SULLA NOZIONE FUNZIONALE DI ENTE PUBBLICO E SULL’IN HOUSE APERTO AI PRIVATI ANCHE ALLA LUCE DELLE NUOVE DIRETTIVE IN MATERIA DI APPALTI

1. La nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione.
Al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica.

2. Questa nozione “funzionale” di ente pubblico, che ormai predomina nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica.

3. La conseguenza che ne deriva è che è del tutto normale, per così dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali.

4. La nozione di ente pubblico che viene in rilievo ai fini della verifica del requisito del controllo analogo nell’ambito dell’istituto dell’in house è particolarmente rigorosa e restrittiva, dovendosi escludere la possibilità di equiparare all’ente pubblico qualsiasi soggetto che, a prescindere dai poteri, dai fini e dalla struttura organizzativa, operi grazie a capitali privati. E questo è certamente il caso delle Università private.

5. Le nuove direttive in materia di appalti, nonostante il loro contenuto in alcune parti dettagliato, non possono ritenersi self-executing per la dirimente considerazione che è ancora in corso il termine previsto per la loro attuazione da parte dello Stato. È vero che la giurisprudenza comunitaria riconosce una forma di rilevanza giuridica alla direttiva anche prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento. Si tratta, però, di una rilevanza giuridica certamente minore rispetto al c.d. effetto diretto (che implica l’immediata applicazione della direttiva dettagliata ai rapporti c.d. verticali), che si traduce semplicemente, in nome del principio di leale collaborazione, in un dovere di standstill, ovvero nel dovere per il legislatore di astenersi dall’adottare, nel periodo interocorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto (C. giust. 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-Environnement Vallonie) e per il giudice di astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva (C. giust. UE, 15 aprile 2008, C-268/08, Impact).

6. Non si tratta, quindi, del dovere di immediata applicazione o dell’obbligo di interpretazione conforme (che operano solo dopo che è scaduto il termine di recepimento), ma soltanto di un obbligo negativo, che si sostanzia nel dovere di astenersi dall’interpretazione difforme potenzialmente pregiudizievole per i risultati che la direttiva intende conseguire.
Si tratta, in altri termini, di un obbligo attenuato rispetto a quello di interpretazione conforme in quanto discende da un principio sì fondamentale del diritto dell’Unione, quale è quello di leale cooperazione, ma, pur tuttavia, gerarchicamente sotto ordinato a quello del primato, il cui mancato rispetto mina la stessa essenza dell’ordinamento dell’Unione.

7. Ritenere da subito possibili forme di partecipazione di capitali privati significherebbe disapplicare la fin qui consolidata giurisprudenza comunitaria sui limiti all’in house, dando prevalenza ad una nozione meno restrittiva prevista da una direttiva sopravvenuta ancora in corso di recepimento.
Non si tratterebbe, quindi, di interpretare il diritto nazionale in maniera conforme al diritto eurounitario sopravvenuto, ma, al contrario, di disapplicare o correggere l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, per assicurarne la conformità alla direttiva sopravvenuta, la quale, però, (non essendo scaduto il termine di recepimento) non è ancora cogente all’interno degli ordinamenti nazionali.

8. L’in house di derivazione comunitaria rappresenta, comunque, una deroga alla regola della concorrenza. Trattandosi di istituto “eccezionale”, di esso il legislatore nazionale può, ma non deve, avvalersi, risultando, pertanto, certamente legittima la scelta di configurare sul piano del diritto interno la possibilità di ricorrere all’istituto in termini più restrittivi rispetto a quelli consentiti (ma non imposti) dal diritto dell’Unione europea.

9. Applicando tali principi, deve quindi ritenersi che l’in house aperto ai privati previsto dall’art. 12 della nuova direttiva, rappresenti non un obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore nazionale potrebbe legittimamente anche decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza ancor più elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9943 del 2014, proposto da:
Consorzio Interuniversitario Cineca, rappresentato e difeso dagli avv. Giuseppe Caia, Nicola Aicardi, Mario Sanino, con domicilio eletto presso Mario Sanino in Roma, viale Parioli N.180;
contro
Be Smart Srl, rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Arturo Satta, Gian Michele Roberti, Anna Romano, con domicilio eletto presso Filippo Satta in Roma, Foro Traiano 1/A;
nei confronti di
Universita’ degli Studi di Reggio Calabria, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. CALABRIA – CATANZARO :SEZIONE II n. 01186/2014, resa tra le parti, concernente affidamento dei servizi informatici relativi all’attivazione del sistema u-gov e esse3

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Be Smart Srl e di Universita’ degli Studi di Reggio Calabria;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2015 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Caia, Sanino, Romano, Satta, Roberti e, dello Stato, Tortora;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Viene in decisione l’appello proposto dal Consorzio Interuniversitario Cineca per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il T.a.r. per la Calabria, sede di Catanzaro, ha accolto il ricorso proposto in primo grado da Be Smart s.r.l. e, per l’effetto, ha annullato, la delibera del Consiglio di Amministrazione dell’Università della Calabria del 14 aprile 2014.
2. Con la delibera impugnata, l’Università della Calabria, sul presupposto che il rapporto con il Cineca fosse riconducibile alla figura dell’in house, ha disposto l’affidamento diretto senza gara dei servizi informatici relativi all’attivazione del sistema U-GOV e ESSE3 della medesima Università, così confermando, previa integrazione e specificazione della motivazione, i contenuti delle precedenti delibere del Consiglio di Amministrazione del 23 settembre 2013 e del 17 dicembre 2013.
3. La sentenza impugnata ha accolto il ricorso ritenendo che la delibera impugnata non avesse adeguatamente motivato in ordine al possesso da parte del Consorzio interunivestiario CINECA dei requisiti dell’in house providing
Secondo il T.a.r., in particolare, non risulterebbe provato il requisito del controllo analogo, in considerazione del fatto che: a) lo Statuto del Cineca riconosce alle Università consorziate unicamente il diritto di prendere parte alle sedute del Consiglio consortile tramite un proprio rappresentante; b) manca, inoltre, la partecipazione pubblica totalitaria perché al Cineca partecipano anche Università private (come, ad esempio, l’Università commerciale Luigi Bocconi e lo I.U.L.M.).
4. Il Cineca lamenta l’erroneità di tale sentenza, formulando, in sintesi, le seguenti censure:
a) la deroga all’obbligo dell’evidenza pubblica troverebbe il suo fondamento nell’art. 19, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in quanto il Cineca sarebbe titolare di un “diritto esclusivo” ai sensi dell’art. 7, comma 42-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modifiche, in legge 7 agosto 2012, n. 135. Tale disposizione normativa qualifica, infatti, il Cineca quale “unico soggetto nazionale” investito del “compito di assicurare l’adeguato supporto, in termini di innovazione e offerta di servizi, alle esigenze del Ministero, del sistema universitario e del settore di ricerca e del settore istruzione”; b) in ogni caso, anche a prescindere dal rilievo assorbente dell’art. 7, comma 42bis, d.l. n. 95 del 2012, il rapporto tra Università e Cineca rispetterebbe i requisiti dell’in house. Vi sarebbe, infatti, il controllo analogo atteso che: b1) le università non statali presenti nella compagine consortile dovrebbero essere qualificate come enti pubblici o, comunque, soggetti equiparati agli enti pubblici; b2) il Cineca sarebbe sottoposto al controllo analogo congiunto degli enti consorziati sia sotto il profilo funzionale (perché non persegue fini autonomi, ma è un’autorità servente, tenuta ad operare su mandato e nell’interesse dei consorziati stessi), sia sotto il profilo strutturale organizzativo (in quanto tutti i consorziati partecipano tramite un loro rappresentante al Consiglio consortile, il quale, ai sensi dell’art. 7, comma 1, dello Statuto è, fra l’altro, investito delle “funzioni di indirizzo strategico e di controllo nei confronti degli organi consortili, anche ai fini del controllo analogo congiunto”; b3) sempre ai fini del controllo analogo, oltre a quanto previsto dallo Statuto, rileverebbe l’accordo quadro sottoscritto dall’Università della Calabria e il Cineca, approvato dalla delibera del Consiglio di Amministrazione dell’Università 23 settembre 2013.
5. Si è costituita in giudizio la società Be Smart s.r.l., la quale, oltre a chiedere il rigetto dell’appello, ha riproposto, ai sensi dell’art. 101 Cod. proc. amm., il motivo di primo grado (non esaminato dal T.a.r.) volto a far valere la carenza dell’ulteriore requisito dell’attività prevalentemente svolta. Giova evidenziare che Be Smart ha anche notificato tale memoria al dichiarato fine di farla valere anche come appello incidentale, in considerazione del fatto chela sentenza appellata contiene un’incidentale affermazione che sembra dichiarare sussistente il requisito dell’attività prevalentemente svolta.
Secondo Be Smart, tale requisito non sussiste, atteso che Cineca presterebbe la propria attività anche a favore di università non consorziate e di enti pubblici e privati, anche attraverso società controllate, talune (Kions.p.a.) costituite dallo stesso Cineca, altre (SuperComputingSolution s.r.l.) acquisite sul mercato da operatori terzi.
6. Si è costituita in giudizio l’Università della Calabria chiedendo l’accoglimento dell’appello principale proposto dal Cineca.
7. Alla pubblica udienza del 3 febbraio 2015, la causa è stata trattenuta per la decisione.
8. L’appello non merita accoglimento.
9. È, innanzitutto, infondato il primo motivo di appello con il quale Cineca contesta la sentenza gravata nella parte in cui non ha preso in considerazione l’art. 7, comma 42-bis, d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito con modificazioni in legge 7 agosto 2012, n. 135).
Muovendo da tale disposizione, Cineca assume di essere titolare di un diritto di esclusiva nella prestazione dei servizi inerenti al sistema universitario, tale per cui le Università ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006, sarebbero legittimate ad affidare in via diretta i propri servizi al Consorzio senza alcuna procedura competitiva.
10. L’interpretazione proposta da Cineca risulta smentita sia dal dato letterale che da quello telelogico.
L’art. 7, comma 42-bis, d.l. n. 95 del 2012, testualmente prevede che: “Il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca promuove un processo di accorpamento dei consorzi interuniversitari Cineca, Cilea e Caspur al fine di razionalizzare la spesa per il funzionamento degli stessi attraverso la costituzione di un unico soggetto a livello nazionale con il compito di assicurare l’adeguato supporto, in termini di innovazione e offerta di servizi, alle esigenze del Ministero, del sistema universitario, del settore ricerca e del settore istruzione. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
Il fine della norma è dichiaratamente quello di contenere i costi, evitando il dispendio di risorse (in termini di strutture, personale e attività) che la coesistenza di tre consorzi con analoghe funzioni determinava.
In tale contesto, Cineca viene qualificato come “unico soggetto a livello nazionale”, non in quanto titolare di un diritto di esclusiva ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006 (come soggetto cioè a favore del quale è prevista una “riserva” nello svolgimento di una certa attività), ma nel senso che, all’esito del previsto processo di accorpamento, rimane l’unico soggetto esistente sul piano nazionale, in luogo dei tre consorzi prima operanti.
Deve, quindi, escludersi, tenendo conto della ratio della norma e del suo complessivo tenere letterale, che l’espressione “unico soggetto a livello nazionale” utilizzata dalla citata disposizione legislativa implichi l’attribuzione a Cineca di un diritto di esclusiva.
11. Del resto, l’attribuzione di un diritto di esclusiva ai sensi dell’art. 18 della direttiva 2004/18/CE attuato con l’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006, implicando la creazione di una situazione di monopolio, per la sua portata significativamente derogatoria della concorrenza e delle regole dell’evidenza pubblica, richiederebbe una esplicita formulazione della volontà legislativa, che certamente manca nella disposizione sopra trascritta.
In ogni caso, non si può non rilevare come, ai sensi dell’art. 18 della direttiva 2004/18/CE (e dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006 che vi ha dato attuazione) il diritto di esclusiva, per poter giustificare la deroga alle regole della concorrenza e dell’evidenza pubblica, deve essere previsto da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative che siano “compatibili con il trattato”.
Nel caso di specie, il requisito della compatibilità sarebbe insussistente: non si ravvisa, infatti, alcun motivo imperativo di interesse generale che, in base alle disposizioni del trattato, possa giustificare la creazione di questa riserva a favore del Cineca, e non risulterebbero, comunque, rispettati i principi di necessità, proporzionalità e trasparenza.
12. Deve, dunque, escludersi che l’affidamento diretto possa essere giustificato ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 163 del 2006, non esistendo a favore di Cineca la titolarità di un diritto esclusivo conferitole dall’art. 7, comma 42-bis, d.. n. 95 del 2012.
13. Occorre, a questo punto, esaminare la sussistenza dei presupposti dell’in house.
Il Collegio ritiene che il legame che sussiste tra l’Università della Calabria e il Cineca non sia riconducibile al modello dell’in house.
14. Preliminarmente, giova ricostruire brevemente i tratti essenziali dell’istituto dell’in house, come risultanti dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale.
I principi generali affermati con la sentenza Teckal e poi costantemente ribaditi con le pronunce successive sono così riassumibili: (i) l’affidamento diretto (senza gara e senza ricorso a procedure di evidenza pubblica) di appalti e concessioni è consentito tutte le volte in cui si possa affermare che l’organismo affidatario (nei casi in questione, una società), ancorché dotato di autonoma personalità giuridica, presenti connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione a un “ufficio interno” dell’amministrazione affidante, poiché in questo caso non vi sarebbe un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale, sicché non si tratterebbe, nella sostanza, di un effettivo “ricorso al mercato” (“outsourcing”), bensì di una forma di “autoproduzione” o comunque di erogazione di servizi pubblici “direttamente” ad opera dell’amministrazione, attraverso strumenti “propri” (“in house providing”); (ii) detta equiparazione sarebbe predicabile esclusivamente in presenza di due specifici presupposti, identificati nel c.d. “controllo analogo”, ovverosia in una situazione, di fatto e di diritto, nella quale l’ente sia in grado di esercitare sulla società un controllo analogo a quello che lo stesso ente esercita sui propri “servizi interni”, e nella necessità che la società svolga la “parte più importante della propria attività” con l’amministrazione o le amministrazioni affidanti.
La Corte di Giustizia UE ha chiarito che il requisito del c.d. controllo analogo richiede la necessaria partecipazione pubblica totalitaria, posto che la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi (cfr. C. giust. UE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; C. giust. UE 21 luglio 2005, C-231/03, Consorzio Coname; C. giust. UE, sez. I, 18 gennaio 2007, C-225/05, Jean Auroux).
La partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente verificare la presenza di strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile a favore del socio totalitario. L’amministrazione aggiudicatrice deve, infatti, essere in grado di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell’entità affidataria e il controllo esercitato deve essere effettivo, strutturale e funzionale (v., in tal senso, C. giust. UE, sez. III, sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord, punto 27 della motivazione e giurisprudenza ivi citata).
Inoltre, la Corte di giustizia ha riconosciuto che, a determinate condizioni, il “controllo analogo” può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l’entità affidataria (v., in tal senso, la sentenza Econord, punti da 28 a 31 e giurisprudenza ivi citata).
In base alla giurisprudenza da ultimo richiamata, nel caso in cui venga fatto ricorso ad un’entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il “controllo analogo” può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente da ciascuna di esse.
Da ciò consegue che, se un’autorità pubblica diventa socia di minoranza di una società per azioni a capitale interamente pubblico al fine di attribuirle la gestione di un servizio pubblico, il controllo che le autorità pubbliche associate nell’ambito di tale società esercitano su quest’ultima può essere qualificato come analogo al controllo che esse esercitano sui propri servizi, qualora esso venga esercitato congiuntamente dalle autorità suddette.
Con particolare riferimento alla possibilità di ritenere sussistente un controllo analogo esercitato in forma congiunta, la Corte di Giustizia ha ulteriormente chiarito che ove più autorità pubbliche facciano ricorso ad un’entità comune ai fini dell’adempimento di un compito comune di servizio pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un potere di controllo individuale su tale entità; ciononostante, il controllo esercitato su quest’ultima non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell’autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell’entità in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato la nozione stessa di controllo congiunto.
Infatti, l’eventualità che un’amministrazione aggiudicatrice abbia, nell’ambito di un’entità affidataria posseduta in comune, una posizione inidonea a garantirle la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale entità aprirebbe la strada ad un’elusione dell’applicazione delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o di concessioni di servizi, dal momento che una presenza puramente formale nella compagine di tale entità o in un organo comune incaricato della direzione della stessa dispenserebbe detta amministrazione aggiudicatrice dall’obbligo di avviare una procedura di gara d’appalto secondo le norme dell’Unione, nonostante essa non prenda parte in alcun modo all’esercizio del «controllo analogo» sull’entità in questione (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2005, Coname).
15. Nel caso di specie deve escludersi che ricorrano i requisiti dell’in house, così come definiti dalla giurisprudenza appena richiamata.
16. In primo luogo, manca il requisito della partecipazione pubblica totalitaria.
Al consorzio Cineca partecipano, infatti, anche Università private, come, ad esempio, l‘Università commerciale Bocconi di Milano, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e lo I.U.L.M.
La tesi dell’appellante, secondo cui le Università private dovrebbero essere qualificate comunque come enti pubblici, in ragione del fatto che svolgono attività di interesse pubblico, non può essere condivisa.
17. È vero, infatti, che nel corso degli ultimi anni, la nozione di ente pubblico si è progressivamente “frantumata” e “relativizzata”. Spesso la giurisprudenza ha riconosciuto, dando rilievo a dati sostanziali e funzionali, natura pubblicistica a soggetti formalmente privati, al fine di sottoporli in tutto o in parte ad un regime di diritto amministrativo. Tale equiparazione è stata a volte espressamente stabilita anche dal legislatore con disposizioni che sottopongono soggetti formalmente privati a regole pubblicistiche: si pensi alla stessa figura dell’organismo di diritto pubblico o alle più recenti previsioni normative che hanno in parte “amministrativizzato” l’attività delle società a partecipazione pubblica (cfr., ad esempio, l’art. 18 d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).
Tale fenomeno ha trovato un punto di emersione anche in sede processuale, tanto che l’art. 7, comma 2, Cod. proc. amm. espressamente prevede, ai fini del riparto della giurisdizione, che “Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”.
È altrettanto vero che, proprio con particolare riferimento alle Università “private”, la giurisprudenza, in alcune occasioni (in particolare ai fini del riparto della giurisdizione sulle controversie concernenti il rapporto di impiego o della sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti per le controversie aventi ad oggetto la responsabilità di amministratori e dipendenti), ha affermato la loro equiparazione agli enti pubblici, dando rilevanza gli scopi, alla struttura organizzativa e ai poteri amministrativi ritenuti del tutto analoghi a quelli delle Università statali (così testualmente, ad esempio, Cass. Sez. Un. , 11 marzo 2004, n. 5054 riferita alla LUISS).
18. Tali tendenze normative e tali arresti giurisprudenziali non possono, tuttavia, essere invocati per sostenere, sic et simpliciter, una completa equiparazione, ad ogni fine, tra Università private ed enti pubblici.
La nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordinamentale non può, infatti, ritenersi fissa ed immutevole. Non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione.
Al contrario, l’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico. Si ammette ormai senza difficoltà che uno stesso soggetto possa avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e possa, invece, non averla ad altri fini, conservando rispetto ad altri istituti regimi normativi di natura privatistica.
Questa nozione “funzionale” di ente pubblico, che ormai predomina nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre, in altri termini, di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica.
La conseguenza che ne deriva è, come si diceva, che è del tutto normale, per così dire “fisiologico”, che ciò che a certi fini costituisce un ente pubblico, possa non esserlo ad altri fini, rispetto all’applicazione di altri istituti che danno rilievo a diversi dati funzionali o sostanziali.
Emblematica, in tal senso, è la figura dell’organismo di diritto pubblico, che è equiparato sì all’ente pubblico quando aggiudica contratti (ed è sottoposto alla disciplina amministrativa dell’evidenza pubblica), rimanendo, però, di regola, nello svolgimento di altre attività, un soggetto che tendenzialmente opera secondo il diritto privato.
19. Tornando al caso oggetto del presente giudizio, appurato che la nozione di ente pubblico cui si deve fare riferimento è funzionale e cangiante, allora, la circostanza che talvolta le Università private siano state ritenute enti pubblici dalla giurisprudenza (e trattate come tali ai fini della giurisdizione sulle controversie in materia di impiego o della giurisdizione della Corte dei conti) non è di per sé sufficiente per ritenere che lo siano sempre. Non è di per sé sufficiente per ritenere che lo siano, per quanto più interessa in questa sede, anche quando si tratta di verificare la condizione, rilevante per configurare un rapporto in house, della partecipazione pubblica totalitaria.
La nozione di ente pubblico che viene in rilievo per verificare se sia soddisfatto il requisito del controllo pubblico totalitario non può, infatti, non tener conto della ratio sottesa all’istituto dell’in house medesimo.
Alla base dell’istituto vi è, come sopra si è ricordato, la considerazione che il soggetto in house, nonostante la formale distinta personalità giuridica, ha nella sostanza un rapporto di immedesimazione con l’Amministrazione affidante, essendo equiparabile ad un suo organo o ad un suo ufficio interno privo di sostanziale autonomia decisionale.
Un rapporto, quindi, solo apparentemente intersoggettivo, ma, nella sostanza, equiparabile ad un rapporto interorganico. L’esclusione dalla disciplina dell’evidenza pubblica deriva proprio dal fatto che rispetto al soggetto in house non è possibile neanche ravvisare una vera e propria fattispecie contrattuale, atteso che la nozione di contratto implica l’esistenza di una relazione intersoggettiva, implica cioè l’esistenza di almeno due soggetti che siano sostanzialmente distinti.
In quest’ottica si spiega perché la giurisprudenza comunitaria abbia richiesto come condizione necessaria la partecipazione pubblica totalitaria. La Corte di giustizia ha motivato l’incompatibilità di qualsiasi partecipazione anche minoritaria di un’impresa privata sulla base di due considerazioni principali: a) qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente rispetto a quelli di interesse pubblico; b) l’attribuzione diretta di un appalto pubblico ad un soggetto partecipato anche in minima parte da privati pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera nella misura in cui offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale dell’ente beneficiario dell’affidamento un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti (cfr. Corte giustizia,Sez. I, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Hall).
È evidente, quindi, che ciò che rileva per escludere il controllo analogo è la mera presenza, anche in minima parte, di capitali provenienti da privati, perché l’investimento privato persegue fini disomogenei rispetto a quelli di pubblico interesse, escludendo quindi quell’assimilazione sostanziale su cui si fonda l’istituto dell’in house. Il privato titolare di quei capitali, inoltre, grazie all’affidamento diretto beneficerebbe di un vantaggio competitivo ottenuto senza rispetto delle regole sulla concorrenza.
20. Alla luce di queste considerazioni deve allora ritenersi che la nozione di ente pubblico che viene in rilievo ai fini della verifica del requisito del controllo analogo nell’ambito dell’istituto dell’in house sia particolarmente rigorosa e restrittiva, dovendosi escludere la possibilità di equiparare all’ente pubblico qualsiasi soggetto che, a prescindere dai poteri, dai fini e dalla struttura organizzativa, operi grazie a capitali privati. E questo è certamente il caso delle Università private di cui si discorre in questa sede.
22. Ci si deve chiedere se tali conclusioni meritino conferma anche alla luce delle previsioni contenuto nelle nuove direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni.
Recentemente, infatti, in sede consultiva, proprio con riferimento specifico al Cineca, si è affermata, valorizzando la portata delle nuove direttive, la compatibilità dell’in house con forme minime di partecipazione privata al capitale (cfr. Cons. Stato, sez. II, parere 30 gennaio 2015, affare n. 18/2013).
Il riferimento è all’art. 12 della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014; all’art. 28 della direttiva 2014/25/UE (settori speciali) e all’art. 17 della direttiva 2014/23/UE (concessioni). Per quel che rileva in questa sede, l’art. 12 della nuova direttiva appalti (2014/24/UE), nel definire in rubrica la materia come quella afferente gli “appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico”, ha in parte recepito la preesistente giurisprudenza, ma in una parte rilevante ha profondamente innovato, definendo in modo parzialmente diverso le condizioni di esclusione dalla direttiva medesima. L’art. 12, lett. c), in particolare, ammette l’in house nonostante l’assenza della partecipazione pubblica totalitaria ritenendo l’istituto compatibile con “forme di partecipazione di capitali privati, che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata”.
23. Il Collegio ritiene che le previsioni contenute nella direttiva 2014/24/UE non assumano rilievo nel presente giudizio.
24. In primo luogo, deve escludersi che la nuova direttiva, nonostante il suo contenuto in alcune parti dettagliato, possa ritenersi self-executing per la dirimente considerazione che è ancora in corso il termine previsto per la sua attuazione da parte dello Stato.
È vero che la giurisprudenza comunitaria riconosce una forma di rilevanza giuridica alla direttiva anche prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento. Si tratta, però, di una rilevanza giuridica certamente minore rispetto al c.d. effetto diretto (che implica l’immediata applicazione della direttiva dettagliata ai rapporti c.d. verticali), che si traduce semplicemente, in nome del principio di leale collaborazione, in un dovere di standstill, ovvero nel dovere per il legislatore di astenersi dall’adottare, nel periodo interocorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto (C. giust. 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-EnvironnementVallonie) e per il giudice di astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva (C. giust. UE, 15 aprile 2008, C-268/08, Impact).
Non si tratta, quindi, del dovere di immediata applicazione o dell’obbligo di interpretazione conforme (che operano solo dopo che è scaduto il termine di recepimento), ma soltanto di un obbligo negativo, che si sostanzia nel dovere di astenersi dall’interpretazione difforme potenzialmente pregiudizievole per i risultati che la direttiva intende conseguire.
Si tratta, in altri termini, di un obbligo attenuato rispetto a quello di interpretazione conforme in quanto discende da un principio sì fondamentale del diritto dell’Unione, quale è quello di leale cooperazione, ma, pur tuttavia, gerarchicamente sotto ordinato a quello del primato, il cui mancato rispetto mina la stessa essenza dell’ordinamento dell’Unione.
Come è stato efficacemente evidenziato in dottrina, se l’obbligo d’interpretazione conforme ha un valore prossimo all’effetto diretto, lo stesso valore non può riconoscersi all’obbligo di astensione da un’interpretazione difforme dal diritto dell’Unione europea che non consente una lettura della norma interna additiva, dovendosi altrimenti ritenere i due istituti giuridici sovrapponibili.
La fattispecie in esame si colloca al di fuori dell’ambito di questa limitata rilevanza giuridica “negativa” che eccezionalmente può essere riconosciuta alla direttiva prima della scadenza del termine di recepimento: le regole sull’in house, di cui si fa applicazione nel presente giudizio, che potenzialmente potrebbero contrastare con le previsioni della nuova direttiva, sono, infatti, regole già esistenti nell’ordinamento nazionale (non introdotte ex novodal legislatore nazionale in violazione del dovere di standstill) e sono, inoltre, regole che trovano la loro fonte proprio nell’ordinamento dell’Unione Europea, avendo esse origine dalla sopra richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia che nel corso degli anni ha fissato rigorosi limiti alla operatività dell’in house.
Non si può, quindi, ritenere che la mera pubblicazione della direttiva determini, prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento, il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria.
26. Per ragioni analoghe, non appare corretto ritenere immediatamente operativa la possibilità di partecipazione di capitali privati house richiamando il c.d. obbligo di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale.
Nel caso di specie, invero,non risultano sussistenti i presupposti per la c.d. interpretazione conforme o per il divieto di interpretazione difforme, secondo quanto già esposto.
A venire in rilievo non è, infatti, una norma nazionale “ambigua” o “plurivoca”, suscettibile di più interpretazioni, di cui almeno una conforme al contenuto di una direttiva comunitaria sopravvenuta.
Viene al contrario in rilievo una nozione diin house di matrice comunitaria (elaborata da una giurisprudenza pietrificata, tanto da costituire diritto vivente) che è univoca nell’escludere la compatibilità dell’istituto con la partecipazione di soggetti privati.
Ritenere da subito possibili forme di partecipazione di capitali privati significherebbe, pertanto, disapplicare la fin qui consolidata giurisprudenza comunitaria sui limiti all’in house, dando prevalenza ad una nozione meno restrittiva prevista da una direttiva sopravvenuta ancora in corso di recepimento.
Non si tratterebbe, quindi, di interpretare il diritto nazionale in maniera conforme al dirittoeurounitario sopravvenuto, ma, al contrario, di disapplicare o correggere l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, per assicurarne la conformità alla direttiva sopravvenuta, la quale, però, (non essendo scaduto il termine di recepimento) non è ancora cogente all’interno degli ordinamenti nazionali.
27. In ogni caso, anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte sul regime giuridico della direttiva in pendenza del termine di recepimento, appare decisivo il richiamo alla consolidata giurisprudenza nazionale (avallata anche dalla Corte costituzionale) secondo cui l’in house di derivazione comunitaria rappresenta, comunque, una deroga alla regola della concorrenza. Trattandosi di istituto “eccezionale”, di esso il legislatore nazionale può, ma non deve, avvalersi, risultando, pertanto, certamente legittima la scelta di configurare sul piano del diritto interno la possibilità di ricorrere all’istituto in termini più restrittivi rispetto a quelli consentiti (ma non imposti) dal diritto dell’Unione europea.
Applicando tali principi, deve quindi ritenersi che l’in house aperto ai privati previsto dall’art. 12 cit. della nuova direttiva, rappresenti non un obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore nazionale potrebbe legittimamente anche decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza ancor più elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario. La Corte costituzionale, infatti, nell’affermare la legittimità costituzionale della disciplina nazionale che in materia di servizi pubblici locali prevedeva limiti all’utilizzo dell’in house ulteriori rispetto a quelli enucleati dalla giurisprudenza comunitaria, ha testualmente affermato che “è innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princípi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato. Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario” (Corte cost. 17 novembre 2010, n. 325; in termini analoghi cfr. anche Corte cost. 20 marzo 2013, n. 46).
28. Va ulteriormente considerato, peraltro, che in forza dell’art. 12 della nuova direttiva appalti, le “forme di partecipazione di capitali privati” devono essere “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati”.
Nel caso di specie, tale ulteriore condizione risulta carente.
In primo luogo, infatti, manca una prescrizione legislativa che espressamente preveda la partecipazione di soggetti privati al CINECA.
Non può, a tal fine, ritenersi sufficiente il già citato art. 7, comma 42-bis, d.l. n. 95 del 2012, che, prevedendo l’accorpamento dei preesistenti consorzi interuniversitari Cineca, Cilea e Caspur, ha, di fatto, determinato l’ingresso nel Cineca di alcuni soggetti privati (Milano Bocconi, Milano Cattolica del Sacro Cuore, Milano IULM).
La partecipazione al Cineca di oggetti privati non è, dunque, oggetto di esplicita prescrizione legislativa, ma è solo una conseguenza di fatto prodotta dalla fusione per incorporazione (questa sì oggetto di espressa previsione legislativa) del Cineca con in Consorzi Cilea e Caspur.
In secondo luogo, anche a rinvenire in tale disposizione la prescrizione legislativa richiesta dalle nuove direttive, difficilmente risulterebbe rispettata la condizione di compatibilità con i trattati, che sembra richiedere il rispetto dei principi di necessità (rispetto al perseguimento di motivi imperativi di interesse generale), proporzionalità e trasparenza.
29. Nessun utile argomento a sostegno della tesi dell’appellante può, quindi, desumersi dall’art. 12 della nuova direttiva appalti.
Ne deriva, quindi, che, alla luce delle considerazioni svolte, la mancanza della partecipazione pubblica totalitaria vale, di per sé, alla luce del diritto vigente, ad escludere la configurabilità del rapporto in house.
30. Per completezza può comunque ulteriormente evidenziarsi che nel caso di specie risultano carenti anche gli ulteriori presupposti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria, ovvero l’esistenza di strumenti idonei ad assicurare l’esercizio da parte dell’Università della Calabria, anche in forma congiunta con altri enti consorziati, di poteri di controllo analogo.
31. Non vale in senso contrario richiamare il principio affermato dalla Corte di giustizia UE nella sentenza sez. III 29 novembre 2012, (cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord), secondo cui, ove più autorità pubbliche facciano ricorso ad un’entità comune ai fini dell’adempimento di un compito comune di servizio pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un potere di controllo individuale su tale entità, potendo il controllo esercitarsi anche in maniera congiunta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi della società.
Nella motivazione, quella stessa sentenza ha, infatti, precisato che ai fini del controllo congiunto non è sufficiente la mera partecipazione formale al capitale e agli organi direttivi dell’ente in house.
La Corte di giustizia ha chiarito, infatti, che il controllo esercitato su quest’ultimo non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell’autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell’entità in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato la nozione stessa di controllo congiunto.
Infatti, l’eventualità che un’amministrazione aggiudicatrice abbia, nell’ambito di un’entità affidataria posseduta in comune, una posizione inidonea a garantirle la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale entità aprirebbe la strada ad un’elusione dell’applicazione delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o di concessioni di servizi, dal momento che una presenza puramente formale nella compagine di tale entità o in un organo comune incaricato della direzione della stessa dispenserebbe detta amministrazione aggiudicatrice dall’obbligo di avviare una procedura di gara d’appalto secondo le norme dell’Unione, nonostante essa non prenda parte in alcun modo all’esercizio del “controllo analogo” sull’entità in questione (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2005, Coname, C-231/03, punto 24).
La Corte di giustizia ha, quindi, concluso nel senso che spetta al giudice nazionale verificare in concreto se il controllo congiunto sia escluso dal controllo esclusivo esercitato da una delle amministrazioni partecipanti all’ente in house.
32. Nel caso di specie, la sussistenza in concreto di un controllo analogo da parte delle Università consorziate è escluso dalla posizione di indiscussa primazia riconosciuta al MIUR nell’ambito dell’organizzazione e del funzionamento del CINECA.
Si fa riferimento, in particolare, delle previsioni statutarie che stabiliscono le prerogative del MIUR, significativamente più estese rispetto a quelle riconosciute agli altri consorziati ma,: la presenza di un rappresentante del MIUR in tutti gli organi direttivi del CINECA (il Consiglio consortile  art. 7, co. 1, lett. b; il Consiglio di Amministrazione  art. 11, co. 1, lett. d; il Collegio dei revisori dei conti  art. 13, co. 1); la possibilità di assumere le più importanti deliberazioni del Consiglio consortile solo con il voto favorevole del rappresentante del MIUR, che, pertanto, dispone di una sorta di diritto di veto (art. 7, co. 5 e art. 8, co. 1, lett. l); il potere attribuito al MIUR di disporre lo scioglimento degli organi consortili, per gravi inadempienze o perdite (art. 20). A termini di legge, al MIUR è, poi, riservato il potere di approvare lo Statuto del CINECA (art. 61, RD 31/08/1933, n. 1592), nonché le sue modifiche.
Tale posizione di primazia spettante al MIUR porta ad escludere che la partecipazione paritaria, ancorché con diritto di voto, da parte delle Università consorziate al Consiglio consortile del Cineca sia sufficiente ad assicurare il controllo analogo in forma congiunta. Ciò anche in considerazione del fatto che, per un verso, partecipando in posizione paritaria, ciascuna università conta per una quota pari a circa 1/72 (e dunque per poco più dell’1%) e che, comunque, le delibere di maggiore importanza, non possono essere assunte, nell’ambito dello stesso Consiglio consortile, senza il consenso del MIUR.
33. Non risulta, infine, sussistente neanche il requisito dell’attività prevalentemente svolta a favore di soggetti consorziati.
Risulta dagli atti (e non è stato, peraltro, specificamente contestato dall’appellante) che il Cineca svolge, direttamente o tramite società controllate, una parte rilevante della propria attività a favore di soggetti non consorziati, pubblici e privati, sia in Italia che all’estero.
Lo svolgimento di attività imprenditoriale verso l’esterno attribuisce al Cineca una vocazione commerciale che impedisce di considerarlo alla stregua di un soggetto in house, ovvero di un mero organo delle Amministrazioni consorziate. Né in senso contrario è utile il richiamo ai principi recentemente affermati dalla Corte di giustizia nella sentenza 18 dicembre 2014, causa C-586/13, (valorizzati, invece, nel già citato parere reso da Cons. Stato, sez. II, 30 gennaio 2015, cit.), che non si occupa specificamente dell’in house, limitandosi ad affermare il principio secondo cui la natura di ente pubblico economico non è di per sé una ragione ostativa alla partecipazione a procedura di evidenza pubblica.
34. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello proposto dal Cineca deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in complessivi € 5.000, oltre agli accessori di legge, e sono posto in solido in capo al Cineca e all’Università della Calabria.

 

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il Conorzio interuniversitario Cineca e l’Università della Calabria al pagamento, a favore della società Be Smart. S.r.l., delle spese del giudizio di appello, che liquida in complessivi € 5.000, oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:

Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore
Claudio Contessa, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere