IL “GIUSTO PROCEDIMENTO” SANZIONATORIO TRA CEDU E LEGGE NAZIONALE: IL REGOLAMENTO CONSOB VIOLA IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

1. L’esame dell’appello incidentale condizionato, proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel merito su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole, deve essere effettuato solamente se l’appello principale sia stato giudicato fondato, in caso contrario non sussistendo l’interesse dell’appellante incidentale alla pronunzia sulla propria impugnazione.

 

2. Il principio secondo cui l’ordine logico delle questioni da esaminare è rimesso al giudice (e non può essere condizionato dal potere dispositivo delle parti, specie per se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio) vale solo per giudizio di primo grado. Quando, invece, la decisione su una questione vi è stata, il riesame della stessa da parte del giudice dell’impugnazione è rimesso necessariamente all’impulso di parte, per il principio devolutivo che regge il sistema delle impugnazioni.

 

3. Deve escludersi che il regolamento Consob 21 giugno 2005, n. 15086, nel disciplinare il procedimento di irrogazione delle sanzioni previste dagli artt. 187-ter e 187-quater del T.U.F., presenti direttamente profili di contrasto con l’art. 6, par. 1 CEDU. L’art. 6, par. 1, CEDU non impone, infatti, che il procedimento amministrativo di irrogazione delle sanzioni per la fattispecie di c.d. market abuse sia disciplinato in modo da assicurare, già nella fase amministrativa, l’imparzialità oggettiva dell’Autorità che applica la sanzione e il pieno rispetto del principio del c.d. giusto processo. La CEDU, in altri termini, non impone che le sanzioni inflitte dalla Consob siano assistite, già nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio che precede la fase giurisdizionale, da garanzie assimilabili a quelle che valgono per le sanzioni penali in senso stretto.

 

4. L’art. 6, par. 1, CEDU non richiede una trasformazione in senso paragiurisdizionale del procedimento amministrativo (e la necessaria applicazione in esso delle garanzie del giusto processo, prima fra tutte quella del contraddittorio orizzontale tra due parti poste in posizioni di parità rispetto all’autorità decidente), ma, semplicemente, l’eventuale connotazione in senso quasi-judicial del procedimento amministrativo sanzionatorio consente di ritenere soddisfatte già in tale sede le garanzie sottese al principio del giusto processo.

 

5. Nei casi in cui, come accade negli ordinamenti di molti Stati membri, il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, allora l’art. 6, par. 1, CEDU postula che l’interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell’accusa penale contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato del potere di esercitare un sindacato di full jurisdiction. Il sindacato di full jurisdction implica, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale.

 

6. Una reale separazione soggettiva tra funzione istruttoria e funzione decisoria (nel modo necessario per assicurare il rispetto della c.d. imparzialità oggettiva come tratteggiato dalla Corte EDU) non è praticabile de jure condito nel nostro ordinamento. Essa richiederebbe un radicale ripensamento del sistema delle Autorità indipendenti, attraverso la creazione, ad esempio, di Autorità indipendenti con funzioni soltanto inquirenti e l’attribuzione al giudice del potere di irrogare le relative sanzioni sul modello del sistema anglo-americano. Tali sistemi alternativi, tuttavia, sebbene praticabili (e, per alcuni versi, forse anche auspicabili) de jure condendo, non solo non corrispondono al diritto vigente, ma tantomeno costituiscono soluzioni imposte o obbligate dagli obblighi sovranazionali derivanti dall’appartenenza alla CEDU.

 

7. Le norme della Costituzione che garantiscono il diritto di difesa e il giusto processo riguardano espressamente il giudizio cioè il procedimento in cui il giudice è chiamato ad esercitare funzioni giurisdizionali al fine di statuire su posizioni soggettive, e sono rivolte a garantire che, nel dibattito prodromico alla decisione, siano presenti tutti gli interessati, in situazione di parità e con effettiva possibilità di formulare le deduzioni difensive ritenute opportune. Il procedimento amministrativo, ancorché sia finalizzato ad un provvedimento incidente su diritti soggettivi non è assimilabile al giudizio, sicché l’assenza di una totale equiparazione del procedimento amministrativo e giusto processo non autorizza ad ipotizzare un contrasto con i principi costituzionali propri esclusivamente del giudizio.

 

8. Sotto il profilo costituzionale, la disciplina del procedimento amministrativo anche sanzionatorio è vincolata solo al rispetto dei più generici principi di eguale trattamento, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, posti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, nonché al generalissimo principio di legalità che è sempre sotteso all’operare della pubblica amministrazione.

 

9. Il regolamento Consob non rispetta il principio del contraddittorio e della piena conoscenza degli atti specificamente sanciti dagli artt. 187-septies e 195 del T.U.F., nel testo risultante dopo le modifiche introdotte con la legge 18 aprile 2005, n. 62. La relazione dell’ufficio che svolge l’istruttoria non viene, infatti, inviato all’interessato, in violazione del diritti di piena conoscenza degli atti istruttori, e le controdeduzioni giungono alla Commissione, titolare del potere di decisione finale, solo attraverso la relazione dell’ufficio istruttorio. Manca, quindi, qualunque interlocuzione tra l’ufficio titolare del potere di decisione finale e il soggetto che quella decisione subirà.

L’interessato si vede, in particolare, preclusa la possibilità di interloquire sulla relazione conclusiva dell’Ufficio Sanzioni, nella quale pure possono essere contenute valutazioni (in primis, la definitiva qualificazione giuridica dell’istituto) non necessariamente oggetto di confronto durante la fase istruttoria.

Questo iter procedimentale, così come disegnato dal regolamento impugnato, determina allora una violazione del contraddittorio voluto dal legislatore, dal momento che in un procedimento ispirato a tale principio il contraddittorio dovrebbe esplicarsi in ogni fase del procedimento, prima, durante e dopo il compimento dell’attività istruttoria preordinata alla decisione finale. La prevista possibilità di presentare deduzioni davanti all’Ufficio sanzioni, così come la possibilità che l’interessato chieda di essere sentito dall’Ufficio sanzioni non risulta sotto tale profilo sufficiente, risultando comunque dirimente, al fine di riscontrare la violazione del principio del contraddittorio, la circostanza che l’atto certamente più importante della fase istruttoria (ovvero la relazione conclusiva redatta dall’Ufficio sanzioni e inviata alla Commissione) non è oggetto di comunicazione (o di altre forme di conoscenza) e rispetto ad esso non vi è alcuna possibilità di controdeduzione.

 

10. La giurisdizione del giudice ordinario riguarda la sanzione inflitta dalla Consob e gli atti del procedimento sanzionatorio, ma non anche gli atti a monte del procedimento medesimo, espressione di poteri di diversa natura (regolamentare o amministrativa appunto) e rispetto ai quali sussistono certamente posizioni di interesse legittimo la cui tutela spetta, secondo gli ordinari criteri di riparto, alla giurisdizione del giudice amministrativo. La giurisdizione del giudice ordinario sulle sanzioni Consob non è, infatti, una giurisdizione di carattere esclusivo, in grado di estendersi a tutti gli atti comunque afferenti alla “materia procedimentale sanzionatoria”, a prescindere dalla situazione giuridica soggettiva vantata dall’interessato. La giurisdizione ordinaria, tuttavia, viene meno nel caso in cui l’oggetto della contestazione sia un atto (amministrativo o regolamentare), adottato nell’esercizio di un potere discrezionale, che si colloca a monte del procedimento sanzionatorio, fissando, come nel caso di specie, le regole relative al suo svolgimento.

In tale caso, venendo in rilievo un potere autoritativo di natura regolamentare, torna ad operare la giurisdizione del giudice amministrativo, secondo gli ordinari criteri di riparto.

 

11. Il singolo non è, di regola, legittimato ad impugnare le norme regolamentari in quanto la generalità e l’astrattezza delle prescrizioni normative impedisce di ravvisare sia l’attualità della lesione sia una posizione differenziata rispetto al quisque de populo.

 

12. La mera pendenza del procedimento sanzionatorio non vale ad attualizzare la lesione. La pendenza del procedimento sanzionatorio può forse valere a differenziare la posizione degli odierni ricorrenti rispetto al quisque de populo (determinando quindi una forma di legittimazione al ricorso), ma non consente di superare l’obiezione derivante dalla mancanza dell’altra condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, che richiede l’attualità della lesione e, dunque, nel caso in esame, la concreta inflizione della sanzione.

Diversamente opinando, del resto, troverebbero ingresso nel processo amministrativo interessi meramente procedimentali (al mero rispetto delle regole del giusto procedimento, a prescindere dall’attualità della lesione a scapito di un interesse sostanziale), il che si porrebbe in evidente contrasto con la tradizionale configurazione dell’interesse legittimo come pretesa sostanziale, il cui oggetto è costituito da reali beni della vita e non dalla mera osservanza delle regole procedimentali da parte dell’Amministrazione.

Nonostante la crescente importanza assunta (sia a livello nazionale che sovranazionale) dal principio del giusto procedimento, deve, tuttavia, escludersi che la pretesa al c.d. “giusto procedimento” sia una presta giuridicamente rilevante e autonomamente azionabile in giudizio a prescindere e ancor prima dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio.

 

13. Si deve, escludere che il “giusto procedimento” costituisca, di per sé un bene della vita di cui il privato può chiedere autonomamente la tutela anche autonomamente e separatamente dalla pretesa economico-patrimoniale correlata all’applicazione di sanzioni eventualmente illegittime.

 

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

 

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9737 del 2014, proposto da:

Banca Profilo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Morbidelli, Giuseppe Cannizzaro, Paolo Iemma, Marco Annoni, con domicilio eletto presso l’avvocato Marco Annoni in Roma, Via Udine N. 6; Fabio Candeli, Matteo Ugo Michelazzi, Riccardo Grimaldi, rappresentati e difesi dagli avv. Giuseppe Morbidelli, Marco Annoni, Paolo Iemma, Giuseppe Cannizzaro, con domicilio eletto presso Marco Annoni in Roma, Via Udine N. 6;

contro

Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona de legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Salvatore Providenti, Maria Letizia Ermetes, Paolo Palmisano, con domicilio eletto presso Sede Legale Consob in Roma, Via G.B. Martini N. 3;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II n. 11886/2014, resa tra le parti, concernente disposizioni organizzative e procedurali relative all’applicazione di sanzioni amministrative e istituzione dell’ufficio sanzioni amministrative;

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio e l’appello incidentale condizionato proposto dalla Consob;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2015 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Morbidelli, Annoni, Iemma, Cannizzaro, Providenti, Ermetes e Palmisano;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto innanzi al T.a.r. Lazio, la società Banca Profilo s.p.a. e i signori Fabio Candeli, Matteo Ugo Michelazzi e Riccardo Grimaldi hanno contestato, sotto diversi profili, la legittimità del regolamento Consob n. 15086 del 21 giugno 2005, applicabile ratione temporis al procedimento sanzionatorio avviato nei loro confronti.

2. I ricorrenti hanno, in particolare, sostenuto l’illegittimità del regolamento in esame per violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU come interpretato dalla sentenza n. 18640 del 4 marzo 2014 (Grande Stevens e altri c. Italia), chiedendo l’annullamento dello stesso e l’accertamento del conseguente obbligo della Consob di provvedere all’emanazione di un nuovo regolamento per l’applicazione delle sanzioni amministrative di natura penale in modo conforme alla previsioni dell’art. 6 CEDU.

3. Il T.a.r. Lazio, con la sentenza di estremi indicati in epigrafe, superate le pregiudiziali eccezioni sollevate dalla Consob di difetto di giurisdizione e di inammissibilità per difetto di interesse, ha respinto il ricorso.

Il T.a.r. ha ritenuto che dalla motivazione della sentenza della Corte EDU n. 18640 del 2014 non discenda un obbligo per lo Stato Italiano e per la Consob di adeguare la disciplina del predetto procedimento sanzionatorio ai principi del giusto processo sanciti dall’art. 6, par. 1, della CEDU.

Ciò in quanto, secondo il T.a.r., la citata sentenza della Corte EDU dovrebbe essere letta nel senso che le violazioni dell’art. 6, par. 1, CEDU riscontrate nel procedimento amministrativo possono trovare contemperamento nelle successive fasi che si svolgono in sede giurisdizionale nel rispetto del principio del giusto processo.

Più nel dettaglio, il Tar ha concluso che, in base alla sentenza della Corte EDU n. 18640 del 2014: A) il procedimento amministrativo teso all’applicazione delle sanzioni per market abuse altro non sarebbe che una prima fase, affidata alla CONSOB, di un procedimento unitario, seguita da due successive fasi di natura giurisdizionale, rappresentate dal giudizio di opposizione dinnanzi alla Corte d’appello e dal giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, nell’ambito delle quali la decisione amministrativa della CONSOB viene sottoposta al controllo di organi giurisdizionali, sicché per valutare se vi sia stata o meno una lesione del diritto al giusto processo si dovrebbe considerare il procedimento nel suo complesso e non le sue singole fasi; B) la Corte EDU, sulla base di tale ragionamento, da un lato, ha riconosciuto che lo Stato italiano ben può attribuire ad un’Autorità amministrativa come la CONSOB, priva delle caratteristiche di imparzialità e di indipendenza tipiche degli organi giurisdizionali, il potere di applicare sanzioni “penali” come quelle relative agli illeciti di cui all’art. 187-ter del TUF e che l’applicazione di tali sanzioni può legittimamente avvenire in base a disposizioni procedurali diverse da quelle previste dal codice di procedura penale (§ 139 della sentenza); dall’altro, ha accertato che tale possibilità presuppone comunque che la decisione della CONSOB sia successivamente sottoposta al controllo di un «organo giudiziario dotato di piena giurisdizione» – ossia di un organismo titolare del «potere di riformare qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione impugnata, resa dall’organo inferiore» e della «competenza per esaminare tutte le pertinenti questioni di fatto e di diritto che si pongono nella controversia di cui si trova investito» (§ 139 della sentenza) – e che la Corte di Appello, innanzi alla quale è possibile proporre ricorso in opposizione avverso il provvedimento di applicazione delle sanzioni di cui trattasi, ai sensi dell’art. 187-septies del TUF, è un «organo giudiziario dotato di piena giurisdizione» (§ 151 della sentenza).

4. Per ottenere la riforma di tale sentenza gli originari ricorrenti hanno proposto appello principale.

Gli appellanti sostengono, in sintesi, che la sentenza sarebbe viziata da un’erronea e parziale lettura dei principi affermati dalla Corte EDU, la quale avrebbe, invece, espressamente affermato che il regolamento Consob non è conforme all’art. 6, par. 1, della CEDU.

Gli appellanti evidenziano che l’oggetto del presente giudizio non è costituito dalla questione generale e astratta concernente la possibilità di far discendere dalla motivazione della sentenza della Corte EDU n. 18640 del 2014 un vero e proprio obbligo per lo Stato italiano di adeguare la disciplina del procedimento sanzionatorio ai principi del giusto processo sanciti dall’art. 6, par. 1, della CEDU. Al contrario, l’oggetto del presente giudizio riguarderebbe semplicemente la legittimità o meno del Regolamento Consob, rispetto all’art. 187-septies T.U.F. da interpretarsi alla luce dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6, par. 1 della CEDU.

Il thema decidendum non sarebbe, quindi, la legittimità del complessivo procedimento sanzionatorio nella sua articolazione in successive fasi di giudizio, ma la legittimità del procedimento amministrativo svolto dalla Consob per l’applicazione di sanzioni di natura penale. È tale legittimità dovrebbe essere autonomamente valutata dal giudice amministrativo, in riferimento alla normativa interna, avendo riguardo alle argomentazioni contenute nella sentenza della Corte EDU e ai precetti costituzionali.

Secondo gli appellanti, pertanto, una volta appurato che il procedimento amministrativo disciplinato dal regolamento Consob viola le garanzie dell’art. 6, par. 1, della CEDU, non avrebbe alcuna rilevanza, ai fini della statuizione sulla legittimità del regolamento impugnato, la “compensazione” offerta dalle garanzie della fase processuale, atteso che, altrimenti, si delineerebbe una sorta di sanatoria postuma dell’illegittimità non consentita dall’ordinamento italiano, nel senso che i diritti fondamentali del cittadino potrebbero essere impunemente violati e che la tutela sarebbe differita nel tempo. Verrebbe così legittimata l’attribuzione alla Consob del potere di agire illegittimamente nell’esercizio dell’attività sanzionatoria.

Deducono gli appellanti che se questo fosse il senso della sentenza della Corte EDU si porrebbe la questione della legittimità costituzionale dell’art. 187-septies T.U.F. e dello stesso art. 6 della CEDU, se intesi, appunto, nel senso di permettere un processo penale illegittimo e di differire nel tempo la tutela dei diritti fondamentali.

5. Per resistere all’appello si è costituita in giudizio la Consob, la quale ha anche proposto un appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale.

Nell’appello incidentale condizionato la Consob ha impugnato la sentenza del T.a.r. Lazio nella parte in cui ha: a) ritenuto infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (secondo la Consob la controversia de qua, afferendo, alla materia “procedimentale sanzionatoria”, investe una controversia demandata al giudice ordinario, – nella specie alla Corte d’appello, competente a conoscete delle opposizioni esperite avverso provvedimenti sanzionatori in tema di abusi di mercato ai sensi dell’art. 187-septies T.U.F.); b) rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso avverso la nota dell’Ufficio Sanzioni Amministrative della Consob dell’11 agosto 2014 per carenza di interesse non trattandosi atto avente natura provvedimentale; c) rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso avverso i regolamenti Consob di cui alle delibere 21 giugno 2005, n. 15086 e 19 dicembre 2013, n. 18750 per carenza di interesse attuale.

6. Rinviata al merito l’istanza cautelare, in vista dell’odierna udienza di discussione le parti hanno depositato ulteriori memorie a sostegno della reciproche posizioni.

7. All’odierna udienza di discussione la causa è stata trattenuta in decisione.

8. Si pone, anzitutto, il problema del corretto ordine di esame delle questioni rispettivamente sollevate nell’appello principale e nell’appello incidentale condizionato.

A rigore, infatti, le questioni sollevate dalla Consob nel suo appello incidentale condizionato avrebbero priorità logica, trattandosi di questioni pregiudiziali di rito che investono presupposti processuali o condizioni dell’azione (nel caso di specie, la sussistenza della giurisdizione amministrativa e dell’interesse al ricorso).

La Consob, tuttavia, proponendo appello incidentale in forma condizionata, ha subordinato l’esame di tali questioni pregiudiziali di rito, rispetto alle quali è rimasta soccombente (pur vittoriosa nel merito) nel giudizio di primo grado, al previo esame dell’appello principale. Ha così proposto al giudice un ordine di esame delle questioni diverso da quello naturale (che vede la priorità delle questioni pregiudiziali di rito, attenenti alla sussistenza dei presupposti processuali o delle condizioni dell’azione rispetto alle questioni di merito).

Occorre, quindi, stabilire se tale forma di condizionamento (e la conseguente alterazione dell’ordine logico di esame delle questioni che ne deriva) sia consentita.

9. Al quesito deve darsi risposta positiva, anche alla luce dell’orientamento ormai consolidatosi nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Sez. Un. 6 marzo 2009, n. 5456; Cass. Sez. Un. 31 ottobre 2007, n. 23019), con riferimento all’analoga questione che può porsi nell’ambito del processo civile. Ciò anche in considerazione del rinvio esterno contenuto nell’art. 39 c.p.a. alle disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

Il Collegio ritiene che l’esame dell’appello incidentale condizionato, proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel merito su questioni pregiudiziali decise in senso ad essa sfavorevole, debba essere effettuato solamente se l’appello principale sia stato giudicato fondato, in caso contrario non sussistendo l’interesse dell’appellante incidentale alla pronunzia sulla propria impugnazione.

Il contrario precedente orientamento giurisprudenziale che richiamava – quale criterio per escludere sempre l’ammissibilità del condizionamento dell’impugnazione incidentale – la rilevabilità di ufficio della questione pregiudiziale di rito, trascurava di rilevare il fatto che quella distinzione perde peso allorché la questione “eccepibile” sia stata eccepita davanti al giudice di primo grado e quella “rilevabile” sia stata rilevata.

Ne consegue che, allorché la questione pregiudiziale o preliminare sia stata decisa dal giudice di primo grado, il riesame della questione da parte del Consiglio di Stato postula la proposizione di un’impugnazione, che è ammissibile in presenza di un interesse della parte, interesse che, per la parte totalmente vittoriosa sorge solo nell’ipotesi della fondatezza dell’appello principale. In caso contrario, infatti, l’appellante incidentale manca di interesse alla pronuncia sulla propria impugnazione poiché il suo eventuale accoglimento non potrebbe procurargli un risultato più favorevole in concreto di quello derivante dal rigetto del ricorso principale e, anzi, con particolare riferimento all’eccezione di giurisdizione, comporterebbe il rischio del riesame della pronuncia favorevole ad opera del diverso giudice con esito incerto per l’appellante incidentale.

Quanto alla eventuale considerazione secondo cui sussisterebbe in ogni caso la soccombenza sulla questione oggetto dell’appello incidentale, va osservato che la soccombenza c.d. formale (che legittima all’impugnazione) è il rigetto (o l’accoglimento) della domanda o di parte di essa e non soltanto la sfavorevole soluzione di una questione, secondo la dottrina classica.

In ogni caso, ove anche voglia ritenersi con la più moderna dottrina che soccombenza ed interesse all’impugnazione siano oggi espressioni che denotano distinti fenomeni, e che quindi anche la sfavorevole soluzione di questioni dia origine ad una vera e propria soccombenza (per quanto teorica), va osservato che manca l’interesse ad impugnare per la parte che abbia egualmente conseguito il successo sulla domanda.

Detto interesse diventa attuale (o, come è stato anche detto, sopravvenuto), solo con l’accoglimento dell’appello principale.

A seguito di tale accoglimento si perfeziona la fattispecie relativa alla legittimazione ad impugnare da parte dell’appellante incidentale, fattispecie composta dalla soccombenza e dall’interesse all’impugnazione.

10. Né in senso contrario vale la considerazione secondo cui l’ordine logico delle questioni da esaminare è rimesso al giudice (e non può essere condizionato dal potere dispositivo delle parti, specie per se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio).

Tale principio vale, infatti, solo per giudizio di primo grado.

Quando, invece, la decisione su una questione vi è stata, il riesame della stessa da parte del giudice dell’impugnazione è rimesso necessariamente all’impulso di parte, per il principio devolutivo che regge il sistema delle impugnazioni. Se tale impulso di parte è condizionato all’accoglimento dell’impugnazione avversaria e quindi al sopravvenire della soccombenza anche formale e dell’interesse all’impugnazione, in questi termini va valutato dal giudice il mezzo impugnatorio proposto.

Inoltre è stato esattamente osservato che proprio l’ordine logico delle questioni da esaminare impone anzitutto l’esame del ricorso principale. Il ricorso della parte totalmente vittoriosa è condizionato de jure, perché solo a seguito dell’accertamento della fondatezza del ricorso principale si può dire che sia sorto l’interesse alla proposizione del ricorso incidentale.

Ciò comporta un triplice ordine di fatti costitutivi della legittimazione ad impugnare del resistente vittorioso: a) la soluzione sfavorevole di una questione pregiudiziale o preliminare; b) la proposizione di un ricorso principale da parte del soccombente nel merito; c) la fondatezza di quest’ultimo ricorso.

Proprio il previo esame del ricorso principale fa sì che il cosiddetto ordine logico della pregiudizialità sia rispettato in uno dei suoi profili più pregnanti in materia di impugnazioni, vale a dire nel divieto rivolto al giudice di esaminare il merito del gravame, prima di aver acclarato l’esistenza di tutti i relativi presupposti di ammissibilità, ivi compresa, appunto, la legittimazione ad impugnare, sotto il profilo dell’interesse.

11. Quanto affermato in tema di appello incidentale condizionato proposto dalla parte totalmente vittoriosa relativo a questioni pregiudiziali (e cioè che esso possa essere esaminato solo a seguito dell’accoglimento del ricorso principale) opera anche nel caso in cui la questione pregiudiziale di rito attenga, come nel caso di specie, alla giurisdizione.

In passato, sul punto è stato ritenuto inoperante il condizionamento poiché la contestazione del potere decisorio del giudice in quanto carente di giurisdizione non può essere condizionata al risultato della controversia, che presuppone l’esercizio dello stesso potere decisorio che viene contestato con il ricorso incidentale. Il fondamento di tale principio fu affermato già da Cass. Sez. Un. 20 gennaio 1996 n. 444.

Sennonché negli ultimi anni il concetto stesso di giurisdizione è stato oggetto di profonda revisione da parte della Corte Costituzionale e dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Corte cost. n. 12 marzo 2007, n. 77; Cass. Sez. Un. 22 febbraio 2007, n. 4109 e 9 ottobre 2008, 24883), con decisioni che ne hanno modificato lo statuto processuale ed il significato.

Tali decisioni dimostrano come l’ordinamento si va evolvendo verso una parificazione dei poteri di accertamento e di statuizione dei vari giudici, con conseguente erosione, anche al fine di assicurare la ragionevole durata del processo, del principio della rilevabilità di ufficio della giurisdizione con un avvicinamento ad un regime di rilevazione del tipo di quello della competenza, basato sulla volontà della parte di mantenere la questione viva, dando rilievo preclusivo a fenomeni di acquiescenza tacita, che precedentemente non avevano alcuna rilevanza.

La questione di giurisdizione assume lo stato di ogni altro vizio della sentenza, che si converte in motivo di impugnazione. Ed è con il risultato di tale operazione evolutiva che va posta in armonia la disciplina del ricorso incidentale condizionato della parte totalmente vittoriosa, anche se relativo ad una questione di giurisdizione.

Segnatamente il principio che si desume da questa evoluzione giurisprudenziale è la prevalenza, ai fini del servizio giustizia, che l’autorità giudiziaria, vista nel suo complesso, dia risposta di merito alla domanda di giustizia. Ciò comporta che, quando la giurisdizione è stata affermata e la decisione di merito è stata emessa, la prevalenza dell’interesse alla decisione di merito, comporta che non possa farsi più questione sulla giurisdizione se non dalla parte soccombente e che abbia interesse concreto all’impugnazione (cfr. art. 9 c.p.a.)

Ciò comporta che, in sede di impugnazione se la parte soccombente nel merito non propone o ripropone la questione di giurisdizione, con i mezzi appropriati secondo il regime di impugnabilità della sentenza, il giudice non possa esaminarla; che, se la parte soccombente nel merito non la rileva, il giudice non possa esaminarla; se la parte vittoriosa, ma soccombente solo sulla questione della giurisdizione la solleva, il giudice potrà esaminarla solo quando per effetto dello sviluppo della sua decisione, tale parte già vittoriosa nel merito diventi soccombente nel merito.

A fronte dell’appello di una parte che non contesta la decisione sulla giurisdizione, ma solo sul merito (e quindi chiede esclusivamente una decisione sullo stesso) ed a fronte della posizione dell’appellante incidentale, che chiede anzitutto che sia mantenuta ferma la decisione sul merito e, solo in caso negativo, sia rivisitata la decisione sulla giurisdizione, il decidere preliminarmente la questione di giurisdizione può comportare, del resto, un irragionevole allungamento dei tempi processuali per giungere ad una decisione di merito.

Infatti, mentre l’infondatezza dichiarata dell’appello principale esaminato per primo significa chiudere il processo con un definitivo provvedimento di tutela nel merito, la fondatezza dichiarata dell’appello incidentale esaminato per primo significa obbligare la parte interessata a ricominciare il processo da capo davanti ad altro giudice per ottenere presumibilmente il medesimo risultato finale, che per lui già era soddisfacente.

12. Alla luce delle considerazioni che precedono deve, quindi, esaminarsi prioritariamente l’appello principale proposto da Banca Profilo s.p.a. e dai signori Fabio Candeli, Matteo Ugo Michelazzi e Riccardo Grimaldi.

Come sopra si è ricordato, gli appellanti criticano la sentenza del T.a.r. evidenziando che la stessa avrebbe accolto una lettura parziale della sentenza Grande Stevens e non avrebbe correttamente individuato l’oggetto della domanda formulata, che non riguardava la legittimità del complessivo procedimento sanzionatorio nella sua articolazione in successive fasi di giudizio, ma la legittimità del solo procedimento amministrativo svolto dalla Consob.

Tale legittimità, secondo gli appellanti, dovrebbe essere autonomamente valutata in riferimento alla normativa interna, avendo riguardo alle argomentazioni motivazioni contenute nella sentenza della Corte EDU e ai precetti della Costituzionale.

13. L’appello principale risulta fondato nei limiti di seguito esposti.

Occorre sin da ora premettere che la disciplina del procedimento sanzionatorio contenuta nel regolamento Consob 21 giugno 2005, n. 15086, sebbene non presenti direttamente profili di contrasto con l’art. 6, par. 1, CEDU, né con gli artt. 24 e 111 Cost., non risulta, tuttavia, conforme ai principi del contraddittorio, della piena conoscenza degli atti e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie che, con specifico riferimento ai procedimenti sanzionatori di competenza della Consob, sono espressamente richiamati dalla legge nazionale (in particolare dagli artt. 187-septies e 195 T.U.F. e nell’art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”).

Il legislatore, in altri termini, pur non essendo obbligato a farlo né in base all’art. 6, par. 1, CEDU, né in base a precetti costituzionali, ha, comunque, scelto di estendere al procedimento sanzionatorio di competenza della Consob alcune garanzie tipiche del c.d. giusto processo (come appunto il contraddittorio, la piena conoscenza degli atti e la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie).

Il regolamento in questa sede impugnato, come si evidenzierà dettagliatamente nel prosieguo, non rispetto alcune di queste garanzie e, in relazione a tali profili, risulta, quindi, illegittimo per violazione di legge.

Procedendo con ordine, deve, in primo luogo, escludersi che il regolamento Consob 21 giugno 2005, n. 15086, nel disciplinare il procedimento di irrogazione delle sanzioni previste dagli artt. 187-ter e 187-quater del T.U.F., presenti direttamente profili di contrasto con l’art. 6, par. 1 CEDU.

L’art. 6, par. 1, CEDU non impone, infatti, che il procedimento amministrativo di irrogazione delle sanzioni per la fattispecie di c.d. market abuse sia disciplinato in modo da assicurare, già nella fase amministrativa, l’imparzialità oggettiva dell’Autorità che applica la sanzione e il pieno rispetto del principio del c.d. giusto processo.

La CEDU, in altri termini, non impone che le sanzioni inflitte dalla Consob siano assistite, già nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio che precede la fase giurisdizionale, da garanzie assimilabili a quelle che valgono per le sanzioni penali in senso stretto.

14. Giova al riguardo premettere che la nozione di “pena” o “sanzione penale” rispettivamente accolta dall’ordinamento nazionale e da quello della CEDU non sono coincidenti.

La nozione di “pena” elaborata dalla Corte EDU è significativamente più ampia rispetto a quella conosciuta dall’ordinamento nazionale, atteso che mentre quest’ultimo utilizza essenzialmente in criterio di qualificazione prevalentemente giuridico-formale, in ambito europeo rilevano anche criteri di carattere sostanziale e funzionale.

Come è noto, la Corte EDU, anche in risposta al processo di depenalizzazione della repressione di certe condotte da parte delle Alte parti contraenti, ha sviluppato una nozione di “accusa penale” ai sensi dell’art. 6, par. 1, avente portata autonoma dalle classificazioni utilizzate negli ordinamenti statali.

Questa nozione è oggetto di una giurisprudenza consolidata (a partire dalla sentenza Engel ed altri v. Paesi Bassi, 8 giugno 1976 ), che richiede di tener conto di tre criteri, da considerarsi alternativi e non cumulativi: i) la qualificazione giuridico-formale dell’infrazione nel diritto interno; ii) la natura dell’infrazione; iii) la natura o il grado di severità della sanzione.

Pertanto, la qualificazione che l’infrazione riceve nell’ordinamento nazionale non ha che un valore formale e relativo, e può cedere ove si accerti la natura intrinsecamente penale della stessa, avendo riguardo alla funzione deterrente e repressiva della sanzione, e al tipo di sanzione prevista.

Affinché quindi l’art. 6, par. 1, trovi applicazione (nella parte in cui fa riferimento all’accusa penale), è sufficiente che l’infrazione in questione sia di natura penale rispetto all’ordinamento nazionale oppure che abbia esposto l’interessato ad una sanzione che, per la sua natura e gravità, ricada generalmente nella materia penale, avendo carattere punitivo e deterrente e non semplicemente risarcitorio o ripristinatorio.

La Corte EDU si è riservata la possibilità di adottare un approccio cumulativo qualora l’analisi separata di ciascun criterio non le consenta di pervenire ad una conclusione chiara quanto all’esistenza di una accusa in materia penale.

Per esempio, nell’analizzare se sia soddisfatto il secondo criterio (natura dell’infrazione), considerato il più importante, essa prende in considerazione vari fattori, in particolare: se sia di applicazione generale (perché, ove riguardasse solo gli appartenenti a un ordinamento particolare, acquisirebbe natura disciplinare); se abbia una funzione repressiva o dissuasiva, il che fa sì che non possano essere ritenute di natura «penale » sanzioni aventi un carattere meramente risarcitorio o ripristinatorio (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 1 febbraio 2005, Ziliberberg v. Moldova, § 32); se la condanna dipenda da una constatazione di colpevolezza.

Quanto poi al terzo criterio (natura e gravità della sanzione), esso è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata (Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 giugno 2009, Dubus S.A.v. c. France, § 37). Con specifico riguardo alle sanzioni pecuniarie, la severità è legata alla significatività del sacrificio economico, valutato però avendo riguardo alle condizioni soggettive del destinatario: così, anche una sanzione di pochi euro è stata considerata di natura penale sull’assunto che il suo ammontare fosse comunque significativo rispetto al reddito del destinatario (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Ziliberberg v. Moldova, cit., § 3).

Peraltro, all’interno della più ampia categoria di accusa penale così ricostruita, la giurisprudenza della Corte EDU ha distino tra un diritto penale in senso stretto (“hard core of criminal law”) e casi non strettamente appartenenti alle categorie tradizionali del diritto penale.

Al di fuori del c.d. hard core, le garanzie offerte dal profilo penale non devono necessariamente essere applicate in tutto il loro rigore, in particolare qualora l’accusa all’origine del procedimento non comporti un significativo grado di stigma nei confronti dell’accusato.

La pragmaticità dell’approccio della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dunque portato quest’ultima a riconoscere che non tutte le garanzie di cui all’art. 6, par. 1, CEDU devono essere necessariamente realizzate nella fase procedimentale amministrativa, potendo esse, almeno nel caso delle sanzioni non rientranti nel nocciolo duro della funzione penale, collocarsi nella successiva ed eventuale fase giurisdizionale (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo 23 novembre 2006, caso n. 73053/01, Jussila c. Finlandia).

È, pertanto, ritenuto compatibile con l’art. 6, par. 1, della Convenzione che sanzioni penali siano imposte in prima istanza da un organo amministrativo – anche a conclusione di una procedura priva di carattere quasi giudiziale o quasi-judicial, vale a dire che non offra garanzie procedurali piene di effettività del contraddittorio – purché sia assicurata una possibilità di ricorso dinnanzi ad un giudice munito di poteri di “piena giurisdizione”, e, quindi, le garanzie previste dalla disposizione in questione possano attuarsi compiutamente quanto meno in sede giurisdizionale.

15. Con riferimento alla fattispecie di illecito di manipolazione di mercato cui all’art. 187-ter T.U.F., la Corte EDU, nella sentenza Grande Stevens ha stabilito che le conseguenti sanzioni pecuniarie abbiano carattere penale, ritenendo così applicabile il profilo penale dell’art. 6, par. 1, CEDU.

La Corte EDU è giunta a questa conclusione tenendo conto sia della natura dell’infrazione (che ha tra i suoi scopi quello di assicurare la tutela degli investitori e l’efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici, ovvero la tutela di interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale), sia della natura e particolare severità delle sanzioni che può essere inflitta (in grado di ledere il credito delle persone interessate e di produrre conseguenze patrimoniali importanti).

La Corte EDU, tuttavia, implicitamente richiamando la distinzione sopra tratteggiata tra diritto penale in senso stretto e casi non strettamente rientranti nel c.d. hard core, ha ritenuto che nell’ipotesi in esame, vertendosi nella seconda situazione, “il rispetto dell’articolo 6 della Convenzione non esclude che in un procedimento di natura amministrativa, una «pena» sia imposta in primo luogo da un’autorità amministrativa. Esso presuppone, tuttavia, che la decisione di un’autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni dell’articolo 6 sia successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione (Schmautzer, Umlauft, Gradinger, Pramstaller, Palaoro e Pfarrmeier c. Austria, sentenze del 23 ottobre 1995, rispettivamente §§ 34, 37, 42 e 39, 41 e 38, serie A nn. 328 A-C e 329 A C).

Fra le caratteristiche di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione figura il potere di riformare qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione impugnata, resa dall’organo inferiore. In particolare esso deve avere competenza per esaminare tutte le pertinenti questioni di fatto e di diritto che si pongono nella controversia di cui si trova investito (Chevrol c. Francia, n. 49636/99, § 77, CEDU 2003-III; Silvester’s Horeca Service c. Belgio, n. 47650/99, § 27, 4 marzo 2004; e Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 59)” (par. 139 della sentenza Grande Stevens).

La Corte EDU, andando poi ad esaminare se il sindacato giurisdizionale esercitato nel giudizio di opposizione innanzi alla Corte di Appello fosse tale da assicurare il rispetto dei requisiti della piena giurisdizione, ha affermato che la Corte d’Appello è un organo indipendente e imparziale dotato di piena giurisdizione, tale da assicurare il rispetto dell’art. 6, par. 1. In concreto, tuttavia, poiché nel caso di specie la Corte d’appello di Torino non aveva tenuta una udienza pubblica, la Corte EDU ha riscontrato, solo rispetto a tale profilo, la violazione, nel caso di specie, dell’art. 6, par. 1, della Convenzione.

16. Alla luce del percorso giurisprudenziale così sinteticamente ricostruito, emerge, dunque, che le sanzioni che la Consob può irrogare all’esito del procedimento cui sono stati sottoposti gli odierni appellanti non appartengono al diritto penale in senso stretto, ma sono sanzioni solo in senso lato assimilabili a quelle penali. Questo implica che esse possono essere irrogate in prima battuta da un’Autorità amministrativa priva dei connotati di indipendenza e imparzialità e all’esito di un procedimento che non offre le garanzie richieste dalla piena giurisdizione. È tuttavia, necessario, ai sensi dell’art. 6, par. 1, della CEDU, che contro il provvedimento sanzionatorio sia assicurata agli interessati la possibilità di attivare un controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione, quale, in linea di principio, deve ritenersi essere la Corte di appello competente a decidere sul relativo giudizio di opposizione, salva la necessità della pubblica udienza.

17. Questo risultato interpretativo, che riconosce la possibilità che una sanzione (in senso lato) penale possa essere applicata anche da un’autorità amministrativa, priva di imparzialità oggettiva, all’esito di un procedimento che non offre le garanzie giurisdizionali proprie del processo penale, non rappresenta, contrariamente a quanto deducono gli appellanti, una sorta di anomala o impropria sanatoria giurisdizionale di una fase amministrativa di per sé, comunque, illegittima perché condotta senza rispettare i principi del giusto processo.

Questa forma di apparente compensazione giurisdizionale delle garanzie mancanti nella fase processuale è il frutto di un ragionamento molto diverso, che affonda le sue radici nella stessa formulazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e nell’interpretazione tradizionalmente fornitane dalla Corte EDU.

L’art. 6, par. 1, della CEDU testualmente prevede, infatti, che «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle contestazioni sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta».

Limitando l’attenzione al profilo penale di tale disposizione, occorre ricordare come la Corte EDU, al fine di individuare quale sia l’ambito di applicazione e la portata precettiva dell’art. 6, par. 1, attribuisce un significato sostanziale e autonomo, rispetto a quelli dei vari ordinamenti nazionali, non solo al concetto di “accusa penale” (nel cui ambito vengono incluse, come si è visto, pure alcune sanzioni formalmente qualificate come amministrative dagli ordinamenti nazionali), ma anche al concetto di “tribunale indipendente e imparziale”.

Secondo la Corte EDU non è affatto necessario che i “tribunali” siano organi giurisdizionali in senso proprio secondo la qualificazione dell’ordinamento del foro: basta, sul piano formale, che vi sia un’autorità pubblica che svolga funzioni materialmente giurisdizionali e che sia chiamata a decidere le questioni di sua competenza in maniera indipendente e imparziale nell’ambito di un procedimento amministrativo rispettoso delle garanzie del giusto processo.

In altri termini, secondo la Corte EDU le garanzie del diritto di difesa e del giusto processo possono essere realizzate anche all’interno del procedimento amministrativo, non essendo di ostacolo la natura formalmente non giurisdizionale dell’autorità che decide sulla fondatezza dell’accusa penale, purché questa sia indipendente dall’esecutivo e terza rispetto alle parti (ovvero tra il soggetto che chiede l’applicazione della sanzione e il potenziale destinatario della stessa).

18. L’art. 6, par. 1, non richiede, quindi, una trasformazione in senso paragiurisdizionale del procedimento amministrativo (e la necessaria applicazione in esso delle garanzie del giusto processo, prima fra tutte quella del contraddittorio orizzontale tra due parti poste in posizioni di parità rispetto all’autorità decidente), ma, semplicemente, l’eventuale connotazione in senso quasi-judicial del procedimento amministrativo sanzionatorio consente di ritenere soddisfatte già in tale sede le garanzie sottese al principio del giusto processo.

Nei casi in cui, come accade negli ordinamenti di molti Stati membri, il procedimento amministrativo non offra garanzie equiparabile a quelle del processo giurisdizionale, allora l’art. 6, par. 1, postula che l’interessato che subisce la sanzione abbia la concreta possibilità di sottoporre la questione relativa alla fondatezza dell’accusa penale contro di lui mossa ad un organo indipendente e imparziale dotato del potere di esercitare un sindacato di full jurisdiction. Il sindacato di full jurisdction implica, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il potere del giudice di sindacare la fondatezza, l’esattezza e la correttezza delle scelte amministrative così realizzando, di fatto, un continuum tra procedimento amministrativo e procedimento giurisdizionale.

La piena giurisdizione implica il potere del giudice di condurre un’analisi «point by point » su tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione, senza ritenersi vincolato all’accertamento compiuto dagli organi amministrativi e anzi dovendo sostituire la sua valutazione a quella, contestata, dell’amministrazione.

In altre parole, quando le garanzie del giusto processo non siano assicurate in sede procedimentale, esse devono essere necessariamente soddisfatte in sede processuale ove il giudice, per supplire alla carenza di garanzie del contraddittorio, di indipendenza del decisore, di parità delle parti, deve agire come se riesercitasse il potere, senza alcun limite alla piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco.

Sarebbe, quindi, errato ritenere che, nel pensiero della Corte EDU, la fase giurisdizionale valga a sanare una fase amministrativa illegittima perché priva delle garanzie del giusto processo.

La prospettiva da cui occorre partire è molto differente. Non vi è alcun obbligo di estendere le garanzie del giusto processo alla fase amministrativa. La fase amministrativa eventualmente priva delle garanzie del giusto processo giurisdizionale non deve, pertanto, essere considerata ontologicamente illegittima: essa è soltanto inidonea a soddisfare già nella fase amministrativa le garanzie di tutela di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU.

Nel caso in cui tale estensione dovesse avvenire, allora, nell’ambito del procedimento amministrativo connotato in senso quasi-judicial, l’autorità che applica la sanzione, nonostante la sua natura formalmente amministrativa, verrebbe già considerata un “tribunale indipendente e imparziale” e non vi sarebbe la necessità, ai fini del rispetto dell’art. 6, par. 1, della CEDU, di assicurare al soggetto sanzionato la possibilità di un successivo ricorso giurisdizionale di piena giurisdizione di fronte ad un’autorità giudiziaria indipendente e imparziale.

In base all’art. 6, par. 1, della CEDU, quindi, gli Stati possono scegliere: o realizzare le garanzie del giusto processo già nella fase amministrativa – e, in questo caso, un successivo controllo giurisdizionale potrebbe persino (dal punto di vista della CEDU) non essere neppure previsto (cfr. ad esempio la sentenza della Grand Chambre, 22 novembre 1995, caso 19178/91, Brian c. Regno Unito) – , ovvero assicurare il ricorso di piena giurisdizione, consentendo che la sanzione applicata dall’autorità amministrativa sia sottoposta ad un sindacato pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva.

La scelta per la seconda opzione non dà evidentemente vita ad una anomala forma di sanatoria processuale di un procedimento oggettivamente illegittimo perché privo di adeguate garanzie. La fase amministrativa pur non connotata dal rispetto delle garanzie del giusto processo è perfettamente legittima, solo che essa postula l’esistenza di una fase processuale in grado di offrire quelle garanzie.

In questo senso deve intendersi il principio di continuità tra la fase amministrativa e quella giurisdizionale e la più volte menzionata possibilità di recuperare in sede processuale il rispetto dei principi del contraddittorio, dell’imparzialità e della parità delle parti.

20. Il nostro ordinamento (non diversamente dagli ordinamenti di molti altri Stati membri) ha scelto di strutturare il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative senza assicurare le garanzie del giusto processo.

È vero, infatti, che la giurisprudenza nazionale, ha, ormai da tempo, elaborato il principio del “giusto procedimento” (riconoscendone, entro certi limiti, anche la valenza costituzionale: cfr. Corte cost. 23 marzo 2007, n. 103), in forza del quale ogni procedimento amministrativo deve svolgersi nel rispetto di un nucleo irriducibile di garanzie procedimentali che assicurino, fra l’altro, la partecipazione degli interessati e il conseguente contraddittorio endoprocedimentale, la conoscenza degli atti del procedimento, il diritto di difesa, l’obbligo di motivazione.

È altrettanto vero che vi è nell’ordinamento nazionale una crescente tendenza ad assimilare il “giusto procedimento” al “giusto processo”, anticipando, già in sede procedimentale, molte garanzie tradizionalmente tipiche del processo e dell’esercizio della giurisdizione.

Tale fenomeno di assimilazione è ancora più evidente con riferimento ai procedimenti sanzionatori di competenza delle c.d. Autorità amministrative indipendenti. In questo caso, infatti, le tradizionali garanzie del giusto procedimento si rafforzano in ragione della particolare configurazione strutturale-organizzativa delle stesse Autorithies, sottratte al circuito politico governo-parlamentare e, quindi, non sottoposte alla funzione di indirizzo politico dell’Esecutivo. Proprio questi tratti di indipendenza e di neutralità hanno talvolta condotto ad ipotizzarne una natura paragiurisdizionale.

Spesso, inoltre, il legislatore (cfr., con riferimento a Banca d’Italia, Consob, Isvap e Covip, art. 34 della legge 28 dicembre 2005, n. 262) nel disciplinare il procedimento sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti ha espressamente prescritto la separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie, attuando il principio per cui un soggetto non può essere al tempo stesso judge and jury).

Analoghe forme di separazione tra organi con funzioni istruttorie e organi con funzioni decidenti vengono per lo più assicurate, in maniera più o meno intensa, nell’ambito dei procedimenti sanzionatori di pressoché tutte le altre Autorità amministrative indipendenti, alla luce di quanto previsto dei relativi regolamenti sanzionatori.

In questa direzione si muove, con specifico riferimento alla Consob, anche l’art. 187-septies, comma 2, del TUF ai sensi del quale “il procedimento sanzionatorio è retto da principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie”.

Proprio dando attuazione a questo principio di separazione, la Consob, con le delibere n. 15086 del 2005 e n. 18750 del 2013, ha delineato un assetto organizzativo e una procedura per l’accertamento e l’applicazione delle sanzioni di propria competenza caratterizzato da una fase istruttoria “bifasica” che si svolge dapprima dinanzi alla Divisione competente per materia e successivamente dinnanzi all’ufficio Sanzioni Amministrative all’uopo istituito, e da una fase decisoria di competenza della Commissione.

Tale separazione, tuttavia, è, come si evidenzierà meglio nel prosieguo, di carattere meramente funzionale, e non è tale, pertanto, da assicurare la c.d. imparzialità oggettiva, ovvero che il soggetto che decide sulla sanzione sia diverso, da un punto di vista strutturale e organizzativo, da quello che svolge l’istruttoria.

Nel caso della Consob (così come nel caso di molte Autorità indipendenti) funzione istruttoria e funzione decisoria, sebbene affidate a organi e uffici tra loro distinti, sono, comunque, da un punto di vista, soggettivo-strutturale concentrate in capo da un’unica Autorità. Il contraddittorio che si svolge nell’ambito del procedimento sanzionatorio rimane, quindi, un contraddittorio di tipo verticale, in cui il privato si confronta con un soggetto che non si colloca in posizione di parità, ma ha un ruolo di superiorità, essendo lo stesso soggetto titolare del potere di irrogare la sanzione.

Come ha rilevato la Corte EDU, con la sentenza Grande Stevens, rimane comunque il fatto che l’Ufficio competente, l’Ufficio sanzioni e la Commissione non sono che suddivisioni dello stesso organo amministrativo, che agiscono sotto l’autorità e la supervisione di uno stesso Presidente. Secondo la Corte EDU, ciò si esprime nel consecutivo esercizio di funzioni di indagine e di giudizio in seno ad una stessa istituzione; ed in materia penale tale cumulo non è compatibile con le esigenze di imparzialità richieste dall’articolo 6 § 1 della Convenzione.

21. Una reale separazione soggettiva tra funzione istruttoria e funzione decisoria (nel modo necessario per assicurare il rispetto della c.d. imparzialità oggettiva come tratteggiato dalla Corte EDU) non è, tuttavia, praticabile de jure condito. Essa richiederebbe un radicale ripensamento del sistema delle Autorità indipendenti, attraverso la creazione, ad esempio, di Autorità indipendenti con funzioni soltanto inquirenti e l’attribuzione al giudice del potere di irrogare le relative sanzioni

sul modello del sistema anglo-americano.

Si pensi, in tal senso, alla soluzione accolta dall’Administrative Procedure Act degli Stati Unti, in base al quale nelle Agenzie la funzione istruttoria è separata da quella decisionale che è attribuita agli Administrives Law Judges). Analogamente nel sistema inglese la fase investigativa ed istruttoria è svolta dalla Financial Conduct Authority (FCA) mentre il potere decisorio è attribuito ad un Comitato del tutto indipendente (il Regulatory Decision Committee), composto da professionisti che rappresentano l’interesse pubblico e che non sono titolari di un rapporto di lavoro con la FCA.

In alternativa, sempre de jure condendo, una più netta separazione può essere realizzata attraverso la creazione di due Autorità con funzioni chiaramente distinte (l’una istruttoria, l’altra decisoria), sulla falsariga di quanto accaduto in Francia, dove, in seguito alla sentenza Dubus (Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 giugno 2009, caso 5242/04, Dubus S.A.v. c. Francia), è stata creata, in luogo della Commission bancaire (COB), una nuova autorità di controllo sul sistema bancario (l’Autoritè de contrôl prudentiel) composta da due organi con funzioni chiaramente distinte e non più da una commissione unica (cfr. l’art. L 612-4 dell’Ordonnance n. 2010-76 del 21 gennaio 2010).

Tali sistemi alternativi, tuttavia, sebbene praticabili (e, per alcuni versi, forse anche auspicabili) de jure condendo, non solo non corrispondono al diritto vigente, ma tantomeno costituiscono soluzioni imposte o obbligate dagli obblighi sovranazionali derivanti dall’appartenenza alla CEDU.

22. Appurato che il regolamento Consob non presenta motivi di contrasto con l’art. 6, par. 1, della CEDU, occorre ora, tuttavia, vagliarne la legittimità alla luce delle disposizioni di rango sia costituzionale sia legislativo dell’ordinamento nazionale.

23. Rispetto ai precetti costituzionali non emergono profili di illegittimità.

Le norme della Costituzione che garantiscono il diritto di difesa e il giusto processo riguardano espressamente il giudizio cioè il procedimento in cui il giudice è chiamato ad esercitare funzioni giurisdizionali al fine di statuire su posizioni soggettive, e sono rivolte a garantire che, nel dibattito prodromico alla decisione, siano presenti tutti gli interessati, in situazione di parità e con effettiva possibilità di formulare le deduzioni difensive ritenute opportune. Il procedimento amministrativo, ancorché sia finalizzato ad un provvedimento incidente su diritti soggettivi non è assimilabile al giudizio, sicché l’assenza di una totale equiparazione del procedimento amministrativo e giusto processo non autorizza ad ipotizzare un contrasto con i principi costituzionali propri esclusivamente del giudizio (Civ., Sez. Un., 20 settembre 2009, n. 20935).

La nozione di “giusto processo”, enunciata dall’art. 111, è dunque direttamente riferibile soltanto ai giudizi destinati a svolgersi dinanzi ad organi giurisdizionali, come inequivocabilmente conferma già l’intestazione della sezione II (“Norme sulla giurisdizione”), del titolo IV della Costituzione (a propria volta intestato alla “Magistratura”).

Sotto il profilo costituzionale, la disciplina del procedimento amministrativo anche sanzionatorio è vincolata solo al rispetto dei più generici principi di eguale trattamento, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, posti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione, nonché al generalissimo principio di legalità che è sempre sotteso all’operare della pubblica amministrazione.

È appena il caso di aggiungere, peraltro, che lo stesso ordinamento processuale penale interno prevede un procedimento a contraddittorio (totalmente) differito — il procedimento per decreto — transitato costantemente indenne al vaglio di legittimità costituzionale (cfr., ex plurimis, Corte Cost. 18 luglio 2003, n. 257; Corte cost. 16 aprile 2003, n. 132; Corte cost. 15 gennaio 2003, n. 8).

La considerazione secondo cui il provvedimento amministrativo sanzionatorio, in forza della sua immediata esecutività (ciò diversamente da quanto accade per il decreto penale di condanna, la cui esecutività è subordinata alla mancata proposizione dell’opposizione), potrebbe produrre effetti gravemente lesivi in danno al privato che ne sia destinatario ancor prima che quest’ultimo possa eventualmente invocare rimedi giurisdizionali, non basta, di per sé a giustificare sul piano costituzionale un obbligo di estendere le garanzie del giusto processo alla fase procedimentale sanzionatoria. Se così fosse, infatti, una tale estensione dovrebbe predicarsi non solo per i provvedimenti sanzionatori, ma per molti altri provvedimenti amministrativi, i quali, pur senza connotazione sanzionatoria, possono ugualmente essere fonte di gravissimi pregiudizi per il privato che ne è destinatario e dare parimenti luogo al pericolo di lesioni ingiustificate prima dell’intervento giurisdizionale.

Tale pericolo non può essere però risolto invocando la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo. Al contrario, la soluzione corretta e costituzionalmente compatibile è quella che passa attraverso un bilanciamento tra le esigenze di tutela del privato e il contrapposto interesse alla prontezza e alla efficacia dell’azione amministrativa.

Da tale punto di vista, l’ampiezza, l’efficacia e l’immediatezza della tutela cautelare, anche ante causam e monocratica, è certamente in grado di assicurare, tanto nel processo amministrativo quanto in quello civile di opposizione alle sanzioni amministrative, un equilibrato contemperamento degli opposti interessi, scongiurando così il pericolo che il destinatario del provvedimento sia privato della ineliminabile garanzia della tutela effettiva.

25. Resta da esaminare, a questo, punto la compatibilità del regolamento Consob con le previsioni di rango primario contenute negli artt. 187-septies e 195 del T.U.F., nel testo risultante dopo le modifiche introdotte con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (che ha modificato integralmente l’intero procedimento sanzionatorio allora vigente, attribuendo alla Consob la competenza sia della fase istruttoria che di quella decisoria, prima riservata al Ministero dell’Economia e delle Finanze).

Le disposizioni appena menzionate stabiliscono, come si è già evidenziato, che il procedimento sanzionatorio di competenza della Consob debba essere retto dai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie.

Sono, nella sostanza, gli stessi principi richiamati dall’art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che ne ha esteso l’applicazione anche ai procedimenti sanzionatori della Banca d’Italia, dell’Ivass e della Covip.

In attuazione delle citate disposizioni, la Consob ha esercitato la propria potestà organizzatoria con la delibera 21 giugno 2005 n. 15086, poi abrogata e sostituita dalla delibera 19 dicembre 2013, n. 18750 (non rilevante tuttavia ratione temporis nel presente giudizio in quanto applicabile solo ai procedimenti sanzionatori avviati successivamente alla sua entrata in vigore, ovverosia successivamente al 10 marzo 2014, mentre nei confronti degli odierni appellanti il procedimento sanzionatorio è stato avviato il 6 dicembre 2013).

In base a detto regolamento, prodromica a ogni procedimento sanzionatorio è una fase preliminare, nella quale la Consob raccoglie gli elementi di fatto e le informazioni sulle quali si basa l’eventuale successiva fase istruttoria. Nell’ambito dei propri poteri di vigilanza ispettiva l’Autorità di controllo dispone, infatti, di ampi poteri-doveri di indagine per l’accertamento di violazioni potendo, in base al T.U.F., accedere alla sfera giuridica dei soggetti informati sui fatti: la Commissione può richiedere notizie, dati e documenti, registrazioni telefoniche, disporre audizioni personali e sequestrare beni, ed effettuare perquisizioni; l’Autorità si può peraltro avvalere della collaborazione di altre pubbliche amministrazioni.

Ad esito dell’attività di vigilanza, il dialogo tra gli uffici della Consob può condurre l’ufficio competente ad avviare il procedimento sanzionatorio vero e proprio, che ha inizio con la formale contestazione per iscritto degli addebiti ai soggetti interessati (con requisiti minimi di contenuto). Dalla notifica delle contestazioni, i soggetti interessati hanno 120 giorni di tempo per presentare proprie memorie scritte e documenti.

Il procedimento sanzionatorio, all’epoca dei fatti, si divideva in una fase istruttoria e una decisoria. La prima, a sua volta, comprendeva due sotto-fasi: “parte istruttoria di valutazione delle deduzioni”, che si svolgeva dinanzi alla Divisione competente, e “parte istruttoria della decisione”, per la quale era competente l’Ufficio Sanzioni Amministrative (“U.S.A.”). La Divisione competente, ricevute le eventuali controdeduzioni da parte degli interessati, formulava proprie valutazioni e trasmetteva il fascicolo all’U.S.A. Quest’ultimo inviava agli interessati un avviso e la relazione della Divisione, i quali avevano a disposizione 30 giorni per presentare ulteriori memorie e documenti.

L’U.S.A., effettuate le proprie valutazioni anche sulla base degli scritti difensivi, predisponeva una relazione sulla violazione ed eventualmente contenente una proposta di sanzione, che veniva trasmessa ai Commissari, ai quali spetta la decisione circa il provvedimento sanzionatorio. Punto delicato è che le deduzioni dell’U.S.A. non sono condivise con gli interessati, né questi hanno la facoltà di presentare documenti o essere uditi dalla Commissione. La Commissione quindi, con decreto motivato, irroga la sanzione o archivia il procedimento.

Si tratta di verificare se la disciplina del procedimento sanzionatorio contenuta nel regolamento Consob impugnato assicuri il rispetto dei principi richiamati dalla norma legislativa e, segnatamente, del principio del contraddittorio e della piena conoscenza degli atti.

26. Il Collegio ritiene che il quesito debba trovare una risposta negativa.

Va preliminarmente evidenziato che la disposizione legislativa, nel richiamare il principio del contraddittorio non fissa esplicitamente un livello minimo di tutela, né tantomeno impone l’adozione di un modulo procedimentale che offra garanzie del tutto equiparabili a quelle proprie del giusto processo giurisdizionale,

Il legislatore non fornisce direttamente una definizione della nozione di contraddittorio di cui impone il rispetto.

Tale nozione deve essere, pertanto, ricavata in via interpretativa, tenendo conto del complessivo contesto in cui si inserisce la disposizione in esame.

27. Giova a tal proposito evidenziare che quella di “contraddittorio” costituisce, in sé considerata, una nozione polisemica, che comprende una pluralità di livelli, più o meno alti, di tutele. In ogni ambito, le garanzie del contraddittorio non costituiscono un insieme predefinito e costante di poteri, doveri e facoltà attribuiti alle parti all’interno del procedimento amministrativo. Esse sono invece suscettibili di variazioni e adattamenti, in funzione del tipo di procedimento e degli interessi in gioco. Persino nella sede giurisdizionale, il principio del contraddittorio subisce adattamenti e limitazioni in funzione del tipo di processo (cognizione, di esecuzione, cautelare).

Diverse sono anche le funzioni del contraddittorio: funzione di garanzia del diritto di difesa, di partecipazione in funzione collaborativa, di rappresentanza degli interessi.

Il più alto livello di contraddittorio è certamente quello di matrice processuale: il contraddittorio orizzontale e paritario (contraddittorio tra due parti in posizioni di parità rispetto ad un decidente terzo e imparziale), con il riconoscimento del diritto, in capo al soggetto interessato, di interloquire in ogni fase del procedimento.

Il contraddittorio procedimentale (quello che si svolge nell’ambito dei procedimenti amministrativi) è, invece, normalmente di tipo verticale (contraddittorio tra l’interessato sottoposto e l’Amministrazione titolare del potere e collocata, quindi, su un piano non paritario) ed ha essenzialmente una funzione collaborativa e partecipativa, piuttosto che difensiva.

Ha prevalentemente queste caratteristiche e questa funzione (più partecipativa che difensiva) il contraddittorio che trovala sua concreta disciplina nell’ambito della legge 7 agosto 1990, n. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”), che detta una disciplina generale destinata ad applicarsi, salvo discipline speciali, ad ogni procedimento amministrativo.

Occorre allora chiarire se il contraddittorio richiamato in generale dall’art. 195 e, per la specifica materia del c.d. market abuse che qui viene in rilievo, dall’art. 187-septies T.U.F, sia semplicemente il “tradizionale” contraddittorio endoprocedimentale (con finalità partecipativa e collaborativa) già conosciuto nell’ambito della disciplina generale del procedimento amministrativo o se, al contrario, si tratti di un concetto più stringente di contraddittorio, volto ad imporre, in un’ottica difensiva, l’introduzione di garanzie ulteriori.

28. Il Collegio ritiene che meriti condivisione la seconda opzione ermeneutica, quella seconda cui il contraddittorio richiamato per i procedimenti sanzionatori della Consob sia un contraddittorio rafforzato rispetto a quello meramente collaborativo già assicurato dalla disciplina generale del procedimento amministrativo.

Sono numerosi gli argomenti che depongono a sostegno di tale conclusione.

In primo luogo, l’obbligo di assicurare il rispetto del principio del contraddittorio nell’ambito dei procedimenti sanzionatori della Consob viene introdotto (dalla legge n. 62 del 2005) e poi ribadito (dalla legge n. 262 del 2005), in un contesto normativo ed in un momento storico in cui già esiste da tempo, nell’ambito della disciplina generale del procedimento amministrativo di cui alla legge n. 241 del 1990, il riconoscimento di un livello minimo di contraddittorio, prevalentemente inteso come momento di partecipazione, collaborazione e rappresentanza degli interessi.

L’intervento normativo del 2005 non avrebbe, quindi, quasi alcuna reale utilità se si dovesse concludere nel senso che il legislatore abbia voluto limitarsi, attraverso l’enfatico richiamo ai principi del contraddittorio e della piena conoscenza degli atti, a ribadire obblighi di trasparenza e di partecipazione già da tempo sanciti dalla legge generale sul procedimento amministrativo.

Al contrario, la portata innovativa e autonomamente precettiva delle richiamate disposizioni legislative viene conservata e valorizzata ritenendo che il risultato della disciplina in esame sia proprio quello di imporre uno standard di contraddittorio più elevato rispetto a quello già assicurato dalla legge generale del procedimento amministrativo, un livello di contradditorio che, con riferimento a questa particolare tipologia di procedimenti, il legislatore ha voluto in parte assimilare quello di matrice processuale.

Deve poi evidenziarsi come il principio del contraddittorio sia richiamato insieme a quelli di piena conoscenza degli atti e di separazione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie, che sono pure tipici principi di matrice processualistica e che, a loro volta, evocano il rispetto di un nucleo minimo di garanzie senz’altro più elevato di quello assicurato nell’ambito dei comuni procedimenti amministrativi. In questi ultimi, infatti, la conoscenza degli atti è solo eventuale (ed avviene principalmente ad iniziativa dell’interessato mediante il c.d. accesso endoprocedimentale) e non vi è certamente alcuna forma di separazione tra istruttoria e decisione.

Tali conclusioni trovano ulteriore conferma nel fatto che il procedimento amministrativo sanzionatorio viene, tuttavia, ormai per lo più ritenuto (anche a prescindere dalla sua inclusione nell’ambito della “materia penale” da parte della Corte EDU) un procedimento sui generis rispetto ai comuni procedimenti amministrativi, in quanto l’Amministrazione è chiamata non solo e non tanto a curare un interesse pubblico concreto, ma a punire, in nome dell’interesse generale all’osservanza delle leggi. Si ritiene, pertanto, che il procedimento sanzionatorio abbia una natura, almeno in parte, paragiurisdizionale, che richiederebbe un rafforzamento delle garanzie del contraddittorio, che dovrebbe, quindi, essere destinato ad una finalità difensiva e non solo ad esigenze partecipative e di rappresentanza degli interessi in gioco.

Evidentemente, quindi, con la novella legislativa del 2005, il legislatore ha inteso soddisfare tali esigenze, imponendo, almeno con riferimento al procedimento sanzionatorio della Consob, il rispetto di un più elevato livello di contraddittorio rispetto a quello già assicurato per i comuni procedimenti amministrativi.

29. Fatta tale necessaria premessa, deve rilevarsi come il regolamento Consob si ponga al di sotto dello standard di contraddittorio fissato dal legislatore.

Non vi è dubbio, infatti, che la fase del procedimento sanzionatorio che si svolge davanti alla Consob presenti numerose criticità (che neanche il successivo regolamento del 2013 riesce a superare), sul piano del rispetto del c.d. fair trial.

Nella fase istruttoria non viene, infatti, garantito, come anche la dottrina maggioritaria non ha mancato di rivelare, un vero e proprio diritto di difesa, con contraddittorio pieno.

Dopo la contestazione dell’addebito agli interessati, un vero e proprio contraddittorio si instaura unicamente tra costoro e la Divisione competente che ha compiuto gli accertamenti sfociati nella contestazione, in modo da permettere a detta Divisione di tenere conto delle eventuali deduzioni difensive già nella relazione da trasmettere all’Ufficio sanzioni amministrative.

Certamente anche questo Ufficio, nel formulare la proposta per la Commissione, terrà conto delle medesime deduzioni difensive e di quelle ulteriori che gli siano nel frattempo pervenute. Non è previsto, però, che la proposta dell’Ufficio sanzioni amministrative sia comunicata alle controparti e che su di essa si instauri quindi alcuna forma di contraddittorio sia con l’Ufficio sanzioni prima dell’invio della relazione conclusiva, sia davanti alla Commissione.

Dopo l’iniziale ridotta partecipazione, pertanto, il procedimento sanzionatorio prosegue in totale assenza di contraddittorio. La relazione dell’ufficio che svolge l’istruttoria non viene, infatti, inviato all’interessato, in violazione del diritti di piena conoscenza degli atti istruttori, e le controdeduzioni giungono alla Commissione, titolare del potere di decisione finale, solo attraverso la relazione dell’ufficio istruttorio. Manca, quindi, qualunque interlocuzione tra l’ufficio titolare del potere di decisione finale e il soggetto che quella decisione subirà.

L’interessato si vede, in particolare, preclusa la possibilità di interloquire sulla relazione conclusiva dell’Ufficio Sanzioni, nella quale pure possono essere contenute valutazioni (in primis, la definitiva qualificazione giuridica dell’istituto) non necessariamente oggetto di confronto durante la fase istruttoria.

Questo iter procedimentale, così come disegnato dal regolamento impugnato, determina allora una violazione del contraddittorio voluto dal legislatore, dal momento che in un procedimento ispirato a tale principio il contraddittorio dovrebbe esplicarsi in ogni fase del procedimento, prima, durante e dopo il compimento dell’attività istruttoria preordinata alla decisione finale.

La contraria opinione, in passato accolta dalla giurisprudenza, secondo cui il rispetto del principio del contraddittorio nel procedimento in esame sarebbe adeguatamente assicurato dalla previa contestazione degli addebiti all’interessato e dalla possibilità che costui ha di far valere le proprie difese nei successivi trenta giorni, risulta, dunque, frutto di una concezione eccessivamente riduttiva della nozione di contraddittorio.

È certamente vero che esiste un legame logico e funzionale tra contestazione degli addebiti e l’attuazione del contraddittorio e che entrambe riguardano l’esercizio del diritto di difesa, ma queste garanzie non sono da sole sufficiente ad assicurare il principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio specificamente richiamato da legislatore con riferimento ai procedimenti sanzionatorio della Consob implica, infatti, qualcosa di più: implica non solo che all’interessato deve essere assicurato il diritto di controdedurre rispetto all’addebito contestatogli, ma che la difesa debba poter interagre con l’accusa in tutte le fasi del procedimento, secondo modalità destinate a connotare in termini più dialettici il procedimento e a trasformarlo da procedimento inquisitorio a procedimento accusatorio, in cui l’interessato deve avere la possibilità di conoscere la proposta dell’Ufficio sanzioni e di replicare prima che la Commissione decida.

La prevista possibilità di presentare deduzioni davanti all’Ufficio sanzioni, così come la possibilità che l’interessato chieda di essere sentito dall’Ufficio sanzioni non risulta sotto tale profilo sufficiente, risultando comunque dirimente, al fine di riscontrare la violazione del principio del contraddittorio, la circostanza che l’atto certamente più importante della fase istruttoria (ovvero la relazione conclusiva redatta dall’Ufficio sanzioni e inviata alla Commissione) non è oggetto di comunicazione (o di altre forme di conoscenza) e rispetto ad esso non vi è alcuna possibilità di controdeduzione.

30. Alla luce delle considerazioni svolte, l’appello principale risulta, dunque, fondato, limitatamente al profilo evidenziato.

31. La fondatezza dell’appello principale rende attuale la soccombenza della Consob e fa nascere, come sopra si è evidenziato, un interesse attuale alla decisione dell’impugnazione incidentale condizionata.

32. La Consob attraverso l’appello incidentale condizionato ripropone, in sintesi, le seguenti eccezioni di: i) il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sul presupposto che la presente controversia afferisca alla materia “procedimentale sanzionatoria”, dal che discenderebbe integralmente la giurisdizione del giudice ordinario (e, segnatamente, della Corte d’appello funzionalmente competente); ii) l’inammissibilità del ricorso conto la nota Consob 11 agosto 2014, avendo essa natura meramente interlocutoria ed endoprocedimentale; iii) l’inammissibilità per difetto di interesse del ricorso proposto contro il regolamento del 2013, non essendo quest’ultimo applicabile ratione temporis al procedimento sanzionatorio instaurato contro gli appellanti principali; iv) l’inammissibilità per carenza di interesse del ricorso proposto contro il regolamento del 2005, atteso che la generalità e l’astrattezza delle prescrizioni normative impugnate non consisterebbe di ravvisare l’attualità della sanzione lamentata dal ricorrente.

33. L’eccezione di difetto di giurisdizione non merita accoglimento.

L’oggetto del presente giudizio non, è infatti, la sanzione amministrativa (peraltro non ancora irrogato essendo il procedimento sanzionatorio ancora in corso), ma l’atto di natura regolamentare con il quale la Consob, nell’esercizio del potere conferitole dal legislatore, ha disciplinato il procedimento sanzionatario.

Deve al riguardo escludersi, come correttamente ritenuto dal T.a.r., che la giurisdizione riservata al giudice ordinario sul provvedimento sanzionatorio possa estendersi anche agli atti amministrativi o regolamentari che non costituiscono diretta e concreta espressione della potestà sanzionatoria.

La giurisdizione del giudice ordinario riguarda la sanzione inflitta e gli atti del procedimento sanzionatorio, ma non anche gli atti a monte del procedimento medesimo, espressione di poteri di diversa natura (regolamentare o amministrativa appunto) e rispetto ai quali sussistono certamente posizioni di interesse legittimo la cui tutela spetta, secondo gli ordinari criteri di riparto, alla giurisdizione del giudice amministrativo.

La giurisdizione del giudice ordinario sulle sanzioni Consob non è, infatti, una giurisdizione di carattere esclusivo, in grado di estendersi a tutti gli atti comunque afferenti alla “materia procedimentale sanzionatoria” (come sostiene la Consob nei suoi scritti difensivi), a prescindere dalla situazione giuridica soggettiva vantata dall’interessato.

Al contrario, come si desume anche dalla sentenza della Corte costituzionale 27 giugno 2012, n. 162, la giurisdizione ordinaria sulle sanzioni inflitte dalla Consob deriva dal fatto che di fronte ad esse si rinvengono tradizionalmente situazioni di diritto soggettivo, in quanto le stesse sono applicate sulla base di criteri che non possono considerarsi espressione di discrezionalità amministrativa.

La giurisdizione ordinaria, tuttavia, viene meno nel caso in cui l’oggetto della contestazione sia un atto (amministrativo o regolamentare), adottato nell’esercizio di un potere discrezionale, che si colloca a monte del procedimento sanzionatorio, fissando, come nel caso di specie, le regole relative al suo svolgimento.

In tale caso, venendo in rilievo un potere autoritativo di natura regolamentare, torna ad operare la giurisdizione del giudice amministrativo, secondo gli ordinari criteri di riparto.

Non rileva, in senso contrario, la considerazione che il regolamento impugnato in questa sede potrebbe, in ipotesi, essere oggetto di disapplicazione da parte del giudice ordinario investito dell’impugnazione avverso la sanzione amministrativa.

La possibile concorrenza tra il potere del giudice amministrativo di annullare l’atto amministrativo o regolamentare a valle e il potere del giudice ordinario di disapplicarlo nell’ambito del giudizio volto a contestare il provvedimento sanzionatorio a monte è, infatti, una evenienza fisiologica e compatibile con i principi in materia di riparto della giurisdizione.

Non si tratta, è bene chiarirlo, di una forma inammissibile di c.d. “doppia tutela” avverso il medesimo atto, ovvero della surrettizia riproposizione del criterio di riparto ormai abbandonato fondato sul c.d. petitum formale, ma della natura convivenza nell’ambito della materia procedimentale sanzionatorio di posizioni di interesse legittimo (rispetto agli atti presupposti) e di diritto soggettivo (rispetto agli atti conclusivi del procedimento).

Ed è allora evidente che laddove la fonte diretta della lesione e, quindi, l’oggetto del giudizio, sia il provvedimento sanzionatorio, la giurisdizione è del giudice ordinario al quale spetta anche il potere di disapplicare gli atti amministrativi o regolamentari illegittimi di cui conosce in via incidentale. Nel caso in cui, invece, la fonte diretta della lesione e, quindi, l’oggetto del giudizio, sia l’atto regolamentare o amministrativo a monte, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, con conseguente possibilità di annullamento del provvedimento o del regolamento impugnato.

Nel caso di specie il regolamento non viene contestato per i vizi riflessi che dalla sua illegittimità possono derivare sulla sanzione (non ancora applicata del resto), ma è oggetto di una immediata e diretta contestazione sul presupposto che la sua esistenza arrechi un vulnus a situazioni giuridiche che assumono la consistenza di interessi legittimi.

Del resto la possibilità che uno stesso atto amministrativo o regolamentare, presupposto dell’adozione di successivi atti applicativi demandati alla giurisdizione ordinaria, possa essere, a seconda del tipo di lesione lamentata, oggetto di annullamento (da parte del giudice amministrativo) o di disapplicazione (da parte del giudice ordinario) si riscontra anche in diversi ambiti, in cui è pure ravvisabile mutatis mutandis, questa possibile duplicità di situazioni soggettive.

Si pensi, ad esempio, alle controversie in materia di pubblico impiego privatizzato e alla coesistenza tra la giurisdizione ordinarie sulla controversie relative al rapporto di lavoro e a quella amministrative sulle controversie che hanno direttamente ed immediatamente ad oggetto gli atti presupposti di natura amministrativa o regolamentare.

Si pensi ancora ai rapporti tra la giurisdizione tributaria sulle controversie aventi ad oggetto l’applicazione dei tributi e a quella, pacificamente riconosciuta, del giudice amministrativo sull’impugnazione dei regolamenti che istituiscono o disciplinano i tributi.

Nel caso di specie, l’oggetto del giudizio non è la sanzione amministrativa, ma la delibera Consob 21 giugno 2005, n. 15086, ovvero un atto di natura regolamentare che fuoriesce dalla giurisdizione ordinaria in materia di sanzioni.

Diversamente opinando, del resto, si finirebbe per giungere alla conclusione secondo cui determinati atti amministrativi o regolamentari, solo perché afferiscono a materie o procedimenti destinati a concludersi con un provvedimento riservato alla giurisdizione ordinaria, non potrebbero essere impugnati innanzi al giudice amministrativo e da questo annullati, ma solo disapplicati dal giudice ordinario. La prevista possibilità di presentare deduzioni davanti all’Ufficio sanzioni, così come la possibilità che l’interessato chieda di essere sentito dall’Ufficio sanzioni non risulta sotto tale profilo sufficiente, risultando comunque dirimente, al fine di riscontrare la violazione del principio del contraddittorio, la circostanza che l’atto certamente più importante della fase istruttoria (ovvero la relazione conclusiva redatta dall’Ufficio sanzioni e inviata alla Commissione) non è oggetto di comunicazione (o di altre forme di conoscenza) e rispetto ad esso non vi è alcuna possibilità di controdeduzione. È evidente, tuttavia, come simile conclusione, concretizzando una “limitazione dei mezzi di impugnazione” si porrebbe in stridente contrasto con l’art. 113, comma 2, Cost.

34. Risulta, invece, fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di interesse.

Giova al riguardo precisare che il vero thema decidendum del presente giudizio, quale si desume, al di là delle richieste formulate, dal tenore complessivo degli scritti difensivi e delle censure articolate, è la delibera n. 15086 del 21 giugno 2005, che disciplina, ratione temporis, il procedimento sanzionatorio instaurato nei confronti degli originari ricorrenti.

Esula dal presente giudizio, quindi, il successivo regolamento del 2013 (approvato con delibera n. 18750 del 2013) non applicabile ratione temporis e la cui impugnazione deve ritenersi, quindi, proposta solo in via meramente tuzioristica.

Ugualmente non assume alcun rilievo la lettera con la quale, in data 11 agosto 2014, l’Ufficio Sanzioni Amministrative, in risposta alla diffida presentata dai ricorrenti, ha comunicato che non avrebbe preso in considerazione la richiesta di modifica del regolamento, con sospensione, nelle more, del procedimento sanzionatorio avviato. Tale nota costituisce, infatti, un atto meramente ricognitivo e interlocutorio, che non ha in sé carattere provvedimentale e che non aggiunge niente di nuovo al contenuto precettivo del regolamento.

L’oggetto del giudizio è, quindi, costituito dalla delibera n. 15086 del 21 giugno 2005, che detta la disciplina regolamentare, applicabile ratione temporis, del procedimento sanzionatorio.

35. La questione relativa alla impugnabilità da parte dei singoli delle norme regolamentari è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa la quale ha affermato che il singolo non è, di regola, legittimato ad impugnare le norme regolamentari in quanto la generalità e l’astrattezza delle prescrizioni normative impedisce di ravvisare sia l’attualità della lesione sia una posizione differenziata rispetto al quisque de populo (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Commissione speciale, parere 14 febbraio 2013, n. 3909/11).

La lesione che radica l’interesse al ricorso deve, infatti, essere attuale e non può discendere da un pregiudizio allo stato meramente eventuale ed incerto.

Nel caso in esame, la lesione si attualizzerà soltanto se e quando verrà eventualmente inflitta la sanzione, fonte di effetti immediatamente e direttamente lesivi.

A differenza di quanto ritenuto dal T.a.r. la mera pendenza del procedimento sanzionatorio non vale ad attualizzare la lesione.

La pendenza del procedimento sanzionatorio può forse valere a differenziare la posizione degli odierni ricorrenti rispetto al quisque de populo (determinando quindi una forma di legittimazione al ricorso), ma non consente di superare l’obiezione derivante dalla mancanza dell’altra condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, che richiede l’attualità della lesione e, dunque, nel caso in esame, la concreta inflizione della sanzione.

Diversamente opinando, del resto, troverebbero ingresso nel processo amministrativo interessi meramente procedimentali (al mero rispetto delle regole del giusto procedimento, a prescindere dall’attualità della lesione a scapito di un interesse sostanziale), il che si porrebbe in evidente contrasto con la tradizionale configurazione dell’interesse legittimo come pretesa sostanziale, il cui oggetto è costituito da reali beni della vita e non dalla mera osservanza delle regole procedimentali da parte dell’Amministrazione.

Nonostante la crescente importanza assunta (sia a livello nazionale che sovranazionale) dal principio del giusto procedimento, deve, tuttavia, escludersi che la pretesa al c.d. “giusto procedimento” sia una presta giuridicamente rilevante a autonomamente azionabile in giudizio a prescindere e ancor prima dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio.

Si deve, in altri termini, escludere che il “giusto procedimento” costituisca, di per sé un bene della vita di cui il privato può chiedere autonomamente la tutela anche autonomamente e separatamente dalla pretesa economico-patrimoniale correlata all’applicazione di sanzioni eventualmente illegittime.

39. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello incidentale condizionato proposto dalla Consob deve, pertanto, essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado deve essere dichiarato inammissibile.

40. La complessità della questioni esaminate giustifica l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello incidentale condizionato e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile il ricorso di primo grado.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 3 febbraio 2015 e 24 marzo 2015 con l’intervento dei magistrati:

 

Luciano Barra Caracciolo, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Claudio Contessa, Consigliere

Gabriella De Michele, Consigliere

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere