PRESUPPOSTI ED AMBITO DI OPERATIVITÀ DEL VINCOLO ARCHEOLOGICO

Quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è ragionevole che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano.

 

 

N. 00522/2013REG.PROV.COLL.

N. 00033/2007 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 33 del 2007, proposto dal Ministero per i Beni e le Attivitaà Culturali, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato e presso la medesima domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

I signori D’Agostino Giovanni, D’Agostino Matteo e D’Agostino Annamaria in Bonito Oliva, rappresentati e difesi dagli avvocati Danilo Marzano e Aldo Marzano, con domicilio eletto presso l’avv. Carlo Mario D’Acunti in Roma, viale delle Milizie, 9;

per la riforma della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – SEZ. STACCATA DI SALERNO, SEZIONE II, n. 1955/2005, resa tra le parti, concernente imposizione di vincolo di interesse archeologico su un terreno;

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio degli appellati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 27 novembre 2012 il Cons. Gabriella De Michele e udito per la parte appellante l’avvocato dello Stato D’Ascia;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

FATTO e DIRITTO

Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale perla Campania, Salerno, sez. II., n. 1955 del 24 ottobre 2005 (che non risulta notificata) è stato accolto il ricorso n. 927 del 1987, proposto dalla signora Elisabetta Centola, in qualità di procuratrice generale di Matteo e Annamaria D’Agostino, avverso il decreto n. prot. 2389 del 27 gennaio 1987, impositivo di vincolo diretto di interesse archeologico su un terreno di proprietà degli stessi. Nella citata sentenza erano ritenute fondate le censure di difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto non sarebbe stato desumibile “lo specifico collegamento esistente tra i rinvenimenti archeologici, operati in varie zone della città moderna ed i terreni assoggettati al vincolo”, non risultando fornita alcuna indicazione sui criteri adottati per definire l’area occupata dalla città antica, in modo tale da includere nella loro interezza i terreni di proprietà della ricorrente. Non avrebbe avuto incidenza su tali conclusioni una relazione scientifica prodotta dall’Amministrazione, che individuava i predetti terreni come area “immediatamente suburbana dell’abitato antico”, essendovi stati rinvenimenti monumentali solo su un’area, pure di proprietà D’Agostino, estranea all’imposizione del vincolo di tutela archeologica, mentre in altra area limitrofa sarebbe stata autorizzata l’edificazione, dopo l’effettuazione di sondaggi con esito negativo.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali l’atto di appello in esame (n. 33/2007, notificato il 9 dicembre 2006 agli eredi della signora Centola); in tale atto si sottolineavano la congruità della motivazione dell’atto impugnato (tenuto conto dell’ampia discrezionalità, assegnata all’Amministrazione dall’art. 1 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, e della relazione scientifica allegata al decreto), nonchè l’adeguatezza dell’istruttoria (risultante dai documenti depositati dall’Amministrazione, idonei ad evidenziare come la proprietà degli appellati fosse in parte direttamente interessata, in parte indiziata, circa la presenza di resti della città antica). Illogica, invece, sarebbe stata la motivazione della sentenza, nella parte giustificativa dell’annullamento del vincolo a seguito dell’edificazione assentita su un’area limitrofa, sulla quale i sondaggi effettuati avrebbero dato esito negativo: una circostanza, quella appena indicata, che non avrebbe potuto escludere la persistenza del vincolo nel caso di specie, tenuto conto del fatto che – ove pure non fossero state ravvisabili differenze oggettive tra le aree in questione sotto il profilo archeologico – la sussistenza di ragioni di tutela sulla porzione di territorio non ancora edificata non sarebbe venuta meno, solo per effetto della parziale compromissione dell’area limitrofa.

Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che le prospettazioni difensive dell’Amministrazione siano condivisibili e che il ricorso di primo grado vada dichiarato palesemente infondato.

Come affermato da una pacifica giurisprudenza, infatti, il vincolo imposto su cose mobili o immobili di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico – a norma della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (nel testo vigente alla data di emanazione dell’atto impugnato: D.M. del 27.1.1987) – può avere carattere diretto o indiretto (cfr. articoli 1, 11 e seguenti, 21 e seguenti L. cit.).

Per i beni di interesse archeologico, il vincolo diretto è connesso all’effettivo ritrovamento, o alla certezza dell’esistenza di reperti archeologici, mentre il vincolo cosiddetto indiretto può essere imposto su beni ed aree circostanti a quelli oggetto di vincolo diretto, per garantire la migliore visibilità o fruizione di questi ultimi, ovvero migliori condizioni ambientali o di decoro; l’individuazione e le modalità di tutela dei beni soggetti a vincolo costituisce espressione di discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, insindacabile nel merito, ma soggetta a sindacato di legittimità in rapporto ai consueti parametri di corretto apprezzamento dei presupposti di fatto e congruità delle valutazioni, con possibilità di riscontro di tali fattori – indice di completezza dell’istruttoria espletata e di logicità delle conclusioni tratte – in base alla motivazione del provvedimento conclusivo, da cui deve potersi desumere l’adeguatezza del sacrificio imposto ai privati proprietari, nel superiore interesse pubblico perseguito (cfr. in tal senso, per i principi enunciati, Cons. St., sez. VI, 4 agosto 2008, n. 3880; 19 gennaio 2007, n. 111; 8 settembre 2005, n. 4599; 24 agosto 1992, n. 615; 31 ottobre 1992, n. 823; 13 gennaio 1988, n. 107; 7 ottobre 1987, n. 806, 26 giugno 1985, n. 353; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 24 dicembre 1994, n. 475).

Nella situazione in esame il Collegio non ravvisa vizi del genere sopra indicato, in base a quanto documentato in atti attraverso il citato D.M. in data 5 giugno 1987, impositivo del vincolo di cui trattasi, con allegata relazione scientifica a firma del prof. Werner Johannowsky, dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali, pur tenendo conto delle considerazioni esposte nella consulenza tecnica di parte prodotta in primo grado di giudizio, a firma dell’ing. Antonio Ripesi.

Nel predetto D.M., infatti, si richiamavano prospezioni geologiche effettuate alla fine degli anni settanta, a cura della Fondazione Lerici, con individuazione dell’area occupata dalla città antica, di cui erano stati rinvenuti – tramite scavi effettuati nella città moderna – “aree sacre con stipi votive databili dal VI al IV secolo a.C., quartieri con fornaci ed edifici monumentali pubblici”.

Venivano quindi individuate le aree in cui si sarebbero trovate “tali testimonianze antiche”, con individuazione planimetrica comprendente i terreni di proprietà dell’originaria ricorrente.

Nella ricordata relazione scientifica, inoltre, si specificava come l’area così individuata fosse “quella immediatamente suburbana dell’abitato antico, in base alle indicazioni fornite da una serie di saggi eseguiti dalla Soprintendenza archeologica nel 1969, quando sotto il corso dell’attuale strada statale 18 delle Due Sicilie e più a sud in proprietà D’Agostino….furono rinvenuti resti monumentali, probabilmente riferibili all’impianto a doppia cortina delle mura urbiche”.

Tali circostanze si affermavano confermate dalle prospezioni archeologiche eseguite dalla Fondazione Lerici, rivelatrici di una “consistente stratificazione archeologica”. L’imposizione del vincolo era ritenuta quindi corrispondente ad una “effettiva esigenza di tutela” resa “ancora più pressante” dagli esistenti “programmi di espansione di edilizia economica e popolare ai sensi della legge167”.

Alle considerazioni appena sintetizzate – che sembrano delineare ragionevoli presupposti per il regime vincolistico contestato – non si contrappongono argomentazioni atte ad inficiarne la logica nella stessa consulenza tecnica di parte, nonostante le formali conclusioni di quest’ultima, circa profili di incongruità del decreto di vincolo, che sarebbero stati identificabili nella sottrazione dall’area protetta della particella n. 661, al centro dell’area stessa, nella dichiarata presenza di reperti archeologici, rinvenuti in zone della città moderna, pur non sottoposta a vincolo, nonché nella irreversibile trasformazione di aree limitrofe, in attuazione del vigente piano di edilizia economica e popolare.

Non viene comunque smentito, in primo luogo, il rinvenimento di resti monumentali, riferibili all’impianto delle mura della città antica, nei terreni di proprietà D’Agostino, mentre l’omessa estensione del vincolo su aree già interessate da costruzioni (città moderna e particella n. 661) non incide sulla ragionevolezza dell’imposizione del vincolo stesso sull’area, ancora inedificata, di cui si voleva evitare la compromissione, in presenza di attendibili valutazioni circa il perimetro della città antica, i cui resti, per la parte non già individuata, si ritenevano presenti nel sottosuolo in base non a mere presunzioni, ma a dettagliate prospezioni archeologiche e saggi eseguiti dalla Soprintendenza (e salve le ulteriori sue valutazioni sulla estensione dell’area da sottoporre al vincolo).

Ugualmente inidonei ad inficiare la fondatezza del decreto di vincolo debbono ritenersi gli interventi attuativi del PEEP, che si affermano intervenuti anche in epoca successiva, sia perché sembra che tali interventi fossero stati supervisionati dalla Soprintendenza, sia per la non identificabilità della situazione oggettiva dell’area, dai medesimi interessata, rispetto a quella di proprietà D’Agostino, tenuto conto delle ragioni che hanno indotto ad imporre il vincolo di cui trattasi a nord della SS 18, sede dell’attuale Parco archeologico di Pontecagnano e non anche sulle aree a sud della medesima strada.

Considerate la specifica ubicazione della proprietà degli appellati e le ragioni di tutela vincolistica per la medesima enunciate, non può dunque assumersi come indice di illogicità o travisamento la parziale compromissione di zone limitrofe, fondatamente o meno escluse dal medesimo vincolo (cfr. anche, per il principio, Cons.St., sez. VI, 11 giugno 1990, n. 600). Non appare quindi ravvisabile – in considerazione dei delicati profili di discrezionalità tecnica coinvolti – il vizio di motivazione e di istruttoria, ritenuto sussistente in primo grado di giudizio.

La Sezionenon condivide dunque la rilevanza che la sentenza appellata ha attribuito al mancato rinvenimento di reperti archeologici in ogni parte dell’area.

Quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano.

Per le ragioni esposte il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto, con le conseguenze precisate in dispositivo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, per la complessità della vicenda controversa e la natura degli interessi coinvolti.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie l’appello, come in epigrafe proposto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado.

Compensa le spese dei due gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2012 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Claudio Contessa, Consigliere

Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore

Bernhard Lageder, Consigliere

Andrea Pannone, Consigliere

 

L’ESTENSORE        IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 29/01/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)