FATTO E DIRITTO
1. Viene in decisione l’appello proposto dal signor R.P.C. per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il T.a.r. per la Sardegna ha dichiarato inammissibile il ricorso/reclamo diretto contro il provvedimento adottato in data 10 aprile 2014 del commissario ad acta, nominato per l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato n. 2454 del 2013.
2. Il T.a.r. ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso riscontrando la violazione del termine di sessanta giorni, previsto dall’art. 114, comma 6, c.p.a., ai sensi del quale “avverso gli atti del commissario ad acta le parti possono proporre innanzi al giudice dell’ottemperanza reclamo che è depositato nel termine di sessanta giorni, previa notifica ai contro interessati”.
Nel caso di specie, ad avviso del T.a.r., tale termine non è stato rispettato in quanto:
– la notifica del provvedimento del commissario ad acta, assunto il 10 aprile 2014, è avvenuta, per espressa ammissione in ricorso, il 21 aprile 2014;
– il deposito del ricorso al T.a.r è avvenuto solo in data 4 luglio 2014, quindi oltre il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 114, comma 6, c.p.a.
3. L’appellante contesta la sentenza di primo grado lamentando, in particolare, la violazione dei principi affermati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con la sentenza n. 2 del 2013.
In base a tali principi, il giudice dell’ottemperanza, in quanto giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono e che in esso trovano il proprio presupposto, ha il potere di disporre la conversione dell’azione (da azione di ottemperanza ad ordinaria azione di annullamento) per la riassunzione del giudizio dinnanzi al giudice competente per la cognizione, qualora riscontri che la domanda proposta sia diretta a far valere non la nullità del provvedimento per violazione o elusione del giudicato, ma autonomi vizi di illegittimità dell’atto da far valere, appunto, con l’ordinario rito di cognizione.
Secondo l’appellante, infatti, nel caso di specie il ricorso proposto avrebbe dovuto essere qualificato non quale mero reclamo ai sensi dell’art. 114, comma 6, c.p.a. ma come ordinario ricorso di annullamento. Ciò in quanto il giudicato non conteneva indicazioni vincolanti e puntuali e, pertanto, il commissario ad acta, in assenza di vincoli specifici ha esercitato un vero e proprio potere amministrativo come tale sindacabile in sede di impugnazione ordinaria.
4. L’appello non merita accoglimento.
4.1. Secondo la tesi dell’appellante, l’art. 114, comma 6, c.p.a. che individua nel “reclamo”, da depositare, previa notifica agli interessati, nel termine di sessanta giorni, lo strumento processuale per contestare i provvedimenti adottati dal commissario ad acta, troverebbe applicazione solo nel caso in cui il commissario ad acta sia stato nominato per l’esecuzione di un giudicato che contiene indicazioni puntuali e specifiche (e di conseguenza il commissario sia chiamato a svolgere un’attività prevalentemente di natura esecutiva); nella diversa ipotesi nella quale, invece, il giudicato contiene indicazioni generiche o si limita, come nel caso di specie, a prevedere solo un obbligo di provvedere senza predeterminare in tutto o in parte il contenuto del provvedimento da adottare, il commissario ad acta verrebbe in considerazione come soggetto titolare di un potere amministrativo in senso proprio e, pertanto, i suoi atti andrebbero impugnati, nell’ordinario termine di decadenza, con l’azione ordinaria di annullamento, davanti al giudice della cognizione. Il giudice dell’ottemperanza, erroneamente investito di un reclamo avverso un provvedimento che, invece, avrebbe dovuto essere impugnato nelle forme ordinarie dovrebbe, pertanto, applicando un principio analogo a quello sancito dell’Adunanza plenaria nella sentenza n. 2 del 2013, disporre la conversione dell’azione e consentire la riassunzione del ricorso dinnanzi al giudice della cognizione.
4.2. Questa tesi, sebbene in parte rispecchi un orientamento interpretativo sostenuto da una parte della dottrina e della giurisprudenza nel dibattito sulla natura del commissario ad acta anteriormente all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (la c.d. teoria mista secondo cui il commissario ad acta è organo ausiliario del giudice oppure organo straordinario dell’amministrazione a seconda dell’ampiezza, minore o maggiore, dello spazio che il giudicato lascia alla sua azione), non può essere più condivisa dopo l’entrata in vigore del Codice.
La scelta del Codice, quale chiaramente si desume dall’univoca formulazione dell’art. 114, comma 6, è stata, infatti, quella di qualificare il commissario ad acta quale ausiliario del giudice e di ricondurre, quindi, alla giurisdizione “esecutiva” l’impugnazione dei suoi atti, senza che rilevi la distinzione fondata sulla sussistenza o meno di margini di discrezionalità lasciati dal giudicato.
4.3. La natura di ausiliario del giudice trova conferma, oltre che nell’art. 114, comma 6, anche nell’art. 21, che definisce espressamente in tali termini la figura del commissario ad acta e conseguentemente, prevede, la possibilità che possa essere ricusato dalle parti per i motivi indicati nell’art. 51 c.p.c.
4.4. Questa conclusione (e il conseguente definitivo superamento della teoria mista) è ulteriormente avvalorata anche dalla modifica recata dal c.d. primo correttivo (d.lgs. n. 195 del 2001) al comma 6, primo periodo, dell’art. 114 c.p.a., consistente nell’espunzione dell’aggettivo “esatta” riferito all’ottemperanza: per effetto della elisione, il giudice dell’ottemperanza “conosce” oggi “di tutte le questioni relative all’ottemperanza”. Come è stato ben evidenziato in dottrina, la ratio della modifica apportata può identificarsi nella intenzione di chiarire il superamento della teoria mista e di concentrare dinnanzi al giudice dell’ottemperanza ogni questione concernente gli atti commissariali, ancorché i vizi che vengano dedotti non si identifichino con i profili di contrasto rispetto alle pregresse statuizioni giurisdizionali (in giurisprudenza cfr. C.d.S., Sez. VI, 14 febbraio 2012, n. 709).
5. Il reclamo, quindi, è l’unico mezzo processuale che l’ordinamento consente (almeno per chi è stato parte del giudizio conclusosi con il giudicato) per contestare gli atti del commissario ad acta, a prescindere dalla maggiore o minore ampiezza della discrezionalità di cui dispone nell’esecuzione del giudicato.
La proposizione del reclamo a sua volta richiede, come correttamente rilevato dal T.a.r., il rispetto del termine di sessanta giorni previsto dall’art. 114, comma 6, c.p.a. per il deposito, previa notifica ai controinteressati.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono l’appello deve, pertanto, essere respinto.
7. La novità della questione giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.