ORDINANZA
sul ricorso in opposizione proposto da Gorla Alessandra, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Maurizio Cossa Majno Di Capriglio, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli, 180; Messina Giovanni;
avverso il decreto presidenziale
n. 563 in data 19 aprile 2013 che ha dichiarato estinto per perenzione il giudizio
in relazione al ricorso numero di registro generale 5198 del 2006, proposto da:
Gorla Alessandra, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Sanino, Maurizio Cossa Majno Di Capriglio, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli, 180; Messina Giovanni;
contro
Contestabile Maria Luigia, Nardelli Silvano, rappresentati e difesi dagli avv. Carlo Sarasso, Marcello Corradi, con domicilio eletto presso Marcello Corradi in Roma, Via Baldo degli Ubaldi,250;
nei confronti di
Comune di Verrua Savoia, rappresentato e difeso dagli avv. Andrea Manzi, Antonio Finocchiaro, con domicilio eletto presso Andrea Manzi in Roma, Via Federico Confalonieri, 5;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PIEMONTE – TORINO: SEZIONE I n. 01877/2006, resa tra le parti, concernente permesso di costruire;
Visto il decreto presidenziale n.563 del 2013;
visto il ricorso in opposizione a tale decreto, notificato il 4 luglio 2013;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2014 il Cons. Carlo Deodato e uditi per le parti gli avvocati Sanino, Corradi, e Salvatore Di Mattia per delega di Andrea Manzi;
Visti gli artt. 85, co. 4, 5, e 6 e 87, co. 3, cod. proc. amm.
FATTO
Con la sentenza n.1877 del 2006, il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte, in accoglimento del ricorso proposto dai Sigg.ri Maria Luigia Contestabile e Silvano Nardelli, annullava il permesso di costruire n.67 del 30 dicembre 2004 e l’autorizzazione sanitaria del 27 dicembre 2005 rilasciati dal Comune di Verrua Savoia in favore dei controinteressati Sigg.ri Alessandra Gorla e Giovanni Messina per la realizzazione e l’esercizio dell’attività di allevamento di tredici cani nell’immobile di loro proprietà, giudicandoli viziati da difetto di motivazione in ordine al rispetto della distanza delle industrie insalubri dalle abitazioni prescritta dall’art.216 r.d. 27 luglio 1934, n.1265.
Avverso la predetta decisione proponevano appello i Sigg.ri Gorla e Messina, contestando la correttezza della statuizione gravata e domandandone la riforma.
Si costituiva in giudizio il Comune di Verrua Savoia, aderendo alle deduzioni svolte dagli appellanti e concludendo per la riforma della decisione appellata.
Resistevano i Sigg.ri Contestabile e Nardelli, contestando la fondatezza dell’appello, proponendo appello incidentale condizionato avverso la reiezione del secondo motivo del ricorso di primo grado e concludendo per la conferma della sentenza impugnata, in ipotesi con diversa motivazione.
Con ordinanza n.3971, adottata nella camera di consiglio del 28 luglio 2006, veniva sospesa l’esecutività della sentenza appellata.
Con decreto presidenziale n.563 del 19 aprile 2013 il ricorso veniva dichiarato perento ai sensi dell’art.85 c.p.a.
Gli appellanti proponevano opposizione avverso il predetto decreto, con atto del 2 luglio 2013, deducendo, in sintesi, l’invalidità (nei termini meglio chiariti infra) della comunicazione dell’avviso di perenzione all’indirizzo di posta elettronica certificata (d’ora innanzi: PEC) del difensore, chiedendone la revoca e domandando la fissazione dell’udienza di merito.
Il Comune di Verrua Savoia aderiva alle conclusioni degli opponenti, mentre gli appellati invocavano la reiezione dell’opposizione al decreto di perenzione.
Con ordinanza n.4211 del 6 agosto 2014 la quarta sezione rimetteva all’Adunanza Plenaria la questione, di seguito meglio illustrata, della validità della comunicazione dell’avviso di perenzione tramite PEC al difensore degli appellanti.
Il ricorso veniva trattenuto in decisione alla camera di consiglio del 19 novembre 2014, dinanzi all’Adunanza Plenaria.
DIRITTO
1.- La questione rimessa alla delibazione dell’Adunanza Plenaria dalla quarta sezione può essere sintetizzata nel problema della ritualità e, quindi, della validità della comunicazione dell’avviso di perenzione effettuata tramite PEC a un difensore che aveva omesso di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica nel primo atto difensivo.
Per una migliore e più compiuta comprensione di tutti gli aspetti della questione così riassunta, occorre, tuttavia, procedere a una preliminare ricognizione degli elementi di fatto del caso concretamente controverso e a una rassegna della disciplina normativa di riferimento, alla cui stregua dev’essere giudicata la validità del decreto di perenzione impugnato.
2.- Principiando dalla ricostruzione della situazione di fatto, si deve rammentare che nel ricorso in appello del 25 maggio 2006 non era stato indicato l’indirizzo di posta elettronica dei difensori dei ricorrenti, che la segreteria della quarta sezione aveva provveduto a comunicare il 13 luglio 2012 tramite PEC a uno dei difensori degli appellanti l’avviso di perenzione ultraquinquennale previsto dall’art.82 c.p.a., che nel termine prescritto da quest’ultima disposizione non era stata presentata nuova istanza di fissazione di udienza, che il ricorso era stato dichiarato perento con decreto presidenziale del 19 aprile 2013, che in data 2 luglio 2013 gli appellanti avevano presentato opposizione al predetto decreto, sulla base dell’assunto dell’omessa ricezione di un valido avviso, e che con ordinanza del 6 agosto 2014 la quarta sezione, riscontrando un contrasto giurisprudenziale sulla questione della validità della comunicazione via PEC a un difensore che aveva omesso l’indicazione del proprio indirizzo PEC nel primo atto difensivo, siccome pertinente ad un procedimento iniziato prima dell’entrata in vigore del c.p.a., ne ha rimesso la delibazione e la soluzione all’Adunanza Plenaria.
Occorre, ancora, precisare che non risultano contestati, in fatto, sia la correttezza dell’indirizzo PEC al quale era stato inviato l’avviso, sia l’avvenuta ricezione del messaggio contenente la comunicazione prevista dall’art.82 c.p.a.
3.- Procedendo alla definizione del sistema di regole che integra il paradigma di legalità del decreto di perenzione opposto dagli appellanti, appare utile seguire un criterio cronologico, nell’indicazione della sequenza delle diverse disposizioni intervenute a disciplinare la materia delle comunicazioni digitali degli atti processuali, riservando all’analisi di cui infra l’identificazione dei criteri ermeneutici di risoluzione delle antinomie o delle aporie registrabili all’esito di tale rassegna.
L’art.16, comma 4, del d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 (Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3) ha espressamente escluso dall’ambito applicativo della disciplina contestualmente introdotta l’uso “degli strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo penale, nel processo amministrativo, nel processo tributario e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, per i quali restano ferme le specifiche disposizioni normative”.
Gli artt. 45 e 48 del d.lgs. 7 marzo 2005, n.82 (codice dell’amministrazione digitale) hanno regolato gli effetti giuridici delle comunicazioni via PEC.
L’art.136 del codice di procedura civile, per come modificato dalla legge 28 dicembre 2005, n.263, ha ammesso lo strumento della posta elettronica quale modalità di trasmissione delle comunicazioni di cancelleria.
L’art.16 (commi 7-9) del d.l. 29 novembre 2008, n. 185 ha imposto ai professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato e alle pubbliche amministrazioni di dotarsi di un indirizzo PEC e ha stabilito che le comunicazioni tra di essi possono essere inviate tramite PEC “senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l’utilizzo” (art.16, comma 9, d.l. cit.).
L’art.136 del c.p.a. (come modificato dall’art.1 d.lgs. n.195 del 2011, decreto correttivo del codice) ha obbligato i difensori a indicare nel ricorso o nel primo atto difensivo un indirizzo PEC, prevedendo espressamente una presunzione di conoscenza delle comunicazioni trasmesse allo stesso.
L’art.2, comma 6, dell’Allegato 2 al c.p.a. ha previsto che la segreteria effettua le comunicazioni alle parti ai sensi dell’art.136 o, altrimenti, nelle forme previste dall’art.45 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.
L’art.16 del d.l. 18 ottobre 2012, n.179 ha disciplinato compiutamente le comunicazioni e le notificazioni nel processo civile prevedendo l’utilizzo della PEC quale modalità esclusiva di trasmissione degli atti.
L’ art. 16-ter (Pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni) del d.l. 18 ottobre 2012, n.179, inserito dall’art. 1, comma 19, n. 2), della legge 24 dicembre 2012, n. 228, ha previsto che “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, dall’articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”.
L’art.7, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n.247 (ordinamento professionale forense) ha imposto agli ordini professionali di pubblicare in apposito elenco, consultabile dalle pubbliche amministrazioni, gli indirizzi PEC comunicati dagli iscritti “anche al fine di consentire notifiche di atti e comunicazioni per via telematica da parte degli uffici giudiziari”.
L’art.42 del d.l. 24 giugno 2014, n.90 ha esteso al processo amministrativo la disciplina contenuta nel d.l. n.179 del 2012.
L’art.45-bis del d.l. n.90 del 2014 ha modificato l’art.136 del c.p.a., eliminando l’obbligo di indicazione dell’indirizzo PEC nel primo atto difensivo, sulla base del presupposto che gli indirizzi dei difensori risultano dai pubblici elenchi ai quali le segreterie hanno (ormai) accesso diretto.
4.- Così chiariti i termini di fatto della situazione esaminata e la cornice regolatoria che configura la disciplina normativa di riferimento, si deve ricercare, nella sequenza delle disposizioni legislative sopra indicate, il paradigma di legalità della comunicazione controversa e, cioè, la regola alla cui stregua dev’essere giudicata la validità di quest’ultima.
Dalla rassegna delle norme dedicate a regolare le comunicazioni digitali tra pubbliche amministrazioni e professionisti che si sono succedute dal 2005 a oggi si ricava, tuttavia, l’impressione di un quadro legislativo frammentato e incoerente e, come tale, privo di quel coordinamento sistematico e di quella chiarezza lessicale che assicurerebbero parametri affidabili di identificazione del precetto di riferimento.
Procedendo, nondimeno, alla disamina delle disposizioni sopra indicate, deve, innanzitutto, chiarirsi che anche la ricerca della disposizione applicabile alla fattispecie in esame resta soggetta alla regola generale espressa nel brocardo tempus regit actum (da valersi quale criterio fondamentale di governo dell’attività ermeneutica del diritto processuale).
Deve, quindi, escludersi l’utilizzabilità, quali parametri di legalità, di innovazioni legislative successive alla comunicazione dell’avviso controverso (se non nella limitata misura in cui servano a chiarire la portata precettiva di disposizioni precedenti).
4.1- Passando all’esame delle disposizioni astrattamente applicabili ratione temporis, va, innanzitutto, negata l’applicabilità al processo amministrativo dell’innovazione apportata nel 2005 alla disciplina processualcivilistica delle modalità di comunicazione del biglietto di cancelleria.
E ciò sia perché, come argomento ermeneutico generale, la diretta applicabilità delle disposizioni processuali civili al processo amministrativo è consentita (anzi: imposta) nelle sole ipotesi in cui il primo ordinamento esprima principi generali che non rinvengono nel secondo una sufficiente ed esaustiva declinazione regolatoria, come, peraltro, confermato dall’art.39 del c.p.a. (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 8 novembre 2011, n.5903), ma tale evenienza dev’essere esclusa nella fattispecie in esame (non potendosi certo qualificare come principio generale la disciplina delle modalità tecniche delle comunicazioni di cancelleria), sia (e, forse, soprattutto) perché l’introduzione di forme di trasmissione digitale di avvisi di segreteria postula (di fatto, prima che di diritto) la predisposizione di un sistema informatico tecnicamente capace di utilizzare strumenti elettronici di comunicazione.
In altri termini, l’introduzione legislativa di modalità digitali di comunicazione esige la preliminare organizzazione amministrativa che ne consenta il corretto funzionamento (tanto che l’utilizzo della PEC nel processo amministrativo è stato normativamente previsto solo dopo che il sistema informatico della giustizia amministrativa era stato collaudato come idoneo a sostenere quell’innovazione), sicché resta preclusa ogni applicazione analogica o estensiva al processo amministrativo di disposizioni sulle comunicazioni elettroniche specificamente destinate al solo processo civile.
4.2- Più complessa si rivela, invece, la ricerca della portata precettiva delle innovazioni contenute nel decreto legge n.185 del 2008 e, in particolare, della riferibilità dei precetti ivi consacrati anche alle comunicazioni processuali.
La formulazione in termini generali delle disposizioni che impongono ai professionisti e alle pubbliche amministrazioni la dotazione di un indirizzo PEC e che ammettono l’uso di tale strumento per le comunicazioni tra di essi, unitamente all’assenza, nel testo delle relative norme, di esplicite esclusioni, dal perimetro del loro ambito applicativo, di segmenti soggettivi od oggettivi, parrebbero imporre all’interprete la conclusione della soggezione alla nuova disciplina anche delle comunicazioni attinenti ai rapporti tra i professionisti (nella specie: gli avvocati) e l’amministrazione della giustizia (sia essa ordinaria o amministrativa).
Tale opzione ermeneutica va, tuttavia, rifiutata, sulla base delle considerazioni di seguito esposte.
L’ordinamento processuale (in generale) e il regime delle modalità di comunicazione o di notificazione degli atti giudiziari (in particolare) esigono, infatti, come, peraltro, espressamente previsto in materia di comunicazioni a mezzo PEC dall’art.16, comma 4, d.P.R. n.68 del 2005, una disciplina speciale, in ragione della oggettiva differenza degli interessi e dei diritti (anche di rango costituzionale) dallo stesso implicati e della palese peculiarità delle relative esigenze regolatorie, e non tollerano modifiche non specificamente pensate, strutturate e destinate alla revisione delle regole del processo.
Se è vero, in altri termini, che anche l’amministrazione della giustizia resta astrattamente soggetta alla disciplina generalmente dettata per le pubbliche amministrazioni, è anche vero che le regole che si rivolgono alla gestione del processo devono trovare una fonte speciale nell’ordinamento processuale e non possono essere desunte, in esito a un incerto percorso ermeneutico, dall’esegesi di disposizioni rivolte, in via generale, alle pubbliche amministrazioni.
Anche la storia degli ordinamenti processuali insegna che la disciplina delle procedure giurisdizionali ha sempre rinvenuto la sua unica fonte in atti legislativi espressamente dedicati alla costruzione o alla revisione delle regole di ogni peculiare tipologia di processo, così da integrare sottosistemi dell’ordinamento, caratterizzati da autonomia e specialità.
Nondimeno, dev’essere riconosciuta alle innovazioni introdotte dall’art.16 d.l. n.185 del 2008 una valenza non trascurabile, ancorchè non decisiva, nella ricostruzione delle dinamiche del processo di informatizzazione dei rapporti tra pubbliche amministrazioni e professionisti.
La disposizione in commento, infatti, pur non prevedendo l’utilizzo della PEC per le comunicazioni processuali, ha, tuttavia, imposto a tutti i professionisti (e, perciò, anche agli avvocati) di dotarsi di un indirizzo PEC e, quindi, di apprestare un’organizzazione professionale idonea alla ricezione di comunicazioni amministrative con le modalità e la valenza giuridica della PEC (per come stabilita dagli artt.45 e 48 del CAD).
Ne consegue che, fin dal 2008, i professionisti hanno dovuto attrezzare i loro studi (mediante l’utilizzo di adeguati strumenti informatici e l’impiego di personale appositamente formato) in modo da poter ricevere, conoscere e archiviare tutte le comunicazioni amministrative trasmesse via PEC, in tempi e modalità coerenti con le esigenze di una corretta e funzionale gestione dei rapporti con le pubbliche amministrazioni di riferimento.
Dal momento, in altri termini, della comunicazione del proprio indirizzo PEC al consiglio dell’ordine, gli avvocati erano, quindi, edotti (anche in ragione della peculiare competenza implicata dalla loro attività professionale) degli effetti giuridici di quella innovazione e, quindi, della radicale trasformazione delle modalità di comunicazione tra di essi e la pubblica amministrazione (in generale e di quella della giustizia in particolare).
4.3- Così esclusa, con le precisazioni appena formulate, la diretta applicabilità al processo amministrativo anche del d.l. n.185 del 2008, non resta che identificare l’art.136 del c.p.a. come paradigma di legalità (ratione temporis) utilizzabile al fine di scrutinare la validità dell’avviso di perenzione nella specie opposto (in quanto comunicato dopo l’entrata in vigore della predetta disposizione processuale).
Sennonchè, la questione (apparentemente semplice) è complicata dalla formulazione testuale dell’art.136, là dove, prima dell’ultima modifica, imponeva ai difensori l’indicazione del loro indirizzo PEC nel ricorso o nel primo atto difensivo e ricollegava (o, meglio, sembrava ricollegare) a tale indicazione la presunzione di conoscenza delle comunicazioni effettuate con tale sistema.
4.3.1- Tale disposizione si presta, quindi, a una duplice interpretazione: quella che, valorizzando la prescritta indicazione dell’indirizzo PEC, condiziona a tale adempimento l’operatività della previsione relativa all’utilizzo della stessa PEC e quella che, al contrario, reputa valide le comunicazioni effettuate con tale strumento, a prescindere dall’avvenuta indicazione dell’indirizzo PEC nel primo atto processuale (e sempre che l’indirizzo sia corretto e che il sistema di trasmissione abbia funzionato).
4.3.2- L’Adunanza Plenaria aderisce alla seconda opzione ermeneutica, per le ragioni appresso illustrate.
Con l’entrata in vigore del c.p.a. (e, poi, con la correzione operata all’art.136 dal d.lgs. n.195 del 2011) la trasmissione degli avvisi tramite PEC è stata introdotta come modalità ordinaria delle comunicazioni processuali, tanto che l’art. 2, comma 6, dell’Allegato 2 al c.p.a. prescrive alle segreterie di effettuare le comunicazioni ai sensi dell’art.136, o (solo) altrimenti, nelle forme di cui all’art.45 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.
Orbene, a fronte dell’introduzione nel processo amministrativo dell’utilizzo della PEC come valido strumento di comunicazione tra segreterie e difensori (del chè non è lecito dubitare), della predisposizione di un apparato organizzativo informatico capace di sostenere efficacemente tale innovazione e della digitalizzazione (già da tre anni, al momento dell’entrata in vigore del c.p.a.) delle comunicazioni tra professionisti e amministrazioni, reputa l’Adunanza che l’omessa indicazione dell’indirizzo PEC del difensore resti del tutto ininfluente ai fini della validità della comunicazione effettuata con quello strumento.
La prescrizione relativa all’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore dev’essere, invero, intesa come preordinata al solo fine di agevolare la segreteria, in attesa di un accesso diretto (ormai operativo) a un elenco pubblico, nella ricerca della casella di riferimento, ma non può essere decifrata come condizione di efficacia della norma (che resterebbe, altrimenti, inammissibilmente rimessa, anche per i ricorsi successivi all’entrata in vigore del c.p.a., all’iniziativa arbitraria del difensore, pur in presenza della generale digitalizzazione, già dal 2008, dei rapporti tra professionisti e pubbliche amministrazioni).
Diversamente opinando, invero, si giungerebbe alla paradossale convinzione di giudicare invalida una comunicazione via PEC, ancorchè tale strumento, al momento della sua utilizzazione, fosse stato previsto come modalità ordinaria di trasmissione degli avvisi nel processo amministrativo e nonostante il corretto funzionamento del sistema; con ciò smentendo o, comunque, ridimensionando, inammissibilmente, l’operatività di una delle innovazioni più significative nel processo di digitalizzazione dei procedimenti giurisdizionali.
D’altra parte, il combinato disposto della disposizione, del 2008, che obbligava gli avvocati a dotarsi di un indirizzo PEC e a comunicarlo al loro consiglio dell’ordine, e dell’art.136 del c.p.a., che sanciva in via generale l’estensione al processo amministrativo di tale modalità informativa, non può che essere letto, in esito a un’esegesi sistematica e coordinata dei due precetti, come prescrittivo dell’introduzione a regime (dall’entrata in vigore della norma processuale) delle comunicazioni digitali nei giudizi amministrativi, restando così confermate l’assenza di qualsivoglia valenza condizionante (rispetto all’efficacia della disposizione) dell’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore nel primo atto difensivo e la sua mera funzione di ausilio ai (nuovi) compiti di segreteria.
4.3.3- La validità di tale interpretazione risulta, peraltro, avvalorata dall’art.7, comma 2, della legge n.247 del 2012, che, laddove obbliga gli ordini professionali a pubblicare in apposito elenco, consultabile dalle pubbliche amministrazioni, gli indirizzi PEC comunicati dagli iscritti, “anche al fine di consentire notifiche di atti e comunicazioni per via telematica da parte degli uffici giudiziari”, chiarisce che le comunicazioni processuali via PEC possono essere effettuate anche a prescindere dall’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore nel singolo processo di riferimento e tramite l’accesso diretto delle segreterie e delle cancellerie all’elenco pubblico formato dagli ordini professionali (come del resto confermato dall’art.16 ter del d.l. n.179 del 2012).
Tale disposizione, a ben vedere, costituisce la conferma più efficace dell’opzione interpretativa preferita, nella misura in cui esclude, implicitamente, ma altrettanto chiaramente, che l’operatività dell’innovazione esaminata resti subordinata all’indicazione dell’indirizzo PEC nel primo atto difensivo.
4.4- Così riconosciuta l’operatività del sistema della comunicazione via PEC, anche in mancanza dell’indicazione dell’indirizzo nel primo atto processuale, occorre esaminare l’efficacia della relativa trasmissione e dettagliare le possibilità di contestazione del suo perfezionamento da parte del destinatario.
Si deve, al riguardo, premettere che la comunicazione del documento informatico per via telematica, mediante l’utilizzo di posta elettronica certificata, risulta assistita, sul piano tecnico, dall’utilizzo di protocolli di trasmissione che ne assicurano l’assoluta affidabilità, in ordine all’indirizzo del mittente, a quello del destinatario, al contenuto della comunicazione e all’avvenuto recapito del messaggio, tanto che l’art.48, comma 2, del CAD, equipara tale comunicazione alla notificazione per mezzo di posta ordinaria e che l’art.136 c.p.a. sanziona con la presunzione di conoscenza l’utilizzo della PEC.
A fronte delle garanzie tecniche di sicurezza della PEC e della richiamata disciplina dell’efficacia giuridica delle relative comunicazioni, occorre rilevare che al destinatario che intenda contestarne, in concreto, la valenza e l’idoneità alla trasmissione della conoscenza dell’atto processuale non resta che dedurre il difetto di funzionamento del sistema o una causa di forza maggiore, come tale non imputabile al destinatario, che gli abbia impedito la ricezione del messaggio.
Al di fuori di queste circoscritte ed eccezionali evenienze, il sistema resta presidiato da fattori tecnologici di affidabilità tali da escludere la deducibilità di contestazioni afferenti a cause genericamente impeditive della tempestiva conoscenza del documento processuale trasmesso via PEC.
Nel caso di specie, peraltro, non solo difetta l’allegazione di fattori ostativi alla ricezione e alla lettura del messaggio, ma, al contrario, lo stesso risulta essere stato letto, sicchè non residua alcun dubbio sul funzionamento del sistema e sul recapito della comunicazione.
4.5- Tali ultime considerazioni consentono, d’altra parte, di assegnare una valenza decisiva al principio della sanatoria per l’avvenuto raggiungimento dello scopo (codificato all’art.156, comma 3, c.p.c.), che, com’è noto, esprime una regola di scrutinio della validità degli atti processuali che impedisce di riconoscerne la nullità, nell’ipotesi in cui gli stessi, nonostante la loro invalidità, abbiano conseguito, comunque, il fine al quale risultano preordinati.
Il rispetto di tale principio, che, per la sua evidente valenza generale, deve intendersi applicabile anche nel processo amministrativo in ragione del rinvio esterno cristallizzato nell’art.39, comma 1, c.p.a. (si veda ex multis Cons. St., sez. III, 16 aprile 2014, n.1965), impone di giudicare, in ogni caso, sanata, in ossequio all’art.156, comma 3, c.p.c., la comunicazione in questione, quand’anche ritenuta nulla per violazione dell’art.136 c.p.a. (ove interpretato secondo l’opzione ermeneutica prima rifiutata), per aver conseguito lo scopo al quale era preordinata e, cioè, la trasmissione al difensore degli appellanti dell’avviso di perenzione (nella misura in cui è pacificamente entrato nella sfera di conoscenza del destinatario).
5.- Così riconosciuta la validità della comunicazione dell’avviso in questione, occorre verificare la sussistenza dei presupposti che, ai sensi dell’art.37 c.p.a., autorizzano la rimessione in termini per errore scusabile, concedibile d’ufficio e, comunque, espressamente invocato dai ricorrenti.
5.1- Occorre premettere che il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile riveste carattere eccezionale, nella misura in cui si risolve in una deroga al principio fondamentale di perentorietà dei termini processuali (ivi incluso quello entro il quale è necessario, per evitare la perenzione, presentare domanda di fissazione di udienza per i ricorsi ultraquinquennali), con la conseguenza che la disposizione che lo ha codificato (art.37 c.p.a.) deve ritenersi di stretta interpretazione (Cons. St., sez. V, 28 luglio 2014, n.3986).
E’ stato, infatti, opportunamente chiarito che un’amministrazione eccessivamente generosa di tale beneficio finirebbe per inficiare il principio, quantomeno di pari dignità rispetto all’esigenza di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, della parità delle parti relativamente all’osservanza dei termini processuali perentori (Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2014, n.3231).
Il beneficio dell’errore scusabile va, quindi, riconosciuto solo in esito a un rigoroso accertamento dei presupposti che lo legittimano, ai sensi dell’art.37 c.p.a., e, quindi, a fronte di obiettive incertezze normative o in presenza di gravi impedimenti di fatto, non imputabili alla parte (Cons. St., sez. V, 15 luglio 2014, n.3708).
5.2- Così precisato il rigore che deve circondare la verifica delle condizioni che autorizzano la concessione del beneficio in questione, si rileva che le ragioni di incertezza su questioni di diritto o i gravi impedimenti di fatto devono riferirsi all’esercizio della potestà processuale che è stata persa per effetto dell’inutile scadenza del termine perentorio entro il quale avrebbe dovuto essere esercitata, e non anche a profili diversi.
Posto, infatti, che l’errore rispetto al quale dev’essere accertata la scusabilità è quello relativo all’omessa, tempestiva attivazione di un potere processuale, non v’è dubbio che le ragioni che l’hanno impedita devono riferirsi a difficoltà interpretative della normativa di riferimento circa i presupposti, le modalità, i termini o gli effetti dell’esercizio della potestà in questione ovvero a cause di forza maggiore che hanno materialmente impedito l’adempimento processuale scaduto.
5.3- Così chiarito l’ambito di identificabilità delle ragioni che hanno indotto la parte in errore, deve rilevarsi che, nella fattispecie in esame, non vengono addotte motivazioni di incertezza circa la disciplina processuale della presentazione dell’istanza che scongiura la dichiarazione della perenzione del ricorso (chiaramente contenuta nell’art.82, comma 1, c.p.a.), ma si allega una presunta invalidità della comunicazione dell’avviso dalla cui ricezione decorre il termine perentorio nella specie non osservato.
5.4- Sennonchè, si è già rilevato che l’avviso era stato validamente comunicato e che, comunque, era stato, di fatto, ricevuto e letto dal destinatario, sicchè l’inosservanza del termine perentorio in questione va ascritta esclusivamente alla negligenza del difensore e non a incertezze di diritto relative al regime processuale della perenzione.
6.- Dev’essere, da ultimo, esaminata la questione, sollevata nell’atto di opposizione al decreto di perenzione, della compatibilità dell’opzione ermeneutica preferita con gli artt.24 e 11 della Costituzione e con l’art.6 della CEDU.
6.1- Assumono, al riguardo, i ricorrenti che la disciplina di riferimento, per come interpretata da questa Adunanza Plenaria, confligge con i principi cristallizzati nella Costituzione e nella CEDU a presidio del diritto di difesa e del giusto processo.
6.2- L’assunto è infondato e va disatteso.
6.3- Come già rilevato, infatti, il sistema delle comunicazioni tramite PEC degli atti processuali risulta assistito da garanzie tecniche di sicurezza, così affidabili da poter essere equiparato, ai fini che qui rilevano, al sistema delle notificazioni per posta ordinaria.
Non solo, ma l’utilizzo della PEC è stato introdotto nel processo amministrativo circa tre anni dopo che i professionisti erano stati obbligati, seppur ad altri fini, a dotarsi di una casella PEC, a usarla per le comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e, quindi, in definitiva, a impadronirsi degli strumenti di governo dei nuovi processi di trasmissione delle informazioni, in un arco temporale sicuramente idoneo ad assimilarne tempi e modi di utilizzo.
6.4- Deve, quindi, escludersi qualsivoglia lesione dei principi del giusto processo o dell’integrità del diritto di difesa, che non risultano in alcun modo vulnerati dall’utilizzo di uno strumento di comunicazione degli atti processuali del tutto idoneo a garantire la certezza della trasmissione della conoscenza degli avvisi e, quindi, a consentire il tempestivo e utile esercizio delle potestà processuali dagli stessi implicate.
7.- Alla stregua delle suesposte considerazioni possono essere enunciati i seguenti principi di diritto:
a) le comunicazioni di segreteria tramite posta elettronica certificata sono valide anche se riferite a ricorsi notificati prima dell’entrata in vigore del c.p.a. (purchè, comunque, successive a esso) e anche se indirizzate a un difensore che aveva omesso di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata nel ricorso o nel primo atto difensivo;
b) la validità e l’efficacia della comunicazione tramite posta elettronica certificata possono essere contestate solo adducendo un difetto di funzionamento del sistema informatico o una causa di forza maggiore non imputabile al destinatario;
c) a fronte di una comunicazione effettuata ai sensi della lett.a), non può essere concesso il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile previsto dall’art.37 c.p.a., sulla base della sola deduzione (e del coerente rilievo) dell’incertezza giuridica sulla validità dell’utilizzo dello strumento di trasmissione della PEC.
8.- Alle considerazioni che precedono consegue il rigetto dell’opposizione al decreto di perenzione.
9.- Le spese seguono la soccombenza, come prescritto dall’art.85, comma 5, c.p.a., e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull’opposizione al decreto di perenzione indicata in epigrafe, così provvede:
formula i principi di diritto di cui in motivazione;
respinge l’opposizione al decreto di perenzione n. 563 del 2013;
condanna gli opponenti e il Comune di Verrua Savoia, in solido tra loro, a rifondere ai resistenti le spese della presente fase processuale, che liquida in complessivi Euro 1.500,00.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2014 con l’intervento dei magistrati: