono essere invitati gli interessati, inclusi i soggetti proponenti il progetto eventualmente dedotto in conferenza. 7. All’esito dell’ultima riunione, e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione della conferenza, con gli effetti di cui all’articolo 14- quater, sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza tramite i rispettivi rappresentanti. Si considera acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero, pur partecipandovi, non abbia espresso ai sensi del comma 3 la propria posizione, ovvero abbia espresso un dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della conferenza”.

L’’art.17-bis, a sua volta, dispone, che nei casi in cui l’amministrazione procedente deve acquisire, su uno schema o proposta di provvedimento l’assenso, concerto o nulla osta, comunque denominati, di altre amministrazioni pubbliche queste devono comunicare la propria determinazione entro un termine tassativo (comma 1), decorso inutilmente il quale si forma ope legis il silenzio assenso (comma 2). Il successivo comma 3 precisa che il silenzio-assenso, in caso di mancata pronuncia, si forma anche allorché le amministrazioni chiamate a pronunciarsi, a fini decisori, sono quelle preposte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, dei beni culturali e della salute.

3.3.Tale innovativa impostazione, come è stato sottolineato da attenta dottrina, è la conseguenza del combinato operare di due fattori: 1) la trasformazione del ruolo della semplificazione, da valore strumentale (ossia come principio generale da collegare all’esigenza di migliorare l’efficienza amministrativa nel valutare tutti gli interessi che si confrontano nel procedimento e di aumentare l’efficacia nella cura degli interessi pubblici al contempo garantendo una più agevole tutela delle pretese del cittadino) a bene o valore di natura finale, autonomo rispetto agli interessi curati dalle amministrazioni competenti al rilascio di assensi comunque denominati; 2) l’attenuazione della valenza forte e assolutizzante dell’attributo di primarietà associato agli interessi sensibili, nella misura in cui viene ammesso un loro bilanciamento in concreto con altri valori e principi.

In relazione al primo fattore, si è messo in evidenza che l’obiettivo della competitività del sistema paese richiede sia garantita la conclusione dei procedimenti avviati su istanza di parte in tempi certi e rapidi, e quindi la tempestività dell’azione amministrativa, poiché il fattore tempo è una variabile essenziale della programmazione finanziaria privata di cui è necessaria la ragionevole prevedibilità. Quanto al secondo fattore, è stato evidenziato che le novità sul trattamento procedimentale degli interessi sensibili poggiano sulla recente evoluta declinazione dell’attributo di primarietà ad essi associato, come poc’anzi visto, inteso non più in modo astratto e aprioristico come primazia in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali.

4. Anche successivamente all’introduzione di tali modifiche normative, una parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato ha continuato a fare applicazione del modello del parere meramente devolutivo. In tale direzione si è, ad esempio, orientata la decisione del Consiglio di Stato, sez. I, 28 giugno 2021, n. 1114, secondo cui qualora “sia trascorso inutilmente il termine, l’organo statale non è privato del potere di esprimersi, ma il parere in tal modo dato perde il proprio carattere di vincolatività. In ordine all’efficacia eventualmente da riconoscere a un parere negativo da parte della Soprintendenza, reso successivamente al decorso del termine di quarantacinque giorni, si possono infatti dare tre possibili esiti: a) la consumazione del potere per l’organo statale di rendere un qualunque parere (di carattere vincolante o meno)…; b) la permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante (dovendosi in particolare riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato termine); c) la possibilità per l’organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, privo di effetti vincolanti ma autonomamente valutabile dall’amministrazione titolare dell’adozione dell’atto autorizzatorio finale” (nello stesso senso Id., parere 25 gennaio 2021, n. 103).

Alla stregua di tale indirizzo interpretativo, in caso di pronuncia tardiva (purché anteriore alla “chiusura” del procedimento segnata dal rilascio del provvedimento finale da parte del comune), il parere della Soprintendenza dequota a obbligatorio, ma resta efficace e fonda comunque l’obbligo comunale di esame e di motivazione in caso di dissenso.

Tale parere tardivo non vincolerebbe la p.a. procedente, alla quale toccherebbe comunque di tenerne conto, valutando motivatamente ed in concreto anche gli aspetti paesaggistici (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; idem, 29 marzo 2021, n. 2640; idem, 7 aprile 2022, n. 2584).

4.1. Tanto, in applicazione del comma 9 dell’art. 146, in base al quale, “decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente, senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”: norma non espressamente abrogata dall’art. 17-bis della legge n. 241/1990, la quale istituirebbe una forma di silenzio devolutivo, per definizione incompatibile con il silenzio assenso. La più consapevole espressione dell’indirizzo interpretativo in esame si rinviene nella decisione del Consiglio di Stato 29 marzo 2021, n. 2640 la quale, con una statuizione di notevole interesse sistematico, si è occupata, in particolare, della medesima fattispecie ricorrente nel presente giudizio, vale a dire, dell’acquisizione del parere della soprintendenza nell’ambito di una conferenza dei servizi. Ad avviso di tale decisione, la Soprintendenza, nell’esprimere il suo parere sulla proposta di autorizzazione paesaggistico deve ignorare la compresenza di qualsiasi altro interesse pubblico, anche di analoga valenza (ad esempio, quello alla tutela dell’ambiente).

Questo principio, in base all’ orientamento in parola, si applicherebbe anche nell’ambito della conferenza di servizi. Per questa tesi, anche quando il legislatore ha scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, non vi è comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si basa su un espresso principio costituzionale.

L’itinerario argomentativo di quest’ultima decisione muove dalla considerazione per cui l’autorizzazione paesaggistica costituisce un provvedimento mono-strutturato, essendo il relativo procedimento attivato ad istanza della parte interessata e non della p.a. precedente. Il rapporto tra regione/ente locale e Soprintendenza è meramente interno, ossia finalizzato a co-gestire non la fase decisoria ma quella istruttoria.

Dall’accoglimento di tale premessa si fa discendere la non applicabilità dell’art 17-bis al parere della soprintendenza in quanto quest’ultima disposizione non riguarderebbe la fase istruttoria del procedimento amministrativo, che rimarrebbe regolata dalla pertinente disciplina positiva, influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium con la conseguenza che l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito, a elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente.

In tale ordine di idee, la disciplina del silenzio assenso orizzontale va riferita unicamente agli assensi da rendere direttamente dall’amministrazione procedente e non già al parere della soprintendenza, chiamata ad esprimersi non direttamente sulla compatibilità dell’intervento ma sulla proposta formulata dalla regione (o dall’ente delegato).

Da tale impostazione consegue che, nonostante l’inutile decorso del termine di legge assegnato alla Soprintendenza per esprimere il proprio parere vincolante alla regione, non si forma un silenzio assenso che impone agli organi regionali di conformarsi. Allo stesso modo, nonostante il decorso del richiamato termine, resta ferma in capo alla regione la facoltà di apprezzare in modo autonomo la fattispecie ai fini della migliore e più adeguata tutela del valore paesaggistico, inteso nella sua dimensione costituzionale. A sostegno di tale conclusione viene rimarcata l’estraneità alla funzione di tutela del paesaggio di “ogni forma di attenuazione del vincolo paesaggistico determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi”, atteso che il parere è “atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica”, in cui il giudizio di compatibilità paesaggistica “deve essere tecnico e proprio del caso concreto”. Nell’esprimere il proprio giudizio di compatibilità l’amministrazione, ad avviso della decisione in esame, deve fare applicazione dell’art. 9 della Costituzione, il quale consente di fare eccezione anche alle regole di semplificazione in precedenza richiamate.

5. Secondo un orientamento di segno contrario, l’istituto del silenzio assenso orizzontale è applicabile anche al parere della Soprintendenza.

Sul piano sistematico, questo diverso indirizzo muove dalla premessa per cui tutti i pareri vincolanti partecipano alla formazione di un provvedimento finale pluri-strutturato, in quanto la decisione dell’amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra amministrazione. Si evidenzia, infatti, al riguardo che il parere della Soprintendenza è “espressione di una cogestione attiva del vincolo paesaggistico” (cfr. cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 aprile 2021, n. 3145; Cons. Stato, sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; idem, 18 marzo 2021, n. 2358; idem, 19 marzo 2021 n. 2390).

A tali pareri si applicherebbe pertanto l’art. 17-bis della legge n. 241/1990, diversamente che ai pareri consultivi (non vincolanti), che restano assoggettati alla disciplina di cui agli artt. 16 e 17. Dunque, alla stregua di tale ricostruzione, la formulazione testuale del comma 3 dell’art. 17-bis consente di estendere il meccanismo del silenzio assenso anche ai procedimenti di competenza di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali di modo che, scaduto il termine fissato dalla normativa di settore, vale la regola generale del silenzio assenso (cfr. Cons. Stato, comm. spec., 23 giugno 2016, n. 1640, reso su uno specifico quesito posto dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione; idem, sez. VI, 1 ottobre 2019, n. 6556; idem, sez. IV, 14 luglio 2020, n. 4559; idem, sez. V, 14 gennaio 2022, n. 255).

A sostegno di questa impostazione si valorizza principalmente l’argomento letterale per cui “La formulazione testuale del comma 3 dell’art. 17- bis l. n. 241 del 1990 consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini. Sul punto la formulazione letterale del comma 3 è chiara e non lascia spazio a dubbi interpretativi: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso”. (Cons. Stato, comm. spec., 23 giugno 2016, n. 1640, cit.).

6. Il primo degli orientamenti riportati, pur meritevole della massima considerazione, ad avviso del Collegio, deve essere rimeditato alla luce delle osservazioni che seguono.

Reputa, infatti, il Collegio che la preoccupazione di garantire un’adeguata tutela agli interessi paesaggistici, di cui la decisione di questa Sezione n. 2604/21 è chiaramente espressione, deve essere attentamente considerata nell’ambito di una interpretazione maggiormente conforme al quadro normativo di riferimento.

7. La questione in esame involge, ad avviso del Collegio, delicati profili di teoria generale dell’interpretazione.

Ogni enunciato normativo, beninteso, presenta margini più o meno ampi di incertezza circa il suo ambito di applicazione. Questo spazio dipende in larga parte dalla semantica della lingua legale, essendo tanto più ampio e indeterminato quanto più ampio e indeterminato è il significato associabile ai termini della lingua legale. Esso cresce inevitabilmente in presenza di una normazione elaborata per principi o per clausole generali e decresce al cospetto di norme predisposte secondo la tecnica della c.d. fattispecie.

La giurisprudenza, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, dà vita al testo normativo e dà contenuto alle (concretizza le) clausole generali, elaborando la regola del caso concreto. Sotto il profilo metodologico, occorre, tuttavia, ribadire che compito essenziale della giurisprudenza (rectius dell’interprete) è quello di dipanare gradualmente, attraverso gli strumenti dell’esegesi normativa, i dubbi interpretativi che ciascuna disposizione inevitabilmente solleva, nel costante confronto con la concretezza dei casi in cui essa è suscettibile di trovare applicazione.

Come è stato osservato in dottrina, il problema non è ammettere, in contrasto con il positivismo di matrice illuministica, che l’interpretazione implichi un’attività discrezionale dell’interprete, (assunto oramai largamente condiviso dagli interpreti), ma quello di stabilire i limiti a tale discrezionalità. In tale prospettiva, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, la regola da applicare al caso concreto, l’interpretazione giudiziale deve individuare il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza, eventualmente scrutando nelle sue eventuali zone d’ombra.

Il testo della legge, specie quando formulata, come nel caso in esame, mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria; esso, come è stato autorevolmente osservato, rappresenta il punto fermo da cui occorre muovere nell’attività interpretativa e a cui, (all’esito del combinato ricorso a tutti gli altri canoni di interpretazione) è necessario ritornare.

Ne consegue che il testo della legge costituisce, almeno nei casi come quello in esame, un limite insuperabile rispetto ad opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili.

7.1. Più in generale, non può ritenersi esistente un potere del giudice di decidere una controversia a lui sottoposta facendo diretta applicazione di un principio costituzionale (c.d unmittelbare drittwirkung), anche quando non si sia in presenza di una lacuna (e cioè quando esista una normativa di legge applicabile al caso, a meno che questa normativa non sia formulata attraverso il ricorso ad un principio o a una clausola generale).

Il che trova spiegazione nella circostanza per cui, diversamente opinando, il “bilanciamento” (del principio) effettuato dal giudice (“pesando” il principio stesso con altri “principi” che con esso appaiono interferenti) finirebbe inevitabilmente per sovrapporsi a quello contenuto nella disposizione di legge (e operato dal legislatore).

Ciò vale anche nel caso in cui il giudice ravvisi nella norma di legge ordinaria un contrasto con un principio costituzionale.

E non si tratta, come pure potrebbe apparire in via di prima approssimazione, di mettere in discussione il sistema gerarchico delle fonti del diritto, e quindi la “superiorità” del principio costituzionale rispetto alla “regola” ordinaria, ma di ribadire che la “prevalenza” del primo sulla seconda (ove sia stato accertato il contrasto) deve essere sancita da una pronuncia della Corte costituzionale che darà anche l’interpretazione qualificata del principio costituzionale e del “bilanciamento” cui esso deve essere sottoposto in confronto con altri principi.

I principi certamente operano come ratio interpretativa delle norme di rango inferiore: l’interpretazione costituzionalmente conforme (o adeguatrice) dev’essere sempre preferita, fino a quando non entri in conflitto insuperabile con il testo normativo; quando questo conflitto si verifichi, il giudice ha l’onere (ove ravvisi la persistenza del contrasto) di sollevare la questione di legittimità costituzionale.

In altre parole, fintanto che il giudice riesca ad argomentare che il “bilanciamento” di interessi da lui ritenuto “conforme a Costituzione” è realizzabile attraverso una o più regole che la disposizione di legge ordinaria consente di ricavare in via interpretativa, nulla quaestio.

Ma se, invece, questo non sia oggettivamente possibile, e dunque la norma ordinaria (secondo il significato che le si può attribuire all’esito del ricorso a tutti i criteri di interpretazione: letterale, storico, logico, teleologico, sistematico) rimanga contrastante con il principio costituzionale (come interpretato dal giudice), il giudice stesso, (che percepisca tale contrasto) non ha altra strada che quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Il rischio, altrimenti ragionando, è quello di trasformare un ordinamento “di diritto scritto”, quale formalmente continua ad essere il nostro, in qualcosa di diverso, affiancando, senza che ciò trovi supporto in una modificazione formale del sistema delle fonti, al diritto “scritto” (basato sulla legge) un diritto di fonte “giurisprudenziale” (fondato sull’equità), considerato idoneo a derogare al primo ogni qualvolta le caratteristiche del caso concreto segnalino come “ingiusto” l’esito che in base ad esso dovrebbe essere sancito.

7.2. Tali considerazioni trovano pedissequo riscontro nella giurisprudenza delle Corti superiori interne e internazionali.

Nella medesima direzione è, in primo luogo, orientata la giurisprudenza costituzionale che ha individuato nell’univoco tenore letterale della norma un limite all’interpretazione costituzionalmente conforme (Cort. cost 26 febbraio 2020, n. 32).

A non dissimili conclusioni giunge anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ricordato in proposito che, nell’applicare il diritto nazionale (in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva) il giudice nazionale deve interpretare tale diritto per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva.

Tuttavia l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (Corte di giustizia, Grande Sezione, 15 aprile 2008,C-268/06,v. sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, nonché Adeneler e a., cit., punto 110; v. anche, per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, Racc. pag. I-5285, punti 44 e 47).

Analoghe e, sotto certi profili ancora più stringenti considerazioni (in quanto relative anche alla interpretazione delle c.d. clausole generali), si rivengono nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, nella quale si legge che “Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale… il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non è fonte del diritto……. Il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello del legislatore – di organo chiamato non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema. Una pluralità di ragioni giustifica l’indicato approccio metodologico. Il rispetto del pluralismo e dell’equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell’effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore…. Non c’è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta – attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi – di quell’ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato …La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore – di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema” (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili del 30 dicembre 2022, n. 38162).

8. È sulla base di tali coordinate di fondo che deve essere esaminata la questione specifica all’esame del Collegio.

8.1. L’orientamento che esclude l’operatività del meccanismo del silenzio assenso in relazione alle fattispecie di tutela degli interessi paesaggistici, incontra, ad avviso del Collegio, obiezioni difficilmente superabili.

Esso, se già appariva poco coerente con il quadro normativo successivo all’introduzione, per effetto della richiamata riforma Madia, delle menzionate disposizioni di cui agli artt. 14- bis e 17-bis, legge n. 241 del 1990, oggi appare ulteriormente da disattendere alla luce della lettera e della ratio del novellato art. 2, comma 8-bis, legge 241 del 1990.

8.2. Prima di indagare le implicazioni che, sul tema in disamina, discendono dall’entrata in vigore di quest’ultima disposizione, il Collegio reputa necessario analizzare i dubbi che solleva la diversa opzione interpretativa.

In primo luogo, l’affermazione secondo cui la Soprintendenza, nell’esprimere il suo parere sulla proposta di autorizzazione paesaggistica, deve ignorare la compresenza di qualsiasi altro interesse pubblico, anche di analoga valenza (ad esempio la tutela dell’ambiente), non considera, ad avviso del Collegio, che il tratto qualificante dell’istituto della conferenza di servizi risiede proprio nella necessità di confrontare e comporre, mediante una dialettica paritaria, tutti gli interessi rilevanti.

8.3. Più in radice, non risulta convincente l’attribuzione alla soprintendenza, nell’ambito del procedimento finalizzato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, di un ruolo meramente consultivo. Tale dequotazione, a giudizio del Collegio, trascura il delicato equilibrio sotteso all’art. 146, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 22, che si traduce nel carattere necessariamente vincolante del parere reso dalla Soprintendenza coerentemente al riparto di funzioni legislative sancito dall’art. 117 Cost.)

In questo quadro, costituzionalmente vincolato, sarebbe quindi più coerente con le coordinate di fondo del sistema riconoscere alla Soprintendenza un ruolo propriamente co-decisorio, con la conseguenza che il procedimento in esame dovrebbe più propriamente qualificarsi come pluristrutturato.

A sostegno di questa conclusione, il Collegio ricorda che una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato aveva già in passato chiarito la natura co-decisoria del parere vincolante (Cons. Stato, sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; 15 maggio 2017, n. 2262, 17 marzo 2020, n. 1903; 16 giugno 2020, n. 3885; 5 ottobre 2020, n. 5831; 18 marzo 2021, n. 2358; 27 maggio 2021, n. 4096; sez. IV, 19 aprile 2021, n. 3145).

La natura codecisoria del parere della Soprintendenza è stata, peraltro, nettamente accentuata dalla riforma che ha interessato l’articolo 146 nel 2011, con il decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106.

Per effetto di tale modifica normativa, al fine di emendare la prassi secondo cui la regione o il comune delegato trasmettevano le pratiche relative alle domande di autorizzazione in modo automatico e senza svolgere un minimo di istruttoria, si è stabilito che la regione o il comune delegato devono trasmettere una proposta motivata alla Soprintendenza e, quindi, devono necessariamente fare un’adeguata istruttoria.

Inoltre, si è previsto che in caso di parere negativo, il preavviso di rigetto, ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, deve essere adottato dalla stessa Soprintendenza.

A tal proposito, va in generale osservato che, contrariamente all’opposto indirizzo interpretativo, la funzione consultiva si esprime esclusivamente per il tramite dei pareri obbligatori e facoltativi. In tali casi, ci si trova di fronte ad atti mediante i quali un’autorità appresta ad altra, che deve provvedere, apporti conoscitivi utili per l’adozione di un provvedimento destinato ad incidere su interessi istituzionalmente affidati alla cura dell’autorità, la quale risulta, con tali apporti, in grado di rendere l’autorità decidente idonea a soddisfare l’esigenza di adeguatezza cui ogni decisione deve sovvenire.

E ciò in quanto l’attività di consulenza ha il fine di fornire un mero sussidio alla decisione finale, consentendo di norma a chi deve agire di sostituire la propria valutazione a quella espressa dal consulente (è questo uno dei profili che consente di distinguere i pareri dagli altri atti di valutazione, che tali non sono, ad es. le valutazioni tecniche).

I pareri vincolanti, come quello che viene in esame nella specie, di contro, non possono essere disattesi dall’amministrazione. Per tale ragione, non pare possa essere negato, sulle orme della dottrina più autorevole, che, in una prospettiva sostanziale, un parere che, come quello in esame, non lasci nessuno spazio di scelta in capo all’organo di amministrazione attiva non esprime nessuna consulenza, ma pone in essere una decisione preliminare, sicché solo atecnicamente può essere definito alla stregua di «parere». Invero, anche dal punto di vista della collocazione in seno alla fattispecie procedimentale, dovrebbe concludersi che i pareri vincolanti determinano il contenuto della decisione finale, per cui bisognerebbe espungerli dal novero degli atti preparatori e ricondurli nell’ambito di quelli decisori o co-decisori. Con tutte le conseguenze del caso: in primo luogo, quella dell’imputazione degli effetti non solo all’organo o ente che emana l’atto finale ma anche al soggetto che ha espresso il parere.

8.4. Tale impostazione trova conferma, sul piano sistematico, negli artt. 16 e 17 e nell’art. 17-bis, della legge sul procedimento amministrativo, aventi rispettivamente a oggetto i pareri istruttori (e le valutazioni tecniche) e quelli decisori.

Tale distinzione, (certamente consapevole in virtù della prossimità topografica delle disposizioni richiamate) ha notevoli implicazioni sul relativo regime normativo. E in effetti, con riferimento ai pareri meramente istruttori, di cui al citato art. 17, il legislatore ha ritenuto non configurabile il silenzio assenso.

La ragione risiede, all’evidenza, nella circostanza per cui in tale caso l’autorità decidente è unica e, quindi, per definizione non indefettibile.

Di contro, nella fattispecie di cui all’art. 17-bis, come è stato icasticamente rilevato, si configura una decisione “a doppia chiave” e dunque – un’ipotesi di cogestione della funzione (c.d. decisione pluristrutturata).

In tal caso, pertanto, l’eventuale silenzio serbato dell’autorità co-decidente consolida la scelta dell’autorità procedente, che è comunque dotata di competenza (sia pure non esclusiva) in materia.

8.5. Ulteriori indici ermeneutici in favore della tesi della natura codecisoria del parere della Soprintendenza si ricavano anche dal d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), che, all’art. 11 (Semplificazioni procedimentali), comma 9, prevede espressamente che “In caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal comma 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell’articolo 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e l’amministrazione procedente provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”.

Tale disposizione è chiarissima nel qualificare il parere (semplificato) della soprintendenza come atto codecisorio ai sensi dell’art. 17-bis.

Come è stato, infatti, acutamente rilevato in dottrina, se il richiamo che tale regolamento opera, nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica semplificata, all’art. 17-bis, contrastasse con il sistema delineato a livello di legge primaria, sarebbe illegittimo, e il regolamento andrebbe disapplicato in base al principio di gerarchia delle fonti.

Ma tale esito interpretativo, pur coerente con le premesse ricostruttive da cui con l’orientamento oggetto di critica trae le mosse, non è stato sostenuto da alcuno.

8.6. Coerentemente con le considerazioni sin qui svolte, si è espresso anche il parere del Consiglio di Stato 13 luglio 2016, n. 1640 (reso su uno specifico quesito proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, su alcuni problemi applicativi dell’articolo 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241) secondo cui l’art. 17-bis si applica ai procedimenti con fase decisoria pluristrutturata e pertanto “anche ai pareri vincolanti, e non, invece, a quelli puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della legge n. 241 del 1990”.

Osserva il citato parere che, in linea di massima, gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre amministrazioni da acquisire (al di là del nomen iuris) nella fase istruttoria, mentre l’art. 17-bis fa riferimento ad atti da acquisire nella fase decisoria, dopo che l’istruttoria si è chiusa.

Il comma 1 di quest’ultima disposizione prevede, infatti, che all’amministrazione che deve esprimere l’assenso venga inviato uno schema di provvedimento, corredato dalla relativa documentazione. Proprio il riferimento allo schema di provvedimento implica, ad avviso del parere in disamina, che si sia già chiusa la fase istruttoria, dovendosi ritenere che siano proprio le risultanze dell’istruttoria a consentire all’Amministrazione procedente l’elaborazione dello schema di decisione sul quale l’Amministrazione interpellata esprimerà il proprio assenso.

L’art. 17-bis è, quindi, destinato ad applicarsi solo ai procedimenti caratterizzati da una fase decisoria pluristrutturata e, dunque, nei casi in cui l’atto da acquisire, al di là del nomen iuris, abbia valenza co-decisoria.

Il parere in esame ha anche chiarito che l’art. 17-bis non si applica nei casi in cui un’amministrazione ha un ruolo meramente formale (come nel caso dello Sportello Unico che si limita a raccogliere e trasmettere l’istanza all’Amministrazione unica decidente). In questo caso, infatti, come si è puntualmente osservato, non essendoci un’amministrazione co-decidente, il vero beneficiario del silenzio assenso sarebbe il privato, avendosi, quindi, un’ipotesi silenzio assenso nei rapporti (non endo-procedimentali) verticali con i privati (c.d. decisione monostrutturata).

La disposizione in esame richiede, pertanto, che le due Amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) condividano la funzione decisoria, nel senso che entrambe devono essere titolari di una funzione decisoria sostanziale.

9. In terzo luogo l’indirizzo restrittivo non si concilia con le lettere e con le ragioni giustificative degli artt. 14-bis e 17- bis., legge 241 del 1990.

L’art. 17- bis., testualmente recita “il silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici” opera anche nei “casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale… per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche”, con la precisazione che in siffatte ipotesi, salva diversa previsione, il termine entro il quale le amministrazioni competenti sono tenute a comunicare il proprio assenso, concerto o nulla osta è definito dalla normativa di settore, attestandosi, in mancanza, in novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’amministrazione procedente; anche in tali ipotesi, si prevede espressamente che decorso siffatto termine senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.

Il regime anzidetto si applica pertanto anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela dei beni culturali. In questi casi, «ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all’articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’amministrazione procedente», fermo restando che «decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito» (comma 3).

9.1. Alla luce di quanto riportato, riuscirebbe difficile, se non impossibile, comprendere quali sono le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale alle quali la fattispecie in esame troverebbe applicazione.

9.2. La tesi che esclude l’applicazione del silenzio assenso verticale al parere da rendere, da parte della Soprintendenza, nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica contraddice anche la ratio dell’art. 17- bis, comunemente intesa come funzionale a evitare che, ove il procedimento debba concludersi con l’adozione di una decisione pluristrutturata, la condotta inerte dell’amministrazione interpellata possa produrre un arresto del procedimento, impedendo la tempestiva adozione della determinazione conclusiva.

In tale quadro, l’istituto in esame completa, come in parte già ricordato, un’evoluzione normativa che ha progressivamente fluidificato l’azione amministrativa, neutralizzando gli effetti negativi e paralizzanti del silenzio amministrativo, dapprima nei rapporti con i privati e ora anche nei rapporti tra pubbliche amministrazioni.

Il nuovo strumento di semplificazione conferma, pertanto, la natura “patologica” che connota il silenzio amministrativo, soprattutto quando maturi nell’ambito di un rapporto orizzontale con un’altra amministrazione co-decidente.

Il meccanismo del silenzio-assenso orizzontale palesa, in altri termini, una contrarietà di fondo del legislatore nei confronti dell’inerzia amministrativa, inerzia che viene stigmatizzata al punto tale da ricollegare al silenzio dell’Amministrazione interpellata la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, ossia l’equiparazione del silenzio all’assenso con conseguente perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.

Tali avvertite esigenze non sono circoscrivibili in ragione della natura del procedimento preso in esame, imponendosi in via generalizzata (salve le eccezioni di cui all’art. 17 bis, comma 4, L. n. 241/90) per ogni forma di esercizio del pubblico potere, amministrativo o normativo, qualora il provvedimento finale presupponga una fase di co-decisione di competenza di altra Amministrazione.

A tal riguardo, risultano particolarmente significativi i passaggi argomentativi del citato parere del Consiglio di Stato nel quale si legge che “il Consiglio di Stato ritiene si possa parlare di un ‘nuovo paradigma’: in tutti i casi in cui il procedimento amministrativo è destinato a concludersi con una decisione ‘pluristrutturata’ nel senso che la decisione finale da parte dell’Amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra Amministrazione il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che rimanga inerte non esternando alcuna volontà, non ha più l’effetto di precludere l’adozione del provvedimento finale ma è, al contrario, equiparato ope legis a un atto di assenso e consente all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo. …. il silenzio assenso “orizzontale” previsto dall’art. 17-bis opera, nei rapporti tra Amministrazioni co-decidenti, quale che sia la natura del provvedimento finale che conclude il procedimento, non potendosi sotto tale profilo accogliere la tesi che, prospettando un parallelismo con l’ambito applicativo dell’art. 20 concernente il silenzio assenso nei rapporti tra privati, circoscrive l’operatività del nuovo istituto agli atti che appartengono alla categoria dell’autorizzazione, ovvero che rimuovono un limite all’esercizio di un preesistente diritto. La nuova disposizione, al contrario, si applica a ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda al suo interno una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso”.

9.4. Le medesime conclusioni si impongono, a fortiori, in relazione all’art. 14-bis, legge 241 del 1990, così come modificato con il decreto legislativo 30 giugno 2016, n. 127 (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124), che presenta un analogo meccanismo semplificatorio.

Il comma del predetto articolo 14 bis afferma (anche con riferimento alle amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico-territoriale, in relazione alle quali si prevede solo un allungamento del termine per rendere in parere) il principio per cui si considera acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero, pur partecipandovi, non abbia espresso ai sensi del comma 3 la propria posizione, ovvero abbia espresso un dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della conferenza (“Fatti salvi i casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedono l’adozione di provvedimenti espressi, la mancata comunicazione della determinazione entro il termine di cui al comma 2, lettera c), ovvero la comunicazione di una determinazione priva dei requisiti previsti dal comma 3, equivalgono ad assenso senza condizioni”).

Sul piano teleologico, la riforma dell’istituto della conferenza di servizi ha inteso, come anticipato, rimediare alle disfunzioni registrate nella prassi, prevedendo vari meccanismi di semplificazione in un’ottica di trasformazione del ruolo della semplificazione.

Del resto, a sostegno della conclusione per cui le disposizioni di cui agli artt. 14-bis e 17-bis sono animate da un’analoga ragione giustificatrice, merita di essere richiamata la decisione della Corte costituzionale n. 246/2018 ( cfr. par. 4.2.3.1.) nella quale è stato chiarito che l’art. 17- bis, sebbene collocato al di fuori degli articoli espressamente dedicati alla conferenza di servizi (artt. 14-14-quinquies), trova applicazione anche nel caso in cui occorra convocare la conferenza di servizi in quanto «il silenzio assenso di cui all’art. 17-bis opera sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi.

Nel medesimo ordine di idee si era in precedenza espresso anche il più volte richiamato parere del Consiglio di Stato 13 luglio 2016, n. 1640 secondo cui, in alternativa alla tesi secondo la quale l’art. 17-bis trova applicazione nel caso in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola Amministrazione (mentre nel caso di assensi da parte di più Amministrazioni opera la conferenza di servizi, rappresenta, in effetti, quella che fornisce il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa) si potrebbe sostenere che il silenzio assenso di cui all’art. 17-bis opera sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi.

La conferenza di servizi, ad avviso del citato parere del Consiglio di Stato, andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle Amministrazioni interpellate e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’àmbito della conferenza appositamente convocata.

10. Nemmeno sembra condivisibile l’obiezione secondo cui l’estensione del meccanismo del silenzio assenso al parere della soprintendenza si tradurrebbe in una rinuncia alla cura nel caso specifico dell’interesse assegnato alla p.a. rimasta inerte. L’obiezione, prospettata in una logica tesa ad assicurare la massima protezione dell’interesse paesaggistico non può essere accolta.

10.1. Come già rilevato dal Consiglio di Stato, nel parere n. 1640/2016 cit., il meccanismo del silenzio assenso orizzontale rinviene, sotto il profilo costituzionale, il proprio fondamento nel principio di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., letto ‘in un’ottica moderna’, che tenga conto anche dell’esigenza di assicurare il ‘primato dei diritti’ della persona, dell’impresa e dell’operatore economico rispetto a qualsiasi forma di mero dirigismo burocratico.

Nella logica del ‘primato dei diritti’, i meccanismi di semplificazione dell’azione amministrativa non vanno visti come una forma di sacrificio dell’interesse pubblico ma, al contrario, come strumenti funzionali ad assicurare una cura efficace, tempestiva e pronta dello stesso, con il minore onere possibile per la collettività e per i singoli privati. Essi trovano, quindi, un fondamento nel principio del buon andamento dell’azione amministrativa che postula anche l’efficienza e la tempestività di quest’ultima. L’introduzione di rimedi di semplificazione dissuasivi e stigmatizzanti il silenzio contribuisce, quindi, a dare piena attuazione al principio di trasparenza dell’azione amministrativa: l’arresto del procedimento non può più avvenire con un comportamento per definizione “opaco”, qual è l’inerzia.

E ciò in quanto, argomenta il citato parere, “nel tempo presente … il sistema tende a favorire la liberalizzazione e la deregolamentazione delle attività private, accompagnate da una serie di normative tese allo snellimento dell’azione amministrativa semplificando anche i rapporti tra amministrazioni, come dimostra quanto statuito nell’art. 17 bis …nei casi in cui opera il silenzio assenso, l’interesse sensibile dovrà comunque essere oggetto di valutazione, comparazione e bilanciamento da parte dell’amministrazione procedente“.

10.2. La precisazione, pur cauta e non ulteriormente sviluppata, è stata intesa da qualificata dottrina nel senso che la qualificazione ex lege in termini di silenzio assenso procedimentale dell’inerzia non sia « pienamente equipollente ad una esplicita valutazione dello schema di provvedimento in termini positivi in relazione all’interesse curato, ma abbia esclusivamente l’effetto di non precludere all’amministrazione procedente di adottare il provvedimento previa rappresentazione e ponderazione da parte della stessa amministrazione procedente dell’interesse non rappresentato dalla p.a che ne ha cura». In base a tale ricostruzione, gli interessi sensibili restano pienamente tutelati nella fase istruttoria condotta dall’amministrazione procedente che ha competenza (non esclusiva) in materia (com’è, nel caso del paesaggio, per le Regioni e gli enti locali).

Alle medesime conclusioni è giunta anche una recente sentenza della Corte costituzionale, nella quale è stato chiarito che il silenzio assenso ex art. 17 bis non riguarda la fase istruttoria del procedimento amministrativo – che rimane regolata dalla pertinente disciplina positiva – influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium; per l’effetto, l’amministrazione procedente è comunque tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito, alla stregua delle relative risultanze, ad elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’Amministrazione co-decidente.

In tale prospettiva, l’assenso del soprintendente sulla proposta di accoglimento ricevuta dall’amministrazione procedente si forma per silentium, ma ciò non esonera quest’ultima dalla necessità di concludere il procedimento con una decisione espressa (così Corte Costituzionale 160/2021).

Le esigenze di completezza dell’istruttoria, dunque, in quanto non incise dalla formazione del silenzio assenso ex art. 17 bis cit., non dovrebbero essere invocate per limitare l’applicazione del relativo istituto in quanto il silenzio assenso nei rapporti tra pubbliche amministrazioni, proprio perché ispirato ai principi di efficienza e, quindi, di buon andamento amministrativo, sollecita una migliore organizzazione delle risorse amministrative, garantendo al contempo l’effettiva protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti.

Come anticipato, si è condivisibilmente parlato, a proposito delle decisioni pluristrutturate (avendo principalmente in mente proprio la paradigmatica fattispecie dell’art.146, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 22), di procedimenti decisionali “a doppia chiave”.

Il senso di questa locuzione si comprende ove si ponga mente al fatto in tali fattispecie, una volta conclusa l’istruttoria e definito lo schema di provvedimento da porre a base della successiva fase decisoria, che occorre:

– da un lato, che l’amministrazione interpellata agisca tempestivamente, manifestando prontamente le proprie perplessità sullo schema di provvedimento ricevuto e rappresentando eventuali esigenze istruttorie o adottando espressamente il proprio avviso su quanto richiesto;

– dall’altro, che l’amministrazione procedente valuti comunque l’interesse pubblico affidato alla cura dell’Amministrazione interpellata in ipotesi rimasta inerte, assumendo, all’esito della formazione del silenzio assenso ex art. 17-bis, l. n. 241/90, una decisione conclusiva del procedimento (comunque necessaria) che tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso implicitamente acquisito.

In tale maniera si assicura, non soltanto la tempestiva adozione della decisione finale, ma anche un’adeguata protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti nell’esercizio del potere, pure in assenza di una determinazione espressa dell’amministrazione interpellata.

Coerentemente con tale conclusione, come è stato autorevolmente rilevato in dottrina, la protezione del valore paesaggistico attribuisce all’autorità tutoria non solo diritti ma anche “doveri e responsabilità”.

11. Tale elaborazione concettuale trova puntuale conferma nell’evoluzione che ha registrato l’istituto dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art.146, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 22 che pare qui utile, sulle orme di autorevole dottrina, ripercorrere al fine, in particolare, di evidenziare l’importante ruolo svolto dall’autorità competenze al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

I diversi commi del citato art. 146, disposizione centrale nell’architettura del codice dei beni culturali e del paesaggio, forniscono indicazioni sull’autorizzazione-atto, ma anche sul procedimento di controllo della proposta progettuale, ossia sulla complessa attività in cui si intersecano, entro una sequenza composta da più segmenti, competenze di livelli amministrativi diversi e si instaura una dialettica con il proponente che prepara l’emanazione del provvedimento conclusivo motivato, atto che esprime la sintesi di quanto acclarato e valutato in sede procedimentale, con attitudine a produrre l’effetto abilitativo alla trasformazione.

11.2. Storicamente, la previsione dell’obbligatorietà dell’autorizzazione paesaggistica nasce con la precisa funzione di far precedere ogni trasformazione del bene paesaggistico da un controllo amministrativo circa la compatibilità dell’intervento proposto con l’esigenza di non dispersione del valore paesaggistico che il bene esprime.

Il controllo, in una logica precauzionale, è teso alla verifica della compatibilità della trasformazione proposta con l’esigenza di preservazione dei valori paesaggistici oggetto di protezione, come indica chiaramente il comma 1 del citato art. 146.

Il procedimento di autorizzazione paesaggistica origina dall’istanza del privato, che deve contenere il progetto da realizzare e la c.d. relazione paesaggistica.

La relazione paesaggistica deve descrivere: a) lo stato attuale del bene; b) gli elementi di valore paesaggistico in esso presenti; c) gli impatti delle trasformazioni proposte (rappresentati anche attraverso simulazione dettagliata dello stato dei luoghi a seguito della realizzazione del progetto resa mediante foto modellazione realistica (rendering computerizzato o manuale), comprendente un adeguato intorno dell’area di intervento, desunto dal rapporto di intervisibilità esistente; d) i fattori di mitigazione e compensazione proposti.

Ricevuta la domanda corredata del progetto e della relazione paesaggistica, l’amministrazione procede, in via preliminare, all’identificazione del contesto entro cui dovrebbe trovare spazio la trasformazione mediante la messa a fuoco della tipologia di vincolo e dei profili valoriali meritevoli di tutela nonchè alla contestualizzazione delle ragioni del vincolo.

A tal riguardo, l’amministrazione opera quindi una operazione prognostica circa gli effetti che l’attuazione del progetto proposto (per come prospettato dalla parte istante) produrrebbe sul bene stesso e sul contesto e, di seguito, esprime una valutazione (inevitabilmente non priva di margini di opinabilità) circa la compatibilità della trasformazione con l’esigenza di tutela del bene o del paesaggio vincolato.

Nel compiere questa operazione l’amministrazione analizza il progetto in relazione ad ogni profilo rilevante: il linguaggio architettonico e formale, i colori, i materiali, gli stilemi e ad ogni carattere in grado di incidere sulla forma percepibile dell’oggetto di intervento. L’amministrazione, nell’operare il controllo, non si limita ad esprimere un giudizio sul progetto a lei sottoposto.

Deve, di contro, valutare se la soluzione proposta costituisca effettivamente l’opzione di minor impatto e, in termini collaborativi, ove siano concretamente identificabili altre ipotesi progettuali e soluzioni compositive in grado di minimizzare l’impatto, deve orientare (preferibilmente entro un dialogo endoprocedimentale ovvero con prescrizioni, etc.) al perseguimento di tale risultato.

In caso di impatti ineliminabili, suscettibili di residuare anche a valle della ricerca di soluzioni di minimizzazione, dovranno essere identificate adeguate mitigazioni ovvero, in ultima istanza, in caso di impatti non mitigabili, compensazioni efficienti (in grado cioè di operare sulle dinamiche percettive dei luoghi e non su altri versanti, con esclusione quindi di compensazioni meramente monetarie).

Quanto detto trova esplicito riscontro nell’art. 3.2. del d.P.C.M 12 dicembre 2005 (con il quale sono stati definiti i contenuti della documentazione da allegare alla relazione paesaggistica), secondo cui «Fermo restando che dovranno essere preferite le soluzioni progettuali che determinano i minori problemi di compatibilità paesaggistica, dovranno essere indicate le opere di mitigazione sia visive che ambientali previste, nonché evidenziati gli effetti negativi che non possano essere evitati o mitigati e potranno essere proposte le eventuali misure di compensazione ».

Da ciò discende che l’intervento proposto debba essere non solo compatibile con le esigenze di preservazione del bene ma debba anche rappresentare la soluzione di minor impatto nonchè garantire l’ottimalità di inserimento.

L’inserimento non deve, in altri termini, determinare alcuna compromissione del valore paesaggistico tutelato.

In tale fase, la cui dorsale è stata autorevolmente delineata in dottrina nella sequenza conoscenza-giudizio-misura, l’amministrazione opera una serie di acclaramenti, che consentono di razionalizzare il giudizio di compatibilità, limitando i margini di valutazione estetica e di decisionalità soggettiva solitamente considerati ineliminabili, tanto da costituire una sorta di marca caratteristica della funzione autorizzatoria in materia paesaggistica. Come è stato attentamente rilevato, la tendenza è nel senso di rendere i provvedimenti dell’amministrazione anche in questa materia sempre più motivati e ripetibili. A partire dalle prescrizioni d’uso (vincoli vestiti), passando per la relazione paesaggistica da redigere a cura della parte richiedente (sulla scorta di una griglia predeterminata dal citato d.P.C.M. del 2005) sino alle linee-guida approvate dalle regioni sulla base del rispettivo piano paesaggistico (come previsto dall’art. 143, c. 8, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 22 ), sono stati progressivamente esplicitati i profili da indagare (dalla puntuale identificazione del valore da salvaguardare, alla evidenziazione degli impatti, sino alle definizione delle diverse tipologie di interventi mitigatori) e sono stati resi maggiormente riconoscibili i temi su cui l’amministrazione sarà chiamata ad esprimersi, con obiettiva limitazione degli spazi per letture propriamente soggettive dei caratteri dei contesti e delle proposte progettuali.

11.3. Il comma 6 del più volte richiamato art. 146 assegna alla regione la responsabilità della funzione autorizzatoria. La regione può tuttavia delegare l’esercizio di tale funzione a province, città metropolitane, a forme associative tra enti locali (come le comunità montane), a enti parco ovvero ai comuni.

L’eventuale delega è tuttavia condizionata alla duplice dimostrazione che gli enti delegati dispongano di strutture (uffici e personale) dotati delle necessarie competenze tecnico-specialistiche («adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche» è la formula usata dal Codice) e che siano in grado di assicurare la imprescindibile differenziazione tra le attività finalizzate alla tutela paesaggistica e quelle in materia urbanistico-edilizia.

In talune regioni (ad es., Lombardia: art. 81,1. rg. n. 12/2005) entro il termine dei quaranta giorni è prevista l’acquisizione di un parere da parte di una commissione locale, composta, secondo quanto previsto dall’art. 148, c. 2, Codice («Le commissioni sono composte da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio»), da soggetti con specifici e comprovati requisiti di competenza.

Terminata l’istruttoria e, comunque, allo spirare del termine di quaranta giorni, l’amministrazione trasmette alla soprintendenza la documentazione presentata dall’interessato, accompagnandola con una relazione tecnica illustrativa nonché con una proposta di provvedimento. A tal fine l’amministrazione redige, all’ esito delle proprie valutazioni, non una mera sintesi delle risultanze istruttorie (comparabile a quella che ai sensi del richiamato art. 6 1. n. 241/1990 compila il responsabile del procedimento all’atto di trasferire il fascicolo istruttorio all’organo decidente) bensì un vero e proprio progetto di decisione, che viene sottoposto nella sua articolazione (comprensiva del segmento istruttorio e di quello decisorio) alle valutazioni della Soprintendenza.

A questo punto, come già rammentato, la Soprintendenza interpellata può, agendo tempestivamente, manifestare le proprie perplessità sullo schema di provvedimento ricevuto, rappresentando eventuali esigenze istruttorie ovvero adottando espressamente il proprio avviso su quanto richiesto.

In tale caso, la natura vincolante del parere garantisce che lo Stato mantenga un ruolo determinante rispetto al merito della procedura autorizzatoria;- dall’altro, nell’ipotesi in cui l’amministrazione interpellata sia rimasta inerte, l’amministrazione procedente valuta comunque l’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione interpellata, assumendo, all’esito della formazione del silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/90, una decisione conclusiva del procedimento (comunque necessaria) che tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso implicitamente acquisito. In tale maniera si assicura non soltanto la tempestiva adozione della decisione finale, ma anche un’adeguata protezione di tutti gli interessi pubblici coinvolti nell’esercizio del potere, pure in assenza di una determinazione espressa dell’Amministrazione interpellata.

Nell’analisi, appena svolta, delle singole fasi di cui si compone il procedimento di autorizzazione paesaggistica trova, pertanto, conferma l’assunto per cui, nei casi in cui opera il silenzio assenso, l’interesse sensibile dovrà comunque essere oggetto di valutazione, comparazione e bilanciamento da parte dell’amministrazione procedente.

12. In tale quadro, nemmeno può considerarsi decisiva, per giungere a diverse conclusioni, l’obiezione che fa perno sulla considerazione per cui, applicando lo schema del silenzio assenso al parere paesaggistico della Soprintendenza, verrebbe sacrificato il principio della competenza (prefigurato dall’art. 117 Cost., c. 1, lett. s, che assegna, nell’interpretazione datane dalla Corte costituzionale:, allo Stato la competenza ad esercitare la funzione di tutela) inibendo alla Soprintendenza di tutelare l’interesse paesaggistico successivamente alla scadenza del termine entro il quale avrebbe dovuto rendere il proprio parere.

12.1. Contro tale obiezione, è agevole replicare che il legislatore, attraverso gli istituti di semplificazione in esame (17-bis e 14-bis) ha cercato di raggiungere un delicato punto di equilibrio tra la tutela degli interessi sensibili e la, parimenti avvertita, esigenza di garantire una risposta (positiva o negativa) entro termini ragionevoli all’operatore economico, che, diversamente, rimarrebbe esposto al rischio dell’omissione burocratica.

In tale composito quadro, la competenza della Soprintendenza resta garantita sia pure entro termini stringenti entro i quali deve esercitare la propria funzione.

12.2. Cionondimeno, in caso di mancata attivazione entro i termini, resta ferma la possibilità della Soprintendenza di poter agire in autotutela secondo il principio del contrarius actus (che la giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni richiamato con riferimento all’autotutela sui provvedimenti adottati all’esito della conferenza di servizi) in base al quale l’eventuale esercizio dell’autotutela deve seguire il medesimo procedimento d’emanazione dell’atto che si intende rimuovere o modificare. Questo significa che l’amministrazione autrice dell’assenso silenzioso non potrà limitarsi ad esprimere il proprio sopravvenuto dissenso, ma dovrà sollecitare l’avvio del procedimento di riesame, condotto dall’amministrazione procedente, secondo le regole dell’art. 21-nonies o 21-quinquies. evidenziando le ragioni di illegittimità o le ragioni che giustificherebbero la revoca dell’atto, nell’ottica del principio di leale collaborazione tra Amministrazioni. Tale conclusione trova, del resto, con riferimento alla fattispecie della conferenza di servizi, un riconoscimento espresso nell’art. 14-quater, comma 2, l. 241 del 1990 a mente del quale “le amministrazioni i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di conclusione della conferenza possono sollecitare con congrua motivazione l’amministrazione procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza, determinazioni in via di autotutela ai sensi dell’articolo 21 novies. Possono altresì sollecitarla, purché abbiano partecipato, anche per il tramite del rappresentante di cui ai commi 4 e 5 dell’articolo 14 ter, alla conferenza di servizi o si siano espresse nei termini, ad assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi dell’articolo 21 quinquies”. Analoga possibilità è stata, del resto, ritenuta ammissibile, con riferimento all’art. 17 bis (che pure non prevede a tal riguardo una espressa previsione), dal citato parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 890 del 7 aprile 2016) sulla base dei principi generali in materia di autotutela.

12.3. Le conclusioni fin qui raggiunte hanno, del resto, riscosso nel tempo un diffuso apprezzamento sia in dottrina che in giurisprudenza.

L’applicazione del silenzio assenso orizzontale al parere paesaggistico è stata espressamente affermata dal Ministero dei Beni culturali con le circolari 10 novembre 2015, prot. n. 27158 e 20 luglio 2016, prot. 21892.

In linea con le considerazioni sinora svolte, un inquadramento del tutto coerente, sul piano sistematico, della problematica in esame l’aveva data proprio l’importante, e più volte menzionato, parere del Consiglio di Stato, parere commissione speciale, 13 luglio 2016, n. 1640, cit.), secondo cui “La formulazione testuale del comma 3 consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini. Sul punto la formulazione letterale del comma 3 è chiara e non lascia spazio a dubbi interpretativi: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso.La giurisprudenza costituzionale richiamata nella richiesta di parere, del resto, non ha sancito un principio di insuperabile incompatibilità tra silenzio assenso e interessi pubblici sensibili, limitandosi ad esaminare la questione con riferimento ai rapporti tra legislazione regionale e legislazione statale. La Corte costituzionale ha, in altri termini, ritenuto preclusa alla legislazione regionale la possibilità di introdurre ipotesi di silenzio assenso (ulteriori rispetto a quelle previste dalla legislazione statale) in procedimenti diretti alla tutela di interessi sensibili. Al contrario, le richiamate sentenze della Corte costituzionale non sembrano di per sé impedire alla potestà legislativa statale la previsione di casi di silenzio assenso anche in materie sensibili.

In relazione al profilo temporale va, peraltro, evidenziato che la locuzione “termine diverso” adoperata dalla legge autorizza la conclusione per cui, in materia di interessi sensibili, restano in vigore e prevalgono non solo le norme che prevedono termini più lunghi (rispetto al termine di novanta giorni), ma anche quelle che prevedono termini speciali più brevi.

L’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili dovrà, invece, essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto. In tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale, troverà applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che esclude dal suo campo di applicazione gli interessi sensibili). Come si evidenzierà nel prosieguo, in caso di richiesta presentata dal privato, l’applicazione dell’art. 17-bis è esclusa senza che rilevi la circostanza che la richiesta sia presenta direttamente dal privato o da questi per il tramite dello sportello unico.

Diverso è il caso in cui il silenzio assenso è escluso in virtù di disposizioni eurounitarie. Il principio di primazia del diritto dell’Unione Europea in tali casi impone – a prescindere, peraltro, dalla natura “sensibile” o “primaria” dell’interesse pubblico tutelato – l’applicazione del silenzio assenso che risulti incompatibile con puntuali disposizioni comunitarie che prevedono l’assenso espresso Sotto tale profilo, si evidenzia, tuttavia, che il comma 4 dell’art. 17-bis, laddove esclude l’applicazione dei precedenti commi “nei casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedano l’adozione di provvedimenti espressi”, risulta, da una parte, superflua, dall’altra, incompleta.

Sia pur giustificata dall’esigenza di assicurare (con una previsione di chiusura) la compatibilità comunitaria del nuovo meccanismo di semplificazione, la disposizione è scarsamente utile in quanto l’inapplicabilità della norma nazionale in presenza di disposizioni eurounitarie contrastanti già si impone in ragione del principio di primazia del diritto dell’Unione europea e non richiede previsioni espresse da parte del legislatore nazionale.

D’altro canto, va precisato che il limite all’applicabilità della norma derivante da un eventuale contrasto con il diritto dell’Unione Europea va inteso in senso ampio, risultando, ad esempio, ostativa all’applicazione della norma anche la sua contrarietà con le sentenze rese dalla Corte di Giustizia. Occorre, a tal proposito, ricordare che le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia hanno la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate: la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, dunque, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto (in tal senso, è costante la giurisprudenza comunitaria: cfr. Corte Giust., 3 febbraio 1977, in causa C-52/76, Benedetti c. Munari F.lli sas, in Racc. 1977, 163, e 5 marzo 1986, in causa 69/85, Wünsche Handelgesellschaft Gmbh& Co. c. Repubblica Federale della Germania, in Racc., 1986, 947

La soluzione preferita dal Collegio trova, infine, conferma anche in ulteriori precedenti del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2022, n. 255; idem, sez. IV, 14 luglio 2020, n. 4559; idem Sez. VI, 1 ottobre 2019, n. 6556)

13. Ma, anche a volere prescindere dagli assorbenti rilievi in precedenza formulati, il definitivo superamento dell’indirizzo interpretativo contrario all’applicazione del silenzio assenso orizzontale al parere paesaggistico, a ben vedere, è stato formalmente sancito dalla recente modifica apportata all’articolo 2 della legge n. 241 del 1990 dall’articolo 12, comma 1, lett. a), n. 2), del decreto-legge n. 76 del 2020, che ha introdotto il nuovo comma 8-bis, in base al quale “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1 …,ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’art. 14 ter, comma 7… sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.

A tal riguardo, vale la pena di precisare che la fattispecie oggetto della criticata decisione del Consiglio di Stato n. 2640/2021 è antecedente all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 2, comma 8-bis, L. n. 241/1990.

13.1. La lettera di tale disposizione, riferendosi espressamente alle fattispecie del silenzio maturato nel corso di una conferenza di servizi ex art. 14-bis e nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 17-bis, è inequivocabile nell’affermare il principio (che non ammette eccezioni) secondo cui le determinazioni tardive sono irrilevanti in quanto prive di effetti nei confronti dell’autorità competente, e non soltanto privi di carattere vincolante.

Da ciò discende che non c’è più spazio, alla luce del novum normativo in disamina, per tentare la strada della sopravvivenza del c.d. silenzio-devolutivo, stante la formulazione volutamente onnicomprensiva della nuova norma.

Come già ricordato, il testo della legge, specie quando formulata, come nel caso in esame, mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria e costituisce un limite insuperabile rispetto a opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili.

13.2. Sul piano dell’intentio legis, la previsione è, peraltro, espressione della volontà politico-legislativa di superare le discussioni, registratesi nel previgente quadro normativo, in ordine al vizio che affliggeva il provvedimento tardivo.

13.3. Sotto il profilo teleologico, infine, la locuzione utilizzata dal legislatore mira a chiarire definitivamente che l’organo che si pronuncia tardivamente ha perso il potere di decidere: dunque il suo atto, adottato in carenza di potere relativamente ad uno specifico progetto, è privo di effetti nell’ordinamento amministrativo.

14. Dopo avere esaminato tutti gli argomenti che, ad avviso del Collegio, depongono per l’accoglimento della tesi che estende al procedimento di autorizzazione paesaggistica il meccanismo del silenzio assenso orizzontale, occorre, q questo punto, farsi carico di valutare la tenuta costituzionale di tale itinerario interpretativo.

A tal riguardo, mette conto rimarcare che la tesi che il Collegio non condivide afferma, come anticipato, espressamente il principio il principio della primazia, assoluta ed escludente, dell’interesse alla tutela del paesaggio, anche rispetto ad altri interessi di rilevanza costituzionale.

Il parametro costituzionale evocato a sostegno dell’assunto è quello di cui all’art. 9 della Costituzione.

In tale prospettiva ermeneutica, il principio racchiuso a quest’ultima disposizione consentirebbe di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. Conseguentemente, anche laddove il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza di servizi, essa non comporta un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica, perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale.

14.1. Tale impostazione concettuale non può essere condivisa.

Preliminarmente il Collegio osserva che l’assunto di fondo da cui muove l’orientamento in esame trova una significativa smentita già a livello di legge ordinaria, dal cui esame si ricava che altri interessi pubblici, al pari di quello paesaggistico, sono espressamente e ripetutamente indicati dalla l. n. 241/1990, come parimenti soggetti ad un regime, sostanziale e procedimentale, speciale e “privilegiato”.

In particolare dall’esame delle varie disposizioni della legge generale sull’azione amministrativa, emerge la equiordinazione, della tutela del paesaggio e di quella dell’ambiente, quali interessi di rilievo costituzionale, a tutela rinforzata.

Come è stato attentamente rilevato in dottrina, anche in ragione di tale equiordinazione, il legislatore ha assegnato alla conferenza di servizi la funzione precipua di costituire la sede di rappresentazione, prima, e di composizione, poi (mediante le necessarie modifiche e mediazioni), degli interessi pubblici – compresi in primo luogo quelli sensibili o “superprimari” – e privati che caratterizzano le specifiche fattispecie sulle quali la p.a. è chiamata a decidere.

La tesi secondo cui, finanche nell’ambito del confronto aperto e paritario che caratterizza la conferenza di servizi, la Soprintendenza non possa e non debba minimamente curarsi degli altri interessi pubblici a rilevanza costituzionale, rappresentati in conferenza, contrasta, come pure è stato sostenuto, anche con il dovere, di leale collaborazione tra amministrazioni e con la finalità compositiva sottesa al coordinamento amministrativo tra pari.

14.2. Ma soprattutto, l’impianto di fondo sotteso a tale ricostruzione incontra una netta smentita nelle coordinate poste sul tema dalla più recenti giurisprudenza costituzionale, la quale, a partire dalla rilevantissima decisione della Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, (che ha affrontato uno dei “leading case” di diritto ambientale più celebri in Italia: quello dell’acciaieria allora di proprietà dell’ILVA S.p.a., sita a Taranto) predica con costanza il principio del necessario bilanciamento tra valori, o interessi pubblici, “primari” o “prioritari”.

Ad avviso della Consulta, infatti, l’ambiente, la salute umana e il patrimonio culturale sono per pacifica giurisprudenza costituzionale, amministrativa, penale e civile, nonché in virtù di espressa previsione costituzionale e di legge ordinaria, valori, o interessi pubblici, primari.

Tuttavia, tale qualificazione non legittima un primato astratto, assoluto e incondizionato in un’ipotetica scala gerarchica. In tale rinnovata prospettiva ermeneutica, nessun valore o diritto può prevalere in modo radicale e occorre invece individuare un punto di equilibrio che, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza.

14.3. Con particolare riferimento agli interessi ambientali, in particolare di quelli connessi al contrasto al cambiamento climatico, questa innovativa impostazione trova oggi un fondamento costituzionale espresso nel nuovo comma 3 dell’art. 9 della Costituzione (legge costituzionale n. 1 del 2022), che introduce, nell’ambito dei principi fondamentali enunciati nella Costituzione – il principio di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.

La citata riforma recepisce formalmente il principio, già elaborato dal diritto vivente, per cui, oltre alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione, richiamato dal secondo comma dell’art. 9 Cost. si attribuisce pertanto alla Repubblica anche la tutela di tali ulteriori aspetti.

14.4. Nella medesima direzione è orientata anche una recente decisione del Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167 – secondo cui “Negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i “diritti” (sentenza della Corte cost. n. 85 del 2013), anche per gli “interessi” di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Costituzione garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca. La primarietà di valori come la tutela del patrimonio culturale o dell’ambiente implica che gli stessi non possano essere interamente sacrificati al cospetto di altri interessi (ancorché costituzionalmente tutelati) e che di essi si tenga necessariamente conto nei complessi processi decisionali pubblici, ma non ne legittima una concezione “totalizzante” come fossero posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, deve essere ricercato – dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’Amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo – secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza”.

14.5. Nemmeno è possibile ricavare dalla giurisprudenza costituzionale un principio di insuperabile incompatibilità tra silenzio assenso e interessi pubblici sensibili.

Come è stato sul punto è esattamente osservato, la giurisprudenza costituzionale si è limitata “ ad esaminare la questione con riferimento ai rapporti tra legislazione regionale e legislazione statale” e sancendo la preclusione per il legislatore regionale di introdurre ipotesi di silenzio assenso ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge statale nei procedimenti diretti alla tutela di interessi sensibili (Cons. St. comm. spec., 13 luglio 2016, n. 1640; Cons. St., Ad. Plen., 27 luglio 2016, n. 17 cit.).

14.5. Decisiva, ad avviso del Collegio, nell’affermare la conformità a costituzione dell’applicazione del silenzio assenso orizzontale al procedimento di autorizzazione paesaggistica, è la già menzionata decisione della Corte costituzionale 22 luglio 2021, n. 160.

Questa pronuncia, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 6, della legge della Regione Siciliana 6 maggio 2019, n. 5 (Individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), che aveva introdotto il silenzio-assenso c.d. verticale (ovvero nel rapporto con il privato) sulla domanda di autorizzazione paesaggistica, formula delle argomentazioni significativamente a sostegno della compatibilità costituzionale dell’applicazione del silenzio assenso orizzontale agli interessi paesaggistici.

Afferma, infatti, la Consulta che il silenzio assenso previsto dalla norma regionale oggetto di scrutinio assume una valenza del tutto diversa rispetto a quanto disciplinato all’art. 11, comma 9, del d.P.R. n. 31 del 2017 (ovvero allo schema del silenzio assenso c.d. orizzontale).

Non si tratta infatti nel caso oggetto di scrutinio, argomenta la Corte Costituzionale, “di silenzio assenso endoprocedimentale (rectius orizzontale tra pubbliche amministrazioni), destinato a essere seguito comunque da un provvedimento conclusivo espresso dell’amministrazione procedente, ma di un silenzio assenso provvedimentale, destinato a tenere luogo dell’autorizzazione paesaggistica richiesta, secondo lo schema generale dell’art. 20 della stessa legge n. 241 del 1990…

…l’assenso del soprintendente sulla proposta di accoglimento ricevuta dall’amministrazione procedente si forma per silentium, ma ciò non esonera quest’ultima dalla necessità di concludere il procedimento con una decisione espressa, come si desume, del resto, dall’ultima parte del citato comma 9 dell’art. 11 del d.P.R. n. 31 del 2017, secondo cui l’amministrazione procedente, una volta formatosi il silenzio assenso sul parere del soprintendente, «provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica». Ciò, in linea con il divieto stabilito all’art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990, che esclude radicalmente l’applicazione del silenzio assenso nei rapporti verticali tra privati e pubbliche amministrazioni preposte alla tutela dei cosiddetti “interessi sensibili”, tra cui, per quanto qui rileva, quelli relativi agli atti e ai procedimenti riguardanti «il patrimonio culturale e paesaggistico».”.

Proprio muovendo dalla distinzione con il silenzio assenso orizzontale (di cui, evidentemente, la Consulta assume la conformità a costituzione), la decisione in disamina giunge a censurare la disposizione regionale sottoposta al suo esame, la quale, introducendo una surrettizia forma di silenzio assenso verticale, contrasta con il principio generale stabilito all’art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990, che vieta la formazione per silentium del provvedimento conclusivo nei procedimenti implicanti la tutela di “interessi sensibili”.

Tali importanti considerazioni di sistema consentono, pertanto, di superare i potenziali dubbi di incostituzionalità della normativa che applica anche all’autorizzazione paesaggistica lo schema semplificatorio del silenzio assenso orizzontale.

In conclusione, alla luce delle complessive considerazioni che precedono, il parere della Soprintendenza reso tardivamente nell’ambito di una conferenza di servizi è tamquam non esset.

Dal che discende il respingimento dell’appello con conseguente conferma della sentenza impugnata

La complessità delle questioni giuridiche dedotte in giudizio giustifica l’equa compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, lo respinge nei sensi di cui in motivazione.

Compensa integralmente tra le parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 giugno 2023 con l’intervento dei magistrati: