IL GIUDICATO CIVILE CHE HA RESPINTO LA DOMANDA RISARCITORIA APPLICANDO L’ISTITUTO DELL’OCCUPAZIONE ACQUISITIVA PRECLUDE L’AZIONE DI RESTITUZIONE DEL BENE DI FRONTE AL G.A? LA PAROLA ALL’ADUNANZA PLENARIA

Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni: a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla “occupazione appropriativa” o “accessione invertita” – sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;


​​​​​​​b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla “occupazione appropriativa” ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;

c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale); d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente).

 

06531/2020 REG.PROV.COLL.
07540/2019 REG.RIC.           

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 7540 del 2019, proposto dai signori Francesca Loi, Giovanna Loi, Pierpaolo Loi, Rita Loi, Ignazio Loi, Valentina Loi, Giuseppe Loi, Peppino Loi, Emanuela Ludoni e Federica Ludoni, rappresentati e difesi dall’avvocato Mario Fois, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

 

contro

l’Azienda ospedaliera G. Brotzu, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Valeria Frongia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Paolo Bonaiuti in Roma, via Riccardo Grazioli Lante, n. 16;
la Regione Autonoma Sardegna, in persona del Presidente in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandra Camba e Sonia Sau, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
l’Azienda per la tutela della salute – ATS, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Carlo Diana, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda) n. 408/2019, resa tra le parti.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Azienda ospedaliera G. Brotzu, della Regione Autonoma Sardegna e dell’Azienda per la tutela della salute;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2020 il Cons. Alessandro Verrico e uditi per le parti gli avvocati Mario Fois, Valeria Frongia, Carlo Diana e Alessandra Camba, i quali hanno chiesto il passaggio in decisione con tutti gli effetti di legge;

 

1. Con decreto del Presidente della Giunta Regionale della Sardegna n. 5/1199/249 del 18 luglio 1977, l’ente ospedaliero “Ospedali Riuniti” Cagliari veniva autorizzato ad occupare d’urgenza, tra gli altri, i terreni di proprietà della signora Maria Chiara Scano, siti in agro del Comune di Selargius distinti al foglio 42 mappale 607 di mq 280 e mappale 379 di mq 680, per la realizzazione del “Nuovo Ospedale Civile”, opera da considerarsi “di pubblica utilità e di urgente ed indifferibile esecuzione” (come da progetto in precedenza approvato con la deliberazione del Comitato tecnico regionale dei ll.pp. n. 449/11121 del 18 maggio 1977).

1.1. Al decreto di occupazione d’urgenza, tuttavia, non faceva seguito il provvedimento finale d’esproprio, pur in presenza dell’effettiva utilizzazione e della trasformazione delle aree, attestata dalla conclusione dei lavori in data 15 luglio 1981 con la realizzazione del complesso ospedaliero (cfr. certificato di ultimazione dei lavori del 24 luglio 1981, in atti), avvenuta pertanto entro il termine finale di occupazione delle aree del 1° settembre 1983.

1.2. In ragione di ciò, l’Azienda U.S.L. n. 21 di Cagliari, succeduta ex lege agli “Ospedali Riuniti”, approvava, con delibera dell’amministratore straordinario n. 1043 del 14 ottobre 1991, gli schemi di accordo bonario-cessione volontaria delle aree già occupate per la realizzazione dell’ospedale Brotzu.

Ciò nonostante, la deliberazione, a causa delle riscontrate difficoltà di finanziamento, veniva in seguito annullata, con provvedimento dell’amministratore straordinario n. 1784 del 21 novembre 1991.

2. Con atto di citazione in data 29 aprile 1999, gli odierni appellanti, in qualità di eredi della signora Scano, adivano il Tribunale civile di Cagliari (R.G. 4345/1999), chiedendo:

a) in via principale la condanna dell’Azienda sanitaria locale n. 8 (succeduta alla A.S.L. 21)-gestione liquidatoria, nonché dell’Azienda generale ospedaliera G. Brotzu, al pagamento delle somme indicate nell’atto di transazione per la cessione dei terreni in questione (approvato come rilevato dalla A.S.L. 21);

b) in subordine, nell’ipotesi in cui non fosse riconosciuta efficacia vincolante ed opponibilità alla transazione, la condanna dei suddetti enti al pagamento della “somma corrispondente al valore di mercato dei terreni illegittimamente occupati” ovvero (“in alternativa”) al “risarcimento del danno patito e patiendo”;

c) in ogni caso, la condanna degli enti “alla corresponsione della indennità conseguente alla patita occupazione abusiva”.

2.1. Con la sentenza n. 2860, depositata in data 22 novembre 2006, il Tribunale civile di Cagliari ha respinto le domande (principale e subordinata), sulla base delle seguenti argomentazioni:

a) il contratto di transazione non risulta perfezionato, atteso che le comunicazioni prodotte non contengono la manifestazione di volontà, né l’oggetto;

b) “quanto alla domanda subordinata di risarcimento del danno per effetto dell’illecita occupazione del suolo da parte della P.A., deve trovare accoglimento l’eccezione di prescrizione tempestivamente sollevata dalla convenuta”, considerato che, non essendo configurabile nella fattispecie l’illecito permanente vista la preesistenza del decreto di occupazione d’urgenza (“il quale presuppone una valida dichiarazione di pubblica utilità”), “deve presumersi che si fosse realizzata la fattispecie della c.d. occupazione appropriativa”, con la conseguenza che il termine di prescrizione quinquennale, decorrente dalla scadenza del termine di occupazione, risultava ampiamente decorso al momento della notifica dell’atto di citazione.

2.2. La pronuncia, in assenza di impugnazioni, passava in giudicato.

3. Con ricorso, depositato il 3 settembre 2018, presso il T.a.r. Sardegna (R.G. n. 670/2018), gli odierni appellanti, in ragione dell’avvenuta occupazione e trasformazione dei terreni sine tituloper mancato completamento della relativa procedura ablatoria, chiedevano di:

a) accertare l’illegittima occupazione dei terreni ‘di loro proprietà’ da parte dell’Azienda ospedaliera G. Brotzu, legittimata passiva, unitamente all’Azienda per la tutela della salute Sardegna (A.T.S.) e alla Regione Sardegna;

b) condannare l’Azienda ospedaliera G. Brotzu (attuale occupante) ovvero la Regione autonoma della Sardegna ovvero l’Azienda per la tutela della salute Sardegna (A.T.S.), eventualmente anche in solido, al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;

c) condannare l’Azienda ospedaliera G. Brotzu ovvero la Regione autonoma della Sardegna ovvero l’Azienda per la tutela della salute Sardegna (A.T.S.), eventualmente anche in solido, al risarcimento, per equivalente, dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, a causa dell’indisponibilità dell’area dal momento dell’occupazione fino all’effettivo rilascio.

3.1. Il T.a.r., con la sentenza n. 408 del 13 maggio 2019, ha respinto il ricorso ed ha compensato le spese di giudizio tra le parti, ritenendo che:

a) si può prescindere dalla individuazione del “legittimato passivo” in ordine alle pretese avanzate (restitutorie e risarcitorie), attesa l’infondatezza del ricorso nel merito, dovendo essere accolta l’eccezione di giudicato;

b) i ricorrenti, nel giudizio civile, optando per la richiesta di risarcimento per equivalente, avevano sostanzialmente abdicato alla richiesta di restituzione del bene, concordando nel ritenere che l’opera realizzata (l’ospedale) aveva reso irreversibile il mutamento dei luoghi ed impediva, in concreto, la restituzione dei terreni (in totale 960 mq.);

c) il giudice civile, con la sentenza di rigetto, applicando ‘l’istituto dell’accessione invertita’, aveva ritenuto integralmente prescritto il diritto al complessivo risarcimento del danno;

d) i ricorrenti, con il ricorso all’esame, hanno ‘sostanzialmente’ riproposto le domande che sono state già oggetto della causa civile, definita con pronuncia passata in giudicato, che, pertanto, copre anche le pretese oggetto di questo giudizio.

Il Tribunale amministrativo ha rilevato che la “decisione, passata in giudicato, rappresenta un elemento oggettivo e vincolante e costituisce un limite impeditivo alla riproposizione di pretese già valutate prescritte”, atteso che “la pretesa risarcitoria, nel suo complesso (sia valore del bene , che occupazione), è stata già oggetto del giudizio civile, definito con sentenza divenuta irrevocabile”, “in quanto la pretesa della parte ricorrente era già stata quantificata in termini di “corrispettivo”, rapportato al valore del bene. Tradotta, cioè, in obbligazione pecuniaria”.

4. La parte soccombente ha proposto appello (R.G. n. 7540/2019), per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente accoglimento integrale del ricorso originario.

In particolare, gli appellanti, a mezzo dell’unica censura rubricata “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 del Codice Civile. Erroneità nei presupposti di fatto e normativi. Violazione e/o falsa applicazione di legge, T.U. delle Espropriazioni”, hanno evidenziato il discrimine tra la domanda proposta nel giudizio civile rispetto a quella in esame nel presente giudizio, sia per la causa petendi che per il petitum.

Invero, a loro avviso:

a) con riferimento alla domanda proposta nel giudizio civile, la causa petendiriguardava ‘l’accessione invertita’ conseguente all’occupazione ed il petitumconsisteva nel risarcimento dei danni per equivalente in conseguenza della perdita della proprietà;

b) nella domanda svolta nel presente giudizio amministrativo, la causa petendiè costituita dalla illegittima occupazione permanente ed il petitumè rappresentato dalla domanda restitutoria, previa declaratoria dell’illegittima occupazione (utilizzazione) del bene, e dalla corresponsione ai ricorrenti dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, con rivalutazione ed interessi legali.

Nella sostanza, secondo gli appellanti, mentre all’epoca della proposizione della domanda avanti il giudice civile i ricorrenti – per la prassi nazionale ed il diritto vivente costituito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – potevano chiedere non la restituzione del bene, ma unicamente il risarcimento del danno per equivalente, attualmente, per effetto del mutato quadro normativo e giurisprudenziale, essi potrebbero finalmente proporre, con il presente giudizio, la domanda di restituzione del bene, che nulla avrebbe a che vedere – attesa la diversità di petitum e di causa petendi – con quella risarcitoria proposta in sede civile.

4.1. Si è costituita in giudizio l’Azienda ospedaliera G. Brotzu, la quale, depositando memoria difensiva:

a) ha in via preliminare eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, non potendo su di essa ascriversi alcuna responsabilità in ordine alla mancata conclusione della procedura di espropriazione, sulla base di quanto disposto dall’art. 66, l. n. 833/1978, con cui sono stati trasferiti in capo ai singoli Comuni tutti i rapporti giuridici relativi alle attività svolte dai soppressi enti ospedalieri, e dalla l.r. n. 13/1981 (“Individuazione, costituzione ed organizzazione delle Unità sanitarie locali, in attuazione della legge 23 dicembre 1978, n. 833”);

b) ha rinnovato l’eccezione di giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria avanzata dagli appellanti, già proposta davanti al Tribunale civile di Cagliari e dallo stesso respinta con sentenza n. 2860/2006;

c) nel merito, si è opposta all’appello e ne ha chiesto l’integrale rigetto, deducendo che entrambe le forme di tutela, costituite dal risarcimento in forma specifica e dal risarcimento per equivalente, postulerebbero l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, rappresentando mere modalità alternative di attuazione della medesima obbligazione. Le due domande risulterebbero pertanto sovrapponibili, al punto che il risarcimento per equivalente – in base ai principi generali – sarebbe già “implicito” nella richiesta di risarcimento in forma specifica e che rientrerebbe nei poteri discrezionali del giudice attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica, domandato dall’attore.

L’appellata, infine, ha riproposto l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento, in conseguenza del decorso del termine quinquennale.

4.2. Si è altresì costituita in giudizio l’Azienda per la tutela della salute (A.T.S.), la quale, depositando memoria:

a) ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, sostenendo che dell’operato dei disciolti enti ospedalieri rispondono, quali successori universali ai sensi dell’art. 66 l. n. 833/1978, i Comuni nei cui territori insistono le aree illegittimamente occupate e quindi, nella fattispecie, il Comune di Selargius; ad ogni modo, anche nel caso in cui le ragioni di credito prospettate dagli appellanti fossero ritenute causalmente riconducibili alla condotta della cessata U.S.L. n. 21 di Cagliari, quale ente del quale faceva parte l’ospedale Brotzu, conseguirebbe comunque, quale corollario, la declaratoria di difetto di legittimazione passiva della A.T.S., che non risponde delle obbligazioni contratte dalle cessate U.S.L. e comunque dei loro debiti;

b) ha dedotto che la fattispecie sarebbe coperta dal giudicato formatosi sulla sentenza n. 2860/2006 del Tribunale civile di Cagliari, considerato che presso entrambe le giurisdizioni è stata richiesta la condanna delle Amministrazioni intimate al pagamento di una somma corrispondente al valore venale del bene oltre ai maggiori danni, con la conseguenza che la domanda risarcitoria sarebbe stata sempre formulata in termini di controvalore pecuniario delle aree;

c) ha eccepito la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, in ragione dell’ininterrotto decorso del relativo termine quinquennale, quanto meno di carattere parziale, ossia riferita a tutto il periodo antecedente alla data del 3 settembre 2013 (considerato che il ricorso introduttivo era notificato in data 3 settembre 2018);

d) ha evidenziato che, ad ogni modo, la condotta illecita sarebbe ascrivibile al solo Comune di Selargius, poiché il disciolto ente ospedaliero avrebbe realizzato l’opera pubblica entro il termine di efficacia previsto dall’ordinanza di occupazione delle aree.

4.3. Si è infine costituita in giudizio la Regione Sardegna, la quale, con memoria difensiva:

a) ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, deducendo di aver esercitato nella procedura espropriativa in esame esclusivamente potestà autorizzatorie e che l’illecita occupazione dell’area andrebbe imputata esclusivamente all’inerzia dell’ente espropriante;

b) ha ritenuto che dovrebbe essere esclusa la propria responsabilità nella condotta causativa del danno, determinato dalla proseguita occupazione, comportamento per converso imputabile all’ente ospedaliero “Ospedali riuniti Cagliari” ed agli enti che ad esso si sono succeduti;

c) ha dedotto l’insufficienza di prova dei danni di cui si chiede il risarcimento, ad ogni modo non configurabile per il periodo pregresso allo spirare dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ed eventualmente riconoscibile solo nei limiti del quinquennio dalla notificazione del ricorso, tenuto anche conto del giudicato formale formatosi sulle statuizioni presenti nel dispositivo della sentenza n. 2860 del 2006 del Tribunale civile di Cagliari.

4.4. Con memoria difensiva depositata il 17 giugno 2020, gli appellanti hanno infine replicato alle avverse deduzioni, in particolare ribadendo la rilevanza dei criteri già precisati per la determinazione del danno, e hanno insistito nella censura dedotta.

4.5. Tutte le parti costituite, con rispettive note di udienza ex art. 84, comma 5, d.l. n. 18/2020, hanno chiesto che la causa fosse trattenuta in decisione.

5. All’udienza del 9 luglio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio.

6. Alla luce delle premesse svolte, in punto di fatto, la Sezione rileva che non è controverso tra le parti che:

a) la fattispecie all’esame attiene ad un’ipotesi occupazione sine titulodi terreni, in cui – a seguito della emanazione degli atti con cui è stata disposta la dichiarazione di pubblica utilità e poi l’occupazione d’urgenza – si è dato luogo ad una irreversibile trasformazione delle aree, con la realizzazione del complesso ospedaliero, in assenza della successiva emanazione del relativo provvedimento d’esproprio;

b) con atto di citazione in data 29 aprile 1999, i proprietari dei terreni agivano dinanzi al giudice civile per ottenere la condanna dell’Azienda sanitaria locale n. 8 (succeduta alla A.S.L. 21)-gestione liquidatoria e dell’Azienda generale ospedaliera G. Brotzu al risarcimento per equivalente dei danni derivanti dall’occupazione e dall’irreversibile trasformazione dei terreni e per l’acquisizione del bene, sulla base del valore venale di esso;

c) il Tribunale civile di Cagliari, con la sentenza n. 2860/2006 passata in giudicato, respingeva la domanda risarcitoria per equivalente, accogliendo l’eccezione di prescrizione, sul presupposto che si fosse realizzata la fattispecie della c.d. occupazione appropriativa;

d) con il presente giudizio, instaurato in primo grado con ricorso depositato il 3 settembre 2018, si chiede la condanna dell’Azienda ospedaliera G. Brotzu, della Regione Sardegna e dell’A.T.S. al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino, nonché al risarcimento dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, a causa dell’indisponibilità dell’area dal momento dell’occupazione fino all’effettivo rilascio.

6.1. La questione dirimente ai fini della decisione, e preliminare alla individuazione dei legittimati passivi delle richieste oggetto del giudizio (questione che, pertanto, non verrà affrontata nella presente sede), attiene quindi alla rilevanza giuridica del giudicato civile formatosi sulla domanda di risarcimento per equivalente ed alla efficacia dello stesso rispetto alla domanda di risarcimento in forma specifica, intentata successivamente dinanzi alla giurisdizione amministrativa.

La soluzione della questione presuppone peraltro:

a) per un verso, la corretta definizione del rapporto tre le due forme di tutela esperite nei due giudizi, quali azioni distinte e autonome ovvero quali modalità alternative di attuazione dell’unitaria obbligazione risarcitoria (tenendo altresì conto dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, circa la possibilità di convertire – anche in sede d’appello – la domanda di restituzione, basata sulla lesione del diritto di proprietà, in domanda di applicazione dell’art. 42 bisdel testo unico sugli espropri, basata sulla lesione dell’interesse legittimo pretensivo, disciplinato da tale disposizione);

b) per altro verso, l’individuazione degli effetti delle novità normative, nonché del cambiamento dell’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulle forme di tutela esperibili avverso l’occupazione sine titulodi immobili, per individuare se la domanda formulata in primo grado sia ‘nuova’ rispetto a quella decisa dal giudice civile, il che è determinante per verificare se nel caso di specie sia ravvisabile una res giudicatapreclusiva della medesima domanda di primo grado.

7. Ciò considerato, il Collegio, in ragione della delicatezza e della oggettiva controvertibilità delle questioni dibattute tra le parti e ritenuto che ciò possa anche dare luogo a contrasti giurisprudenziali, deferisce il presente ricorso all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a.

8. In merito alla questione de qua, vanno segnalati i precedenti che si inquadrano nell’ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato che, in linea di principio, ha nettamente rimarcato come – a seguito dapprima dell’introduzione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001 e poi dell’art. 42-bis– il proprietario, in assenza di un provvedimento di acquisizione, può sempre agire per la restituzione del bene, sia con riferimento alle fattispecie successive all’entrata in vigore del Testo Unico espropriazioni che in relazione alle fattispecie pregresse, poiché il testo unico non consente più di dare seguito nell’ordinamento nazionale – e nella sede della ormai prevista giurisdizione amministrativa esclusiva – alla prassi più volte censurata dalla Corte di Strasburgo (Cons. St., Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2; Cons. St., Sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582; Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Cons. St., Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303).

8.1. Secondo una prima pronuncia che si è occupata del ‘rilievo del giudicato civile inter partes’, non sarebbe favorevolmente scrutinabile una domanda che – a fronte della sussistenza di un giudicato in senso tecnico in ordine all’avvenuto concretarsi del fenomeno acquisitivo a titolo originario dell’area in favore dell’Amministrazione – intenda ottenere l’applicazione “ora per allora” di un diverso orientamento giurisprudenziale, successivamente affermatosi sotto la spinta della Corte Edu, e di un antitetico quadro legislativo, introdotto dal legislatore nazionale, appunto, per conformarsi ai precetti della Corte di Strasburgo (cfr., Cons Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466).

8.2. In senso sostanzialmente conforme, oltre alla maggioritaria giurisprudenza di primo grado, risulta un’altra precedente pronuncia della medesima Sezione (Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303). In tale occasione, il Consiglio, nonostante vi fosse stato in sede giurisdizionale l’annullamento del decreto di espropriazione, giungeva ad escludere l’applicazione al caso di specie dell’art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, in quanto l’azione intentata dal privato dinanzi al giudice civile – per la corresponsione dei danni in misura pari al controvalore venale dell’immobile – sul presupposto che l’area era divenuta di proprietà pubblica per effetto dell’“espropriazione acquisitiva”, (nonché dell’indennizzo per il periodo di occupazione legittima) – era stata respinta, con sentenza passata in giudicato, per prescrizione quinquennale.

Ciò chiarito, la Sezione riteneva che “l’art. 43 del testo unico non si applica quando l’Amministrazione già risulti titolare dell’area (nella specie, in base ad una sentenza del giudice civile che abbia espressamente ravvisato tale titolarità, con una statuizione inequivocabile su cui è formato il giudicato). Come è noto l’irretrattabilità del giudicato, principio cardine del nostro ordinamento, discende dal principio generalissimo della certezza dei rapporti giuridici, e per esso la norma di legge successiva non può influire sul giudicato anche quando quest’ultima abbia natura interpretativa (Cass. Sez. Lav. 10/04/1993 n. 3939). Natura che, peraltro, non si può certamente riconoscere all’art. 43”.

Il Consiglio di Stato rilevava altresì che non emerge dall’insegnamento della Corte europea per i diritti dell’uomo, da cui la norma in questione ha tratto ragione, che lo Stato Italiano si sarebbe dovuto adeguare fino a comprendere anche le controversie irretrattabilmente definite dai giudicati nazionali, piuttosto che circoscrivere l’intervento legislativo solo a quelle tutt’ora pendenti anche se risalenti, imponendo l’art. 32, paragrafo 1, della CEDU, soltanto l’adeguamento della legislazione nazionale alle norme in essa contenute, nel significato loro attribuito dalla Corte.

La Sezione quindi concludeva affermando che “il principio dell’irretrattabilità del giudicato, la cui copertura costituzionale è senza dubbio affidata all’art. 111 della nostra Carta, non può ritenersi travolto dalle norme della Convenzione, derivandone altrimenti un’inammissibile contrasto con la Costituzione stessa” e che, ad ogni modo, “la salvaguardia della certezza dei rapporti giuridici è principio operante non soltanto nell’ordinamento interno ma anche in quello internazionale”.

8.3. Del resto, di analogo tenore è la giurisprudenza che ha affermato come la procedura dell’acquisizione ex art. 42-bis testo unico dell’espropriazione possa trovare applicazione solo dove vi sia ancora da acquisire alla proprietà pubblica il bene, occupato senza titolo, da cui deriva l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di applicare il meccanismo di acquisizione nei casi in cui l’amministrazione già risulti titolare dell’area espropriata, in base ad una sentenza del giudice civile che abbia espressamente ravvisato tale titolarità, con una statuizione inequivocabile su cui si è formato il giudicato (Cons. Stato, sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2232).

9. Di diverso avviso è altra pronuncia di questo Consiglio, nella quale, affrontando una questione assimilabile alla presente, veniva proposta una interpretazione volta a garantire la massima tutela del privato che, danneggiato dall’occupazione senza titolo, aveva originariamente chiesto il risarcimento dei danni nel periodo di piena ‘applicazione’ dell’orientamento giurisprudenziale favorevole all’affermazione della ‘occupazione appropriativa’ o ‘espropriazione sostanziale’.

9.1. Si tratta della sentenza della IV Sezione n. 5830 del 16 novembre 2007, sopra citata, avente ad oggetto un’ipotesi di occupazione d’urgenza non seguita dalla regolare conclusione della procedura di esproprio, in relazione alla quale, in particolare:

a) inizialmente i privati, agendo in sede civile, si vedevano respinta la domanda di risarcimento del danno conseguente alla dedotta illegittimità degli atti che avevano condotto all’occupazione delle aree;

b) nel successivo giudizio amministrativo, venivano invece annullati tutti gli atti che il Comune di Roma e la Regione Lazio avevano emesso “a sanatoria” tra il 1993 e il 1996 per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto;

c) dopo la pubblicazione di tale ultima sentenza, poi passata in giudicato, i privati notificavano al Comune una diffida volta a fare esercitare il potere previsto dall’(allora vigente) art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e, con due ulteriori ricorsi dinanzi al giudice amministrativo, impugnavano il silenzio serbato dal Comune e chiedevano il risarcimento del danno per l’occupazione (a seguito del disposto annullamento degli atti):

c.1) quanto alla prima domanda, seguiva un provvedimento espresso di diniego, impugnato con ulteriore ricorso al Ta.r., per ottenerne l’annullamento, che, tuttavia, veniva respinto in ragione dell’intervenuto acquisto della proprietà delle aree da parte del Comune sin dal settembre 1991 “in forza dell’accessione invertita”, realizzatasi in data antecedente all’entrata in vigore dell’art. 43 del testo unico sugli espropri;

c.2) con riferimento alla seconda domanda, veniva respinto il ricorso, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno decorrente dalla trasformazione irreversibile dell’area o dalla realizzazione dell’opera.

9.2. Nel giudizio di appello, dopo aver riunito le impugnazioni di tali due ultime sentenze, la IV Sezione annullava il provvedimento di diniego di esercizio del potere ex art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, poiché basato su un presupposto inesistente (cioè l’avvenuto acquisto della proprietà a titolo originario da parte del Comune, in assenza di un decreto di esproprio e dell’atto di acquisizione allora consentito dall’art. 43 cit.), e riconosceva il diritto dei privati al risarcimento dei danni subiti, salva l’adozione del provvedimento previsto dal medesimo art. 43.

9.3. Nel dettaglio, nella parte motiva della sentenza, il Consiglio di Stato rilevava che “con l’art. 43 d.p.r. n. 327 del 2001 il legislatore ha introdotto nel sistema una ‘‘norma di chiusura’’ non solo per attribuire all’amministrazione il potere di dare a regime una soluzione al caso concreto quando gli atti del procedimento divengano inefficaci per decorso del tempo o siano annullati dal giudice amministrativo, ma anche per rimuovere il precedente contrasto sussistente tra la prassi interna e la Convenzione europea, così attribuendo all’amministrazione una “legale via d’uscita” per gli illeciti già verificatisi”. Invero, “l’art. 43 … si riferisce anche alle occupazioni sine titulo già sussistenti alla data di entrata in vigore del testo unico”, peraltro, non essendo invocabile, al riguardo, l’art. 57 del testo unico espropri, in quanto esso “si è riferito ai «procedimenti in corso» ed ha previsto norme transitorie unicamente per individuare l’ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi ‘fisiologiche’ del procedimento”, laddove l’art. 43 “riguarda fattispecie in cui risulta scaduto il termine entro il quale poteva essere emesso il decreto di esproprio, ovvero è stato annullato un atto del procedimento ablatorio, e non può esservi la dichiarazione di pubblica utilità de futuro di un’opera già realizzata”.

9.4. In particolare, la Sezione giungeva a tali affermazioni sulla base dei seguenti presupposti ermeneutici, formulati richiamando il proprio consolidato orientamento e facendo applicazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo quali primari e fondamentali canoni di interpretazione per la legge italiana:

“- l’ordinamento italiano non consente che una Amministrazione, mediante un proprio illecito e in assenza di un atto ablatorio, acquisti a titolo originario la proprietà di un’area altrui, sulla quale sia stata realizzata un’opera pubblica o di interesse pubblico (anche se prevista in una dichiarazione della pubblica utilità);

– anche se l’opera pubblica o di interesse pubblico è ultimata, non comincia a decorrere alcun termine di prescrizione per il risarcimento del danno”.

Si affermava pertanto che “l’art. 43 presuppone la perdurante sussistenza del diritto di proprietà e di un illecito permanente dell’Amministrazione che si è a suo tempo impossessata del fondo altrui senza concludere tempestivamente il procedimento di esproprio, anche se è stata realizzata l’opera pubblica o di interesse pubblico”.

9.5. Del resto, al pari di quanto avviene nel caso oggetto del presente giudizio, anche nella controversia di cui alla citata sentenza dell’anno 2007 si poneva un problema di giudicato, atteso che:

a) la prima sentenza del T.a.r., divenuta irrevocabile, in ordine alla legittimità dei provvedimenti adottati “a sanatoria”, nell’accogliere la domanda di annullamento, richiamava l’istituto della ‘accessione invertita’: tuttavia, il Consiglio di Stato riconosceva che in quell’occasione il T.a.r. non aveva inteso stabilire il regime di appartenenza del bene (tant’è che non vi era né domanda, né statuizione al riguardo), ma aveva citato l’istituto solo per evidenziare un profilo di eccesso di potere del provvedimento autoritativo commissariale e il vizio di illegittimità derivata del decreto d’esproprio regionale, di cui poi aveva disposto l’annullamento;

b) nell’originario giudizio civile era stata respinta, con sentenza passata in giudicato, la domanda di risarcimento del danno conseguente alla dedotta illegittimità degli atti di occupazione d’urgenza che avevano condotto all’occupazione delle aree (asseritamente causata dalla mancata approvazione del piano di zona e dalla conseguente mancata dichiarazione di pubblica utilità dei previsti interventi costruttivi): tuttavia, il Consiglio di Stato riconosceva che la domanda dei privati aveva ad oggetto il risarcimento del danno unicamente in ragione della occupazione qualificata ab origine sine tituloin quanto tale, senza aver neppure rappresentato che le opere erano state realizzate, e che la sentenza definitiva aveva invece escluso che l’occupazione dovesse ab origineconsiderarsi contra ius, in quanto basata su legittimi atti di occupazione d’urgenza. Pertanto, non poteva dirsi formato il giudicato sulla diversa domanda risarcitoria causata dalla mancata restituzione delle aree ove erano stati nel frattempo realizzati gli edifici, malgrado l’assenza del tempestivo decreto d’esproprio e malgrado l’annullamento del decreto di esproprio “in sanatoria”.

In ragione di tali considerazioni, può pertanto essere affermato che la Sezione IV, nella citata sentenza n. 5830/2007, abbia escluso la sussistenza di un giudicato preclusivo dell’obbligo di restituzione, sulla base di approfondita analisi delle precedenti pronunce.

Per completezza, si segnala che la sentenza della Sezione Quarta n. 5830 del 2007 è stata impugnata dalla Amministrazione soccombente innanzi alle Sezioni Unite, le quali hanno dichiarato inammissibile il ricorso, con la sentenza 16 aprile 2009, n. 9001.

9.6. Ai fini della decisione della controversia, potrebbe rilevare il se la richiamata pronuncia n. 5830 del 2007 costituisca o meno un precedente perfettamente adattabile al caso in esame.

Un elemento di diversità è dato dal fatto che:

nel presente giudizio, il Tribunale civile ha richiamato in motivazione ‘l’accessione invertita’ per accogliere l’eccezione di prescrizione;

nel giudizio conclusosi con la sentenza della Sezione Quarta n. 5830 del 2007 (come si desume dal suo punto 14.3. in diritto) la sentenza del TAR n. 500 del 2004 ha richiamato ‘l’accessione invertita’ in quanto aveva ‘inteso descrivere il fatto accaduto per dare una qualificazione giuridica … al caso in cui le opere di pubblica utilità risultino realizzate su un fondo altrui, in assenza del valido ed efficace decreto d’esproprio’.

Un elemento di possibile similitudine potrebbe consistere negli ‘aspetti processuali’ che hanno caratterizzato i due giudicati di rigetto.

Infatti, le Amministrazioni in entrambi i casi non avevano ‘formulato una formale domanda di accertamento dell’acquisto della proprietà, con un ricorso o una domanda riconvenzionale’ (tale considerazione è contenuta al punto 13.2. in diritto della sentenza n. 5830 del 2007, sul decisum della sentenza del TAR del Lazio n. 500 del 2004, ma si può estendere con riferimento alla sentenza del Tribunale civile di Cagliari n. 2860/2006, resa tra le parti di questo giudizio).

Si potrebbe dunque concludere nel senso che – così come la sentenza del TAR del Lazio n. 500 del 2004 (resa nel giudizio deciso da questo Consiglio nel 2007) – anche la sentenza in questione del Tribunale civile di Cagliari ha richiamato ‘l’accessione invertita’ solo per decidere la domanda risarcitoria al suo esame, senza determinare il ‘regime proprietario’ dei beni.

9.7. Tali considerazioni non possono che tenere conto delle possibili implicazioni della interpretazione delle sopravvenute disposizioni del testo unico sugli espropri, e in particolare di quelle sull’acquisizione ex art. 43 ed ex art. 42-bis d.P.R. n. 367/2001 (introdotto con il d.l. 7 luglio 2011 n. 98, successivamente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 43 cit., disposta dalla sentenza della Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293), soprattutto con riferimento alla preesistente applicazione della prassi sulla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ o ‘espropriazione di fatto o sostanziale’ e al rispetto da parte dell’ordinamento italiano delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Invero, sulla base delle statuizioni della sentenza del 2007 e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo, si potrebbe – in ipotesi – giungere ad affermare che la mera pronuncia (di rigetto) sulla domanda di risarcimento per equivalente, sulla quale si è formato il giudicato, non sia di per sé idonea a determinare il passaggio della proprietà in capo all’Amministrazione per ‘accessione invertita’ o ‘espropriazione sostanziale’ (sia per inidoneità in sé, per assenza di un univoco dispositivo traslativo della sentenza del giudice civile, sia per l’assenza – constatata in base all’attuale quadro normativo – di una disposizione attributiva dello stesso potere al giudice civile di disporre l’alienazione), con la conseguenza che andrebbe ritenuto tuttora persistente l’illecito.

Pertanto, in ultima analisi, la domanda di restituzione, proposta successivamente alla formazione del giudicato che ha respinto la domanda risarcitoria per prescrizione dell’azione, dovrebbe essere considerata ammissibile, con l’ulteriore conseguenza che potrebbero ritenersi sussistenti i presupposti per l’esercizio del potere-dovere di effettuare la scelta disciplinata dall’art. 42-bis cit. (che può essere ordinata dal giudice amministrativo, come rimarcato dalla Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020).

10. Una questione in qualche modo analoga a quella decisa nel 2007 è stata nuovamente affrontata da questa Sezione, con la sentenza n. 1827 del 13 marzo 2020 (avente ad oggetto una vicenda di occupazione senza titolo di fondi, risalente agli anni in cui la giurisprudenza civile seguiva la prassi sulla ‘occupazione appropriativa’), la quale ha deciso un caso in cui:

– il giudice civile, con una sentenza irrevocabile (della Corte d’appello del 2010, contro la quale era stato proposto un ricorso, respinto nel 2012 dalla Corte di Cassazione), aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni da occupazione senza titolo, ancora una volta in accoglimento dell’eccezione di prescrizione, essendo decorso il quinquennio tra l’irreversibile trasformazione del suolo e la notifica dell’atto introduttivo del giudizio civile;

– dopo l’entrata in vigore dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri e dopo l’esito del giudizio civile, nel 2013 gli originari proprietari avevano agito dinanzi al giudice amministrativo per chiedere la restituzione dell’area e, in alternativa, il pagamento dell’indennizzo per equivalente, per il caso in cui il Comune avesse emanato l’atto di acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis citato e, in ogni caso, la condanna del Comune al risarcimento dei danni da mancato godimento dell’immobile e dei danni extrapatrimoniali (con domande che – dopo una sentenza di primo grado di accoglimento parziale del ricorso – sono state respinte per ragioni processuali attinenti all’irrituale deposito del ricorso introduttivo, con la sentenza di questo Consiglio n. 4040 del 2014, di riforma della sentenza del TAR);

– con un ulteriore ricorso dinanzi al giudice amministrativo, gli interessati impugnavano il silenzio serbato dall’Amministrazione sulla loro istanza volta ad ottenere l’adozione di un decreto di esproprio ovvero di un decreto ex art. 42-bis T.U. n. 327/2001, con una domanda respinta in primo grado dal TAR, ma che poi è stata accolta dalla Sez. IV di questo Consiglio, con la citata sentenza n. 1827 del 2020.

La questione centrale di tale giudizio riguardava il se il giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria, per rilevata prescrizione, aveva determinato il trasferimento del diritto di proprietà a favore dell’Amministrazione, dovendosi rilevare se il trasferimento del diritto costituiva o meno il presupposto logico-giuridico della statuizione relativa alla prescrizione del diritto al risarcimento dei danni e se ci fosse sul punto un decisum.

La sentenza n. 1827 del 2020, di accoglimento dell’appello della parte privata, ha escluso che il giudice civile aveva affermato la sussistenza dell’acquisto da parte dell’Amministrazione della proprietà dell’area per ‘accessione invertita’ ed ha escluso che, pertanto, si era formato un giudicato, sia pure implicito, sul punto.

La Quarta Sezione, quindi, non ha affrontato funditus la questione se la formazione del giudicato (di reiezione) sulla domanda risarcitoria costituisca di per sé un ostacolo alla successiva proposizione della domanda di risarcimento per equivalente ovvero della domanda di emanazione del provvedimento discrezionale ex art. 42-bis cit., avendone ravvisato la mancanza del presupposto (la formazione del giudicato preclusivo).

11. Nel caso di specie, si può rilevare che:

a) da un lato, non vi è stata alcuna statuizione in ordine al trasferimento della proprietà dei fondi, non essendo stata mai avanzata una richiesta di accertamento (o una domanda riconvenzionale) in tal senso nel corso del giudizio civile: circostanza, del resto, confermata dalla perdurante doppia intestazione dei terreni in questione presente al catasto (in favore sia della signora Maria Chiara Scano che dell’Azienda Brotzu), come riportato dagli appellanti;

b) dall’altro, alla luce delle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 2, 3 e 4 del 2020, non è giuridicamente configurabile la c.d. rinuncia abdicativa (intesa come modalità alternativa di cessazione dell’illecito derivante dall’occupazione illegittima), peraltro neanche dedotta dalle parti in causa (pur se evocata nella stessa sentenza impugnata in questa sede).

12. La decisione in un senso o nell’altro – sulla formazione di un ‘giudicato del giudice civile preclusivo’ della domanda di tutela avente per oggetto la restituzione (o l’applicabilità dell’art. 42 bisdel testo unico sugli espropri) – determina delle inevitabili conseguenze, ben prospettate dalle parti.

12.1. Invero, per un verso, qualora, dando priorità all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, si ritenesse sussistente tale ‘giudicato preclusivo’ (avente per oggetto soltanto la domanda risarcitoria per equivalente, ma da ‘estendere’ in via interpretativa al ‘regime proprietario’ del bene), i privati – che hanno subito l’occupazione senza titolo del bene sul quale è stato realizzato il complesso ospedaliero – resterebbero privi di un ristoro effettivo: il giudicato di rigetto dell’azione risarcitoria dovrebbe così essere inteso nel senso che gli interessati non potrebbero agire per ottenere la restituzione del bene e neppure per ottenere dall’Autorità che utilizza il bene l’emanazione del provvedimento discrezionale, previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri.

Tale conclusione potrebbe risultare inappagante, sia perché basata su una rilevanza ultra vires del giudicato del giudice civile (concernente la domanda risarcitoria e non anche quella di restituzione, basata su una diversa causa petendi e comportante comunque un diverso petitum), sia perché il giudice civile ha ritenuto di decidere la controversia sulla base di una prassi e di un diritto vivente in contrasto con le previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché attributivi di rilievo giuridico alla ‘occupazione appropriativa’, quando si riteneva che solo l’azione di risarcimento del danno poteva essere esperibile (per la dettagliata ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato la patologia dell’azione amministrativa in materia di espropri, cfr. la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2020, oltre alle sue sentenze nn. 2 e 3).

12.2. Per altro verso, volendo invece dare rilievo al principio di effettività della tutela del diritto di proprietà, si dovrebbe interpretare letteralmente, o restrittivamente, la sentenza su cui si è formato il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente, potendo risultare anche tale soluzione non del tutto appagante, poiché si consentirebbe – dopo tale giudicato – di intentare l’azione restitutoria (basata quanto meno sulla diversità del petitum) ovvero di chiedere l’adozione del provvedimento discrezionale ex art. 42-bis (quale titolare dell’interesse legittimo da esso tutelato), malgrado a suo tempo non si sia proposto un ricorso alla CEDU, dopo l’esito contrario del giudizio civile.

13. Ciò premesso, il Collegio, ai fini dell’inquadramento della questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se nel caso di specie la proposizione della domanda restitutoria successivamente alla formazione del giudicato sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno una violazione dell’art. 2909 c.c., ritiene che vada ricostruito il rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma specifica e del risarcimento per equivalente.

13.1. Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che:

a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non mutamento (“mutatio”), della domanda di reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass. civ., Sez. VI, 16 maggio 2017, n. 12168). Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente, proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio perché è già contenuta in essa;

b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica come domandato dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058, comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per equivalente costituisce un minusrispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest’ultima forma, per cui il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice, senza violare l’art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 259/2013; Sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709; Sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552; si veda inoltre Cass. civ., Sez. I, 12 gennaio 2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la domanda di restituzione del fondo allo schema dell’art. 2058 c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica);

c) “per come ricavabile dal dato testuale dell’art. 2058 c.c. (là dove precisa che “il danneggiato può chiedere…”), mentre la richiesta del risarcimento per equivalente contiene la domanda di risarcimento in forma specifica, sicché domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d’ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l’impraticabilità della riparazione in forma specifica” (Cons. St., Sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500), ponendosi altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cons. giust. amm. Sicilia , Sez. giurisd., 3 novembre 2017, n. 465);

d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di giudizio, per una delle due modalità costituisca una mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli(cfr. Cons. Stato, Sez. IV , 22 gennaio 2014, n. 306; Sez. IV, 1° giugno 2011, n. 3331), essendo evidente, per un verso, che la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive (proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e trasformazione), del petitum(la restituzione del suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di acquisizione ex 42 bis) e della causa petendi (l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del suolo) (Cons. Stato, Sez. IV , 22 gennaio 2014, n. 306).

13.2. Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire – a rigore – anche le pretese oggetto di questo giudizio.

14. A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza europea e nazionale per la quale il diritto europeo non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario.

14.1. Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno sottolineare come – in termini generali – la stessa Corte di giustizia (sentenza 3 settembre 2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e sentenza 16 marzo 2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte di giustizia UE, sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).

Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza 16 maggio 2000, causa C 78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).

In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di giustizia UE, 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit., punto 21; 1° giugno 1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag. I 3055, punti 46 e 47).

Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando sulla questione (Corte giustizia, grande sezione, 6 ottobre 2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non spetti la possibilità di revocare una decisione giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente alla data in cui la decisione è divenuta definitiva, finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei ricorsi di natura amministrativa.

È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, di modo che il giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a disapplicare le norme processuali interne che conferiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione nazionale contrastante col diritto unionale.

14.2. Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di contrasto con una decisione definitiva della Commissione europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr. Cass., Sez. trib., 28 novembre 2019, n. 31084; Sez. V, 13 luglio 2018, n. 18642; Sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2046; Sez. trib., 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127; Sez. V, 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. trib., 15 dicembre 2010, n. 25320).

Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015, al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica (“Come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, ne risulta che se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene. In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”).

15. Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

15.1. Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’, sono state pronunciate in casi in cui per definizione si erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari, all’esito dei relativi giudizi civili.

Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale di superare il giudicato che con esso si sia posto in contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi interni.

15.2. Nella specie, si potrebbe ritenere che ancora sarebbe rimediabile la violazione del diritto di proprietà incontestabilmente verificatasi in danno degli appellanti, i quali hanno agito con una azione di restituzione, diversa rispetto a quella risarcitoria per equivalente, e comunque risultano ‘protetti’ dal sopravvenuto art. 42 bis del testo unico sugli espropri, che ha innovativamente introdotto il potere di acquisizione, da un lato attribuendo il potere (prima non riconosciuto dal sistema) di acquisire con atto autoritativo il bene, dall’altro rafforzando la posizione dei proprietari, resi titolari dell’interesse legittimo pretensivo, su cui si è univocamente espressa l’Adunanza Plenaria con le citate sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020.

Nell’ottica europea, potrebbero avere rilievo le seguenti circostanze: ad oggi, non vi è stato alcun atto di una autorità amministrativa o giurisdizionale che abbia disposto il passaggio di proprietà e i proprietari non hanno ottenuto alcuna somma, essendovi stata una sentenza del giudice civile che ha respinto la domanda risarcitoria per equivalente, proposta quando ancora in sede giurisprudenziale si dava rilievo alla prassi poi superata, perché rivelatasi in contrasto con le sentenze della Corte di Strasburgo e retrospettivamente superata con l’entrata in vigore del testo unico sugli espropri (ovvero del citato art. 42 bis, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del suo art. 43).

Sotto tale profilo, si dovrebbe attribuite rilievo proprio alla definitiva espunzione della prassi della ‘occupazione appropriativa’ o della ‘accessione invertita’ dal nostro ordinamento e, in particolare, alle statuizioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (a partire da Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96), con cui è stato affermato che tale prassi risultava in contrasto con l’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che contempla e consacra il principio di legalità (il principio è stato, poi, ribadito, fra l’altro, dalla Corte con le pronunce Sez. IV, 17 maggio 2005; Sez. IV, 15 novembre 2005, ric. 56578/00; Sez. IV, 20 aprile 2006).

15.3. Ciò nonostante, va ricordato che la stessa Corte EDU, pur ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, § 69; 6 marzo 2007, Scordino c. Italia, § 16): la Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il ristoro dei proprietari.

15.4. D’altra parte, per la soluzione della questione in esame, rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale:

a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa, quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;

b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali”;

c) ha ritenuto che l’art. 42-bisP.R. 8 giugno 2001, n. 327, sia applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene).

Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda di applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (Cons. Stato, sez. IV, 21 settembre 2020, nn. 5527 e 5522), sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42 bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi(basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42 bis).

16. In conclusione, ad avviso del Collegio, va deciso se vi sia coincidenza della domanda risarcitoria con la domanda restitutoria, valutando se vada constatato un effetto preclusivo del giudicato civile, anche sulla base delle seguenti considerazioni sistematiche:

a) quando era seguita dal giudice civile la prassi nazionale della ‘occupazione appropriativa’, la domanda risarcitoria per equivalente risultava l’unica ‘in astratto’ utilmente esperibile dal privato il cui bene fosse occupato illecitamente;

b) ‘in concreto’, per di più neppure in realtà sussisteva sempre la possibilità giuridica di ottenere il risarcimento del danno per equivalente, dal momento che – mentre prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 1464 del 1983 era pacifico che non poteva decorrere alcun termine di prescrizione quinquennale della domanda, per la natura permanente dell’illecito consistente nella occupazione senza titolo – l’overrulingdisposto da tale sentenza ha in sostanzaeliminato irrimediabilmente la tutela risarcitoria per equivalente, per i proprietari che prima di essa ritenevano inapplicabile il termine di prescrizione, in ragione della natura permanente dell’illecito, e non avevano curato la periodica trasmissione di atti interruttivi della prescrizione.

Peraltro, al fine di individuare quale sia nella specie l’ambito di operatività del giudicato civile, ci si interroga pure se un tale effetto preclusivo sia necessariamente subordinato alla presenza della formale o quanto meno chiara e inequivocabile statuizione, nella pronuncia del giudice civile divenuta irrevocabile, sull’avvenuto trasferimento del bene in capo all’Amministrazione a seguito dell’irreversibile trasformazione, in considerazione della prassi allora seguita (chiara e inequivocabile statuizione che avrebbe potuto avere un autonomo rilievo anche al fine di far decorrere il termine entro il quale proporre il ricorso alla Corte di Strasburgo, per la regola del previo esaurimento dei rimedi interni).

Invero, si potrebbe ritenere ancora controverso il caso, come quello di specie, in cui una formale statuizione in tal senso non vi è stata, sebbene la pronuncia giurisdizionale abbia respinto la domanda risarcitoria per prescrizione, sia pure sul presupposto (rivelatosi retrospettivamente inconfigurabile) dell’operare della ‘occupazione appropriativa’.

17. Le considerazioni che precedono inducono comunque la Sezione a ritenere che – qualora l’Adunanza Plenaria ritenga che gli appellanti siano proprietari del terreno oggetto del giudizio – al giudicato civile formatosi tra le parti si debba attribuire rilievo, in sede di conseguente applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri.

Tale articolo dispone che, a seguito dell’emanazione dell’atto discrezionale di acquisizione dell’area, l’Autorità che occupa il terreno deve corrispondere al proprietario non solo il controvalore del bene, ma anche gli importi ulteriori, spettanti in considerazione dell’occupazione senza titolo che si è protratta nel tempo e a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale (nelle misure indicate dallo stesso art. 42 bis).

Orbene, ad avviso della Sezione, qualora gli appellanti si dovessero ancora considerare i proprietari dell’area, aventi titolo ad ottenere l’emanazione di un provvedimento ex art. 42 bis, si dovrebbe comunque statuire nel senso che, nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione, l’Autorità debba corrispondere il suo controvalore, ma non debba anche risarcire i danni causati dall’occupazione senza titolo che si è protratta nel tempo: sotto tale profilo, si dovrebbe ritenere che dovrebbe avere comunque rilievo preclusivo la sentenza del giudice civile, che a suo tempo ha accolto l’eccezione di prescrizione con riferimento al diritto al risarcimento del danno.

Una tale soluzione risulterebbe pienamente coerente con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale – come sopra si è osservato – ha ammesso come a seguito della realizzazione dell’opera pubblica possa esservi la sanatoria, purché sia corrisposto il controvalore del bene a coloro che ne perdano la titolarità.

Qualora ritenga che l’Autorità debba provvedere ai sensi dell’art. 42 bis, valuterà inoltre l’Adunanza Plenaria se – per il caso in cui poi l’Autorità emetta l’atto di acquisizione – il giudicato civile formatosi tra le parti precluda anche il risarcimento del danno non patrimoniale, dovuto ai sensi dell’art. 42 bis nel caso in cui sia disposta l’acquisizione nei casi ‘ordinari’ (cioè non caratterizzati da un precedente giudicato civile concernente la domanda risarcitoria per equivalente) in cui si adegui lo stato di diritto allo stato di fatto.

18. Per tutte le considerazioni che precedono, si rimettono, pertanto, all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del cod. proc. amm., le seguenti questioni:

a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ – sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;

b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;

c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42 bisdel testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendie del petitum(riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);

d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente).

19. Valuterà l’Adunanza Plenaria se affermare i rilevanti principi di diritto o se definire il secondo grado del giudizio.

20. La statuizione delle spese di lite vi sarà con la sentenza definitiva.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, non definitivamente pronunciando sul ricorso in appello n. 7540 del 2019, di cui in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al Segretario incaricato di assistere all’Adunanza plenaria.

Dispone la comunicazione dell’ordinanza alle parti costituite.

Spese al definitivo.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2020 svoltasi ai sensi degli artt. 84 del d.l. n. 18/2020 e 4 del d.l. n. 28/2020, con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Leonardo Spagnoletti, Consigliere

Luca Lamberti, Consigliere

Alessandro Verrico, Consigliere, Estensore

Nicola D’Angelo, Consigliere