E SE IL DIVIETO DI FUMO ALL’APERTO (E LE RELATIVE SANZIONI) INTRODOTTO DAL COMUNE DI MILANO FOSSE ILLEGITTIMO? BREVI NOTE SUI RAPPORTI RA PRINCIPIO DI LEGALITA E AUTONOMIE LOCALI

 

Il divieto di fumo all’aperto in vigore nel comune di Milano da 1 ° gennaio 2025 è stato introdotto con un regolamento del Consiglio Comunale approvato con deliberazione n. 56 del 19 novembre 2020.

Il regolamento in questione venne impugnato da alcuni cittadini (nella qualità di fumatori e rivenditori di generi di tabacco), che avevano lamentato, fra l’altro, l’incompetenza assoluta del Comune ad intervenire in materia di tutela della salute, la violazione dell’art. 23 Cost. (per l’introduzione di una limitazione alla libertà dei cittadini senza base legislativa), oltre che l’insussistenza dei presupposti legittimati l’esercizio del potere regolamentare del Comune ai sensi degli artt. 5 e 50, commi 5 e 7-ter, TUEL.

Con la sentenza n. 2631/2021, il T.a.r. Lombardia respinse, tuttavia, iI ricorso con alcune interessanti affermazioni in ordine al rapporto tra principio di legalità sostanziale e autonomia regolamentare degli enti locali.

Secondo il T.a.r., rispetto alle autonomie locali, il principio di legalità sostanziale subisce un temperamento strettamente correlato al riconoscimento costituzionale dell’autonomia e, quindi, alla loro rappresentatività, insita nel fatto che l’organo di base negli enti in questione è anch’esso eletto. Ne consegue che i Comuni (e gli altri enti locali) nell’esercizio della loro potestà regolamentare possono introdurre divieti e, più in generale, limitazioni alla libertà dei cittadini, e correlate sanzioni amministrative, anche prive di una base legislativa e a prescindere dalla sussistenza di situazioni contingibili e urgenti.

Non solo, l’adozione dei regolamenti sarebbe legittima in ogni materia di competenza comunale, anche se manca una specifica previsione di legge che attribuisce il relativo potere. L’ultima parte dell’art. 117 comma VI stabilisce, infatti, che “i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. La disposizione, secondo iI T.a.r., tende, appunto, a valorizzare l’autonomia normativa degli enti infraregionali, con un riconoscimento sostanzialmente basato sulla equazione per cui, all’esercizio di funzioni amministrative (attribuite, proprie, conferite) da parte degli enti territoriali corrisponde il potere – in capo ad essi – di “regolare” tali funzioni, anche introducendo sanzioni amministrative prive di base legislativa.

Nel caso di specie, il divieto in questione rappresenterebbe una misura di contrasto al fenomeno dell’inquinamento “di prossimità” che, sostanziandosi nel divieto di fumare laddove non è possibile garantire il rispetto della distanza di almeno 10 metri da altre persone, contribuirebbe, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, a ridurre il degrado ambientale e il pregiudizio alla vivibilità urbana, ravvisato dall’Amministrazione nell’ambito territoriale di propria competenza.

La sentenza solleva alcune considerazioni critiche.

La Corte di Cassazione ha più volte ritenuto che la materia delle sanzioni amministrative sul piano costituzionale è riconducibile all’art. 23 Cast., che stabilisce solo una riserva di legge di natura relativa; con l’effetto che senza una legge non è possibile l’introduzione di sanzioni amministrative mediante fonti secondarie.

Anche la Corte costituzionale ha affermato, con sentenza del 18 gennaio 2021, n. 5, e con sentenza n. 134 del 2019, che il potere sanzionatorio amministrativo – che il legislatore regionale ben può esercitare, nelle materie di propria competenza – resta comunque soggetto alla riserva di legge relativa [di cui] all’art. 23 Cast. In quanto anche rispetto al diritto sanzionatorio amministrativo – di fonte statale o regionale che sia – si pone, in effetti, un’esigenza di predeterminazione legislativa dei presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio, con riferimento sia alla configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione, sia alla tipologia e al quantum della sanzione stessa, sia – ancora – alla struttura di eventuali cause esimenti. E ciò per ragioni analoghe a quelle sottese al principio di legalità che vige per il diritto penale in senso stretto, trattandosi, pure in questo caso, di assicurare al consociato tutela contro possibili abusi da parte della pubblica autorità (sent. n. 32 del 2020, punto 4.3.1 del “considerato in diritto”): abusi che possono radicarsi tanto nell’arbitrario esercizio del potere sanzionatorio, quanto nel suo arbitrario non esercizio.

Tutto ciò impone che a predeterminare i presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio sia l’organo legislativo (statale o regionale), il quale rappresenta l’intero corpo sociale, consentendo anche alle minoranze, nell’ambito di un procedimento pubblico e trasparente, la più ampia partecipazione al processo di formazione della legge (sent. n. 230 del 2012); mentre tale esigenza non può ritenersi soddisfatta laddove questi presupposti siano nella loro sostanza fissati da un regolamento.

Il rispetto del principio di tipicità e legaIità nel l’ambito dell’illecito amministrativo comporta che la fattispecie dell’illecito e la relativa sanzione non possono essere introdotti direttamente da fonti normative secondarie, pur ammettendosi che i precetti della legge, se sufficientemente individuati, possano essere integrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare.

L’articolo 7-bis, comma 1, precisa che il potere degli enti locali di stabilire sanzioni per violazioni ai regolamenti sia esercitabile “Salvo diversa disposizione di legge”, perché il regolamento cede sempre alla legge; implicitamente, l’articolo 7-bis comunque sottintende che i comuni possono prevedere sanzioni per violazione dei propri regolamenti, sempre che detti regolamenti obbediscano al principio di legalità: quindi, se la legge non consente ai regolamenti di considerare una fattispecie come sanzionabile, l’articolo 7-bis non può essere applicato. Esso non è da intendere come “norma in bianco”, attributiva ai comuni di un generalizzato potere di fissare la condotta e determinare la sanzione (Cass. sez. 11, n. 29427 del 2023).